
Yuli Tamir
Il cessate il fuoco a Gaza, legato al piano in 20 punti di Donald Trump, è appeso a un filo, minato dalle continue violazioni. Da ultimo, il raid israeliano nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, in ritorsione alla morte di un soldato dell’Idf e alla mancata restituzione dei corpi di 13 ostaggi ancora nella Striscia, ha causato oltre cento vittime. Mentre Hamas accusa il governo di Benjamin Netanyahu di ostacolare l’ingresso dei convogli umanitari, restano molti gli interrogativi verso la cosiddetta “fase due” del piano.
Sulla carta, per ora il gruppo palestinese ha accettato di rinunciare al controllo diretto dell’enclave, ma non la piena smilitarizzazione né la supervisione internazionale prevista dal “Board of Peace” voluto da Trump. Dal piano scompare inoltre la Cisgiordania, alimentando i timori che Israele voglia proseguire su una strada che consolida la separazione tra i due territori palestinesi. In questo contesto, Reset ha intervistato Yuli Tamir, ex ministra dell’Istruzione israeliana, cofondatrice del movimento pacifista Peace Now e oggi presidente del Beit Berl College, per discutere delle prospettive di pace e del futuro politico di Israele.
Quanto è realistico questo piano come percorso verso una pace duratura?
È difficile esprimere un giudizio in questa fase. Del piano di Trump conosciamo solo le linee generali, ma è già evidente che non esiste un accordo dettagliato con Hamas sulla smilitarizzazione, e restano questioni aperte sulla restituzione dei corpi delle vittime israeliane. I primi giorni erano stati segnati da speranza ed entusiasmo, con il ritorno degli ostaggi, ma più emergono dettagli, più la situazione si fa confusa.
Detto ciò, ci sono due aspetti importanti da sottolineare. Il primo è che il linguaggio riportato da Trump nel dibattito mediorientale rappresenta, di per sé, un segnale positivo: si torna a parlare di pace, riconciliazione e negoziato — concetti che fino a poche settimane fa sembravano fuori portata. Ha rimesso al centro l’idea di una soluzione politica per i palestinesi, che si tratti di uno Stato o di un’altra forma di autogoverno. Siamo ancora lontani da quella che Trump chiama “pace eterna”, ma il passaggio da uno stallo totale a un dialogo riaperto è significativo: cambia il quadro del confronto nella regione — e questo, di per sé, è già un risultato.
Il piano per Gaza ignora completamente la Cisgiordania ed esclude una figura centrale come Marwan Barghouti, ancora in carcere. Lo considera parte di una strategia più ampia per mantenere “due Palestine” separate?
Da anni la politica della destra israeliana punta a separare la Cisgiordania da Gaza. Gli eventi terribili a cui abbiamo assistito sono in parte conseguenza della brutalità di Hamas, ma anche del rifiuto israeliano di permettere all’Autorità Palestinese di governare la Striscia e di riconoscere che Gaza e Cisgiordania dovrebbero costituire un’unica entità. Il sostegno del governo a Hamas, mediato dal Qatar, mirava in realtà a impedire che l’Autorità Palestinese consolidasse il proprio ruolo nella Striscia e potesse portare avanti una soluzione politica capace di riunire i due territori sotto un quadro comune a beneficio dei palestinesi.
Questo è uno dei principali punti di frattura tra destra e sinistra in Israele. Nessuno, a sinistra, giustifica o minimizza le atrocità commesse da Hamas, ma la domanda centrale resta: qual è il fine ultimo? Chi cerca una prospettiva di lungo periodo sa che l’unica strada percorribile passa dal considerare Gaza e Cisgiordania insieme — come un’unica regione chiamata a rispondere agli interessi complessivi del popolo palestinese.
Gilles Kepel ha ricordato di recente come, nel 2011, Netanyahu favorì la liberazione di Yahya Sinwar con l’obiettivo di mantenere separata Gaza dalla Cisgiordania, affidandola a un leader islamista ritenuto “gestibile”. C’è oggi il rischio di tornare a una sorta di patto tacito tra Israele e Hamas, soprattutto alla luce del ruolo di “polizia locale” che il movimento sembra ora svolgere?
Dal punto di vista israeliano Hamas ha perso ogni legittimità, se ne ha mai avuta. Per chiunque aspiri alla pace e alla riconciliazione in Medio Oriente, Hamas è sempre stato un nemico: un movimento jihadista e militante, il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di Israele. La collaborazione che in passato Tel Aviv ha intrattenuto con Hamas è stata un errore grave e irresponsabile. L’illusione di poter utilizzare Hamas per fini tattici e poi controllarlo a piacimento è ormai completamente screditata.
Eppure Trump ha lasciato intendere che ad Hamas sarebbe stato concesso di operare come forza di polizia palestinese a Gaza “per un periodo di transizione” nella prima fase dell’accordo…
Hamas non può essere eliminato con la forza. Continua a esistere perché manca un’intesa politica di respiro regionale, che coinvolga i Paesi arabi insieme all’Autorità Palestinese. Il primo ministro Netanyahu ha commesso un grave errore nel non partecipare all’incontro di Sharm el-Sheikh: è quel tipo di coalizione che Israele dovrebbe costruire, insieme a leader arabi legittimati e impegnati nella stabilità e nella riconciliazione della regione. Puntare ancora una volta su Hamas o su altri gruppi armati di Gaza è un’illusione pericolosa.
Come sta reagendo l’opinione pubblica israeliana a questo accordo? Dopo mesi di guerra, ritiene che esista una reale apertura verso l’idea di convivenza?
È ancora troppo presto per dirlo. La liberazione degli ostaggi ha suscitato un enorme sollievo: dall’esterno è difficile capire quanto profondamente gli israeliani si siano sentiti coinvolti a livello personale. È stato un momento straordinario di solidarietà collettiva. Non c’è ancora stato il tempo per riflettere su cosa accadrà dopo. Ma è chiaro che chi ha sostenuto il ritorno degli ostaggi condivide tre elementi: il desiderio che tornassero a casa, una forte critica al governo Netanyahu e una possibile apertura verso nuovi passi di riconciliazione — a patto che si inseriscano in un processo regionale più ampio.
Che Paese è Israele a due anni dal 7 ottobre 2023?
È diventato un Paese triste. È un luogo segnato dalla guerra, dal trauma e dal destino degli ostaggi. Molti, me compresa, sono profondamente coinvolti ma anche molto critici rispetto a quanto è accaduto a Gaza durante il conflitto. La nostra società vive sotto un peso enorme.
Il ritorno degli ostaggi è stato un potente momento di catarsi nazionale, ma la catarsi è un istante, non un processo. Quando passa, il peso ritorna. Stiamo ancora affrontando la lotta contro un governo che sta spingendo Israele verso un sistema sempre più autocratico. La riforma giudiziaria — che molti israeliani definiscono una “rivoluzione del regime” — è tornata all’ordine del giorno, minacciando l’equilibrio dei poteri tra esecutivo e Corte Suprema. Le persone non hanno ancora avuto il tempo di elaborare tutto questo. Ma credo che, nel giro di poche settimane, assisteremo a una nuova ondata di proteste politiche.
Netanyahu è rimasto al potere per tutta la durata della guerra, nonostante i processi per corruzione ancora in corso. Alcuni analisti sostengono che il conflitto gli abbia anche fornito uno scudo contro ogni forma di responsabilità politica. E adesso?
Il processo per corruzione contro Netanyahu è ripreso. È evidente che sta facendo di tutto per evitarlo. Conosce bene le proprie vulnerabilità e usa ogni strumento possibile per rinviare l’iter giudiziario.
Ricordava l’assenza di Netanyahu dal vertice di Sharm el-Sheikh. Può essere interpretata come un segnale della sua imminente caduta politica?
Rientra in un preciso calcolo politico: il suo governo è fragile, e Netanyahu teme che, se dovesse cadere, non verrebbe rieletto. Per mantenersi al potere, evita qualsiasi mossa che possa irritare i suoi partner di coalizione. È noto che si sia opposto per mesi anche al rilascio degli ostaggi, quando sarebbe stato possibile, pur di tenere in vita il proprio governo.
Questo è un primo ministro disposto a compromettere gravemente gli interessi del suo stesso Paese pur di restare al potere, e ciò non è cambiato. La sua priorità assoluta resta conservare la carica di premier.
Yair Lapid, leader dell’opposizione israeliana, ha recentemente definito i manifestanti internazionali contro la guerra “manipolati da esperti di propaganda finanziati con denaro del terrorismo”. Come interpreta queste parole?
Lapid non è un vero leader dell’opposizione e questo è parte del problema politico di Israele oggi. Le proteste all’estero nascono da un intreccio di fattori: la guerra stessa, le operazioni condotte a Gaza, l’antisemitismo e la propaganda. Liquidarle tutte come frutto di manipolazione è troppo semplicistico. È evidente come l’opinione pubblica internazionale sia cambiata prima e durante la guerra, e quanto questo abbia inciso sulla percezione di Israele nel mondo.
Israele non ha giocato bene le proprie carte. Proseguendo la guerra a Gaza, provocando un numero così alto di vittime e una distruzione così estesa, ha agito contro i propri stessi interessi. Non era necessario, né per la sicurezza del Paese né per la sorte degli ostaggi. Abbiamo superato un limite, e il mondo se n’è accorto.
Qual è la vera sfida ora?
Ricostruire la fiducia. Come ha detto Trump durante la sua visita in Israele, non si può combattere contro tutto il mondo. Israele deve trovare il modo di convivere con i propri vicini, riconciliarsi e aprire una nuova fase regionale. L’alternativa — chiudere gli occhi, lasciare che Hamas torni a controllare Gaza e aggrapparsi all’illusione di una stabilità temporanea — è una strada pericolosa che non fa che rimandare una soluzione reale.
Immagine di copertina: alcuni membri delle forze di sicurezza interna legati a Hamas gestiscono un checkpoint al campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza, il 12 ottobre 2025 (foto di Eyad Baba / AFP).


