La profondità della trasformazione avvenuta in Siria e in Libano dopo gli sconvolgimenti del 2024 si può cogliere in quello che non è un dettaglio: il ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shaibani si è recato in visita ufficiale a Beirut per definire il nuovo accordo giudiziario tra i due Paesi. Per gli Assad, il Libano al massimo era un protettorato. La caduta di Bashar Al-Assad e l’eliminazione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, insieme all’intera catena di comando del Partito di Dio, hanno segnato un punto di svolta. Ma la Siria ancora non sa verso cosa si stia muovendo, e il Libano non è certo di saper camminare da solo; entrambi restano nel disastro economico. La vera novità è che la comunità internazionale continua a sostenerli, anche se i sauditi – i principali donatori – lasciano intendere chiaramente di aspettarsi maggiore consapevolezza tanto dai leader siriani quanto da quelli libanesi. In Siria, soprattutto, resta un’incognita il presidente pro-tempore, l’ex jihadista Ahmed al-Sharaa: sarà il paio di scarpe sporche che traghetterà la Siria oltre il guado, o piuttosto gli stivali chiodati di chi creerà un monocolore islamista, culturalmente opposto ma strutturalmente copiato dalla vecchia Siria? Forse conviene partire da qui.
Per i critici siriani più severi di al-Sharaa, con lui si sarebbe al celebre “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, la citatissima affermazione pronunciata da Tancredi nel romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il centralismo di Assad è nella struttura mentale di al-Sharaa e dei fondamentalisti di scuola salafita che governano con lui; il monocolore con cui al-Sharaa gestisce esercito, presidenza, governo e parlamento è solo una necessità davanti all’emergenza? Sin dal primo giorno al vertice, al-Sharaa ha detto che una Siria federale non gli interessava, ma che avrebbe comunque coinvolto tutte le componenti del Paese. In questi dieci mesi non è andata così: curdi, alawiti e drusi, le principali minoranze, non hanno trovato spazio reale nel governo, come tutti i cittadini non affiliati alla corrente salafita da cui proviene lo stesso al-Sharaa. I pochi ministri attribuiti “alle minoranze” sembrano star lì come le decorazioni. La stessa Dichiarazione Costituzionale è stata varata da al-Sharaa smentendo solenni promesse pluraliste precedenti e senza reali consultazioni. Tutto il sistema provvisorio che ha creato – presidenza provvisoria, governo provvisorio, parlamento nominato e non eletto, provvisorio – ricalca un centralismo monopartitico che ricorda quello del passato.
Ma ciò che più preoccupa i suoi critici è la presenza di molti jihadisti stranieri nel suo esercito nazionale, anche questo molto provvisorio. Il risultato sono stati i massacri di alawiti e drusi in rapida successione, con autentiche carneficine di civili, che invece che ridurre hanno radicalizzato il dissenso di due comunità che, guarda caso, sono considerate religiosamente eretiche. Dunque il connotato è di un temuto integralismo religioso, sebbene i dissidi fossero sulla struttura centralista dello Stato. Di qui anche il dissidio con l’altra comunità decisiva, la più numerosa, i curdi. Loro governano in autonomia il nord-est della Siria (anche noto come Rojava), un territorio ampio e ricco di risorse che condividono con diverse tribù arabe. Da marzo, Al-Sharaa cerca un accordo per integrare le forze militari curde nel suo esercito, un negoziato che ha avuto alti e bassi. A loro ha fatto promesse costituzionali, disattese e ora rinnovate.
Non è un contesto fatto per filosofeggiare quello della Siria che governa: bande armate ovunque, criminalità dilagante, città distrutte, agricoltura in rovina, popolazione alla fame. Eppure i numerosi protocolli d’intesa firmati dal nuovo presidente per attrarre investimenti stranieri – soprattutto arabi – restano sulla carta. Non solo perché la violenza è fuori controllo e la fame alimenta la criminalità, ma anche perché, agli occhi dei sauditi, il presidente non appare un interlocutore affidabile. Dopo dieci mesi, scorgono ancora troppo fondamentalismo, troppo salafismo? È la tesi di alcuni, mentre altri vedono nella grande spedizione saudita per rimettere in piedi la sanità la prova di una perdurante apertura di credito.
Al-Sharaa dipende da chi lo ha fatto arrivare vittorioso a Damasco nel dicembre 2024: la Turchia, che – con l’evidente via libera di russi, sauditi e americani – lo ha sostenuto e oggi lo aiuta a creare un esercito, fornendogli armi e consiglieri militari. È Ankara che lo orienta, in primis, ma è evidente anche il peso del beneplacito saudita, visto che Recep Tayyip Erdoğan ha accettato che il sostegno di Donald Trump, con il quale è in ottimi rapporti, arrivasse dopo un colloquio con il saudita Mohammed bin Salman. Il presidente americano ha tolto le sanzioni presidenziali, favorito un analogo processo alle Nazioni Unite e ottenuto dal Senato il consenso per revocare anche le sanzioni parlamentari contro la Siria. Trump è ora impegnato a far approvare il provvedimento anche dalla Camera dei Rappresentanti, dove sono emerse però resistenze. È un passo decisivo per rilanciare l’economia siriana, ferma a una crescita di appena l’un per cento rispetto all’anno scorso.
Al-Sharaa in queste condizioni può non tenere nelle sue mani tutto il potere, presidenziale e governativo? Resta il fatto che ha varato una Dichiarazione Costituzionale tradendo le promesse iniziali e che scontenta tutti gli altri per rigidità analoghe a quelle di Assad. Non ha ancora avviato la discussione legislativa sulla formazione di partiti politici. Dopo la possibile vittoria sulle sanzioni, saprà aprirsi a contributi esterni e avviare finalmente una politica inclusiva?
È ciò in cui confidano gli ottimisti, ed è proprio ciò di cui dubitano i pessimisti. Un nome, però, sembra far capire il possibile futuro: quello di Manaf Tlass, uno dei più stretti alleati di Bashar al-Assad, l’uomo che per primo scelse la via dell’esilio dopo l’inizio della guerra civile nel 2011, convinto che il presidente stesse sbagliando tutto. Disertò insieme a molti altri per non sporcarsi con l’orrenda repressione. Dal suo esilio parigino, Tlass è tornato a parlare e ha fatto intendere che diversi leader politici e militari – con i relativi soldati semplici, appartenenti a varie confessioni religiose, che li seguirono nella diserzione – sarebbero disposti a dare una mano per stabilizzare il Paese. Figura in grado di offrire garanzie agli alawiti non compromessi con la repressione operata dal regime, che conosce bene, e apprezzato da settori della borghesia sunnita, Tlass sarebbe stato in questi giorni ad Ankara per colloqui politici con ambienti vicini ad Erdoğan.
Senza stabilità interna la Siria difficilmente potrà sfruttare l’opportunità offerta dalla rimozione delle sanzioni. Erdoğan, che ha investito molto in una Siria amica e sotto la sua supervisione militare, potrebbe apprezzare l’idea, ma a Damasco pochi sperano in una loro convivenza se non imposta dall’estero. Nel frattempo, il ritorno dell’Isis – che oltre agli attacchi contro i curdi ha ripreso a colpire anche l’esercito del “traditore” al-Sharaa, come è accaduto di recente nella Siria centrale e nel Sud – dimostra che il tempo stringe.
Al-Sharaa sembra condizionato dagli estremisti interni alla coalizione che lo sostiene, ma è anche consapevole che gli ex jihadisti di cui il suo esercito è pieno non bastano a contrastare l’Isis. Li conoscono bene – vengono dalle stesse fila – ma proprio per questo allarmano tutti gli altri soggetti siriani, contribuendo a radicalizzarli contro il governo. Forse sospettoso anche del possibile protagonismo di Tlass, al-Sharaa ha riaperto il dialogo con i curdi. Con loro ha convenuto che, se non fossero entrati nell’esercito nazionale come avrebbero voluto – cioè in un corpo militare unico e omogeneo – non lo avrebbero fatto neppure alla spicciolata, ma attraverso tre battaglioni e alcune brigate. Un frazionamento accettato da entrambe le parti: se dovesse funzionare sul piano della sicurezza interna, rappresenterebbe un passo avanti importante. Accanto a questa intesa, al-Sharaa ha riproposto le modifiche costituzionali in chiave garantista (come il riconoscimento del curdo come seconda lingua nazionale) che aveva fatto e tradito a marzo. Poi è andato a Mosca, dove ha confermato a Vladimir Putin tutti i trattati-capestro per la Siria, quelli siglati quando Mosca salvò Assad, sperimentando nel Paese 320 nuovi tipi di armi ed effettuando 1.262 incursioni aeree contro installazioni civili; tutto ciò fruttò a Mosca enormi basi navali e aeree oltre alla lucrosa estrazione dei fosfati. In cambio al-Sharaa otterrebbe non le scuse di Mosca al popolo siriano ma il suo aiuto per stabilizzare e rasserenare gli alawiti, presso i quali i russi operano da decenni.
L’accordo con i curdi però, sempre ventilato, rimane ancora in sospeso: forse al-Sharaa per dare il sì definitivo e cambiare quindi in modo profondo la realtà siriana (geografica, politica e militare) aspetta la rimozione definitiva delle sanzioni e di compiere quindi i passi necessari per entrare davvero nella coalizione internazionale contro l’Isis. Sa che l’idea di governare da solo con i suoi ascari alla lunga non può funzionare, ma senza ossigeno, sostiene chi dimostra comprensione, non avrebbe altre opzioni che tenere tutti i suoi alleati con sé.
Il vicino Libano, invece, sa bene chi è il suo presidente, Joseph Aoun. Da subito ha dimostrato senso dello Stato, sin dal giorno in cui, a inizio anno, è stato eletto tirando il Paese fuori dal baratro istituzionale che – sommato al crollo economico seguito al default del 2019 e all’arrivo di un milione e mezzo di sfollati dopo la guerra con Israele – stava portando il Libano alla morte cerebrale. Così Hezbollah appare nudo: la “vittoria” di cui parla è sofferenza, macerie, autodistruzione, ma soprattutto è la prova che la “resistenza”, la sua proclamata ragion d’essere, non ha senso se chi la fa è contro lo Stato.
Il cessate il fuoco firmato un anno fa, con il consenso dei khomeinisti di Hezbollah e recepito da una risoluzione dell’Onu, prevede il ritiro israeliano e il disarmo del Partito di Dio. Parte del lavoro è stata fatta: fonti internazionali riferiscono della confisca di 10mila razzi e 400 missili. Ora però il governo libanese è alle prese con il tentativo di Hezbollah di salvare ciò che resta del suo braccio militare. E questo potrebbe portare ad una nuova guerra.
Il Libano non può accettare che Hezbollah mantenga le armi superstiti, soprattutto se vuole tornare a essere uno Stato sovrano, che non può coesistere con un esercito diretto da altri. Il ginepraio del post-cessate il fuoco sta tutto qui: Israele non lo rispetta e occupa ancora alcuni avamposti in territorio libanese perché il disarmo di Hezbollah non è completo; Hezbollah, a sua volta, non disarma perché Israele non si ritira come ha accettato di fare. Il mondo sa che il nuovo governo libanese, oltre alle citate confische, ha anche ripreso il controllo dell’aeroporto, prima in mano ad Hezbollah, ma sa anche che Aoun non vuole andare da solo fino in fondo per evitare una nuova guerra civile.
Decapitato, il Partito di Dio è ormai gestito direttamente da Teheran, che forse usa quelle armi come carta negoziale con gli americani. Sempre più, però, la linea politica nel campo sciita è dettata da Amal, l’eterno alleato di Hezbollah ma ormai non più suo scendiletto. Amal non ha armi, così guida questo fronte sciita mentre i morti negli attacchi israeliani, più di 320 dal cessate il fuoco di un anno fa, sono tutti di Hezbollah.
In questo contesto, ecco l’ipotesi del presidente Aoun: un disarmo concordato potrebbe scaturire da un negoziato internazionalmente mediato con Israele, diretto o indiretto. Qualche anno fa Hezbollah stesso ha consentito negoziati indiretti con Tel Aviv per la definizione dei confini marittimi, indispensabili a entrambi i Paesi per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo. Perché non fare la stessa cosa per risolvere le restanti controversie? I tetragoni puristi della lotta contro Israele escludono i negoziati diretti; non possono dire di no anche a quelli indiretti, da cogestire però attraverso il famoso triumvirato: il presidente della Repubblica, il capo del governo, ma soprattutto il presidente del Parlamento, da decenni sempre lui, il novantenne leader di Amal, Nabih Berri.
Tutto questo starebbe un po’ stretto ai sauditi. Alcuni arretramenti davanti a forzature di piazza di Hezbollah hanno raffreddato il loro entusiasmo per la conferenza internazionale di sostegno all’esercito libanese. Si terrà, ma non è più sicuro che avrà luogo a Riad. È un segnale forte al presidente Aoun. A lui servono urgentemente i finanziamenti arabi per rafforzare il suo esercito che deve schierarsi nel sud del Libano al posto di Hezbollah: il segnale saudita che risposta avrà? Illudersi che Hezbollah faccia i conti con il principio di realtà è proprio complicato; bisogna stabilire se è ora di forzare la mano o di puntare sui giochi politici di Nabih Berri. Forse Riad ritiene che prendere altro tempo non potrebbe che portare a un nuovo conflitto.
Per procedere verso l’obiettivo, la ricostruzione delle fondamenta dello Stato, il presidente Joseph Aoun e il premier suo alleato, Nawaf Salman, hanno anche bisogno di rianimare il consenso popolare: a questo potrebbe contribuire la visita che sta per compiere in Libano papa Leone XVI. Beirut è la prima metropoli che visiterà da quando è stato eletto. Il viaggio del pontefice nel pieno del confronto sul disarmo di Hezbollah è una delle carte più importanti per ridare visibilità mondiale al Libano, oscurato dal burrone economico in cui è precipitato dal 2019 e aggravato dalla distruzione del porto commerciale di Beirut. Leone vi andrà, a pregare in silenzio: un passo fortissimo. Quell’esplosione è la ferita ancora aperta e la visibilità non sarà un dato effimero, ma un contributo decisivo per ritrovare fiducia nel Paese.
I problemi del Libano partono dal disarmo di Hezbollah, il più impellente e con poco tempo ormai a disposizione. Ma il fatto è che il sistema confessionale su cui è costruito è ormai in crisi aperta. Il ceto politico si è ridotto a una casta che esercita il potere confiscando la rappresentanza delle comunità, e che negli anni sembra aver trovato un tacito accordo di spartizione delle rendite: a Hezbollah i traffici d’armi, a troppi altri la speculazione edilizia. I tracolli degli ultimi anni hanno riaperto le porte della fuga dei cervelli. Se Beirut non è morta, come non è, di certo è tramortita e solo un nuovo patto per la rinascita civile le può restituire quel ruolo di città araba, mediterranea e occidentalizzata che nessun altro può svolgere, ma che è ancora indispensabile per rifare il Mediterraneo: per questo una maggiore attenzione europea al dossier Libano sarebbe importante anche per noi, oltre che per il Libano.
Immagine di copertina: l’incontro a Beirut dei ministri degli Esteri di Libano, Youssef Rajji, e Siria, Asad al-Shaibani, dopo l’incontro il 10 ottobre 2025 (foto di Joseph Eid / Afp).


