Cengiz Aktar: “La Turchia dinanzi all’egemonia di Tel Aviv”

Negli ultimi dieci anni, la Turchia ha cercato di ritagliarsi un ruolo da potenza regionale, oscillando tra ambizione neo-ottomana e pragmatismo economico. Ankara ha moltiplicato i propri interventi: sostenendo il Qatar, affrontando i curdi in Iraq e in Siria, e approfondendo il proprio coinvolgimento in Libia. Tuttavia, dal 7 ottobre 2023, gli equilibri di potere in Medio Oriente si sono nuovamente spostati. La guerra di Gaza, il rimescolamento delle alleanze e l’indebolimento del cosiddetto “Asse della Resistenza” hanno ridimensionato le ambizioni di leadership di Ankara, spiega Cengiz Aktar, dissidente turco e professore di Scienze politiche all’Università di Atene, intervistato da Reset DOC.

 

Dal 7 ottobre 2023, il Medio Oriente è entrato in una nuova fase di instabilità. Da una prospettiva turca, come descriverebbe i principali cambiamenti geopolitici avvenuti in questi due anni?

Stiamo assistendo a un profondo mutamento degli equilibri regionali, segnato dall’egemonia assoluta di Israele e sostenuto non solo dagli Stati Uniti, ma anche dalle principali potenze dell’Europa occidentale. È una novità: Israele oggi ha mano libera nella regione. È sostenuto sistematicamente dai governi occidentali come mai in passato e al suo vertice c’è un governo fascista, appoggiato dalla maggioranza della popolazione israeliana. Si tratta di un’evoluzione di enorme portata, con conseguenze vaste e durature per Israele stesso, per la regione e per il mondo occidentale.

 

Come è cambiato il ruolo della Turchia?

Due anni fa la Turchia non era già una potenza, e gli ultimi eventi a Gaza e nella regione l’hanno ulteriormente indebolita. Le dichiarazioni roboanti che arrivano da Ankara sono una cosa, la realtà un’altra. La Turchia non è minimamente in grado di competere con Israele: dispone di capacità militari e finanziarie limitate e non rappresenta una vera minaccia per Tel Aviv nella regione. Forse in passato la situazione era diversa, ma oggi certamente non più.
Al tempo stesso, la Turchia è rimasta pragmatica e realista, desiderosa di mantenere relazioni commerciali praticamente con tutti. Così, mentre il regime adotta una retorica dura contro Israele – e talvolta apertamente antiebraica – continua a commerciare con Tel Aviv a livelli senza precedenti. Oggi la Turchia è tra i primi cinque partner commerciali di Israele, esportando ogni tipo di materiale non letale e non militare.

 

Come interpreta questa posizione?

Di recente, la Turchia ha acquisito una divisione specializzata della società italiana Piaggio nel settore aerospaziale, che da tempo collabora con Israele. Attraverso questa acquisizione da parte di Baykar – l’azienda della difesa di proprietà del genero del presidente Erdoğan – Ankara ha sviluppato anche una collaborazione con Leonardo, uno dei principali gruppi italiani nel comparto militare. Baykar e Leonardo hanno persino creato una joint venture, LBA Systems, con una partecipazione paritaria al 50 per cento. La stessa Leonardo è citata nel rapporto della relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese, From Economy of Occupation to Economy of Genocide.

I turchi, chiaramente, non si fanno scrupoli a fare affari – anche nel campo delle esportazioni di armi – con Israele. Eppure, il governo turco mantiene una retorica apertamente favorevole ad Hamas, arrivando perfino a ospitare i suoi leader ad Ankara e a Istanbul. È il colmo dell’ipocrisia, una vera e propria schizofrenia politica.

 

Come è vista la posizione del governo Erdoğan dall’opinione pubblica turca, considerando che nel Paese non si sono viste grandi manifestazioni per Gaza, soprattutto rispetto a quelle europee?

L’opinione pubblica turca è in larghissima maggioranza contraria a Israele, ma la gente non può esprimersi liberamente ed è profondamente frustrata. Per il governo, qualunque manifestazione di piazza è considerata rischiosa e potenzialmente pericolosa, e la polizia interviene subito. Le espressioni pubbliche di solidarietà con Gaza o con il popolo palestinese sono strettamente vietate. Eppure i sondaggi non lasciano dubbi: oltre il 90 per cento dei turchi sostiene la causa palestinese.

 

Da un lato c’è la nuova assertività regionale di Israele; dall’altro, l’indebolimento di quello che viene chiamato “Asse della Resistenza” (o “Asse del Male”). Questo mutamento potrebbe aprire nuove opportunità per la Turchia nella regione, magari in termini di alleanze?

È altamente improbabile. La Turchia semplicemente non ha i mezzi per essere all’altezza delle proprie ambizioni. I veri attori della regione oggi sono i Paesi arabi: gli Emirati Arabi Uniti, molto vicini a Israele; il Qatar; l’Arabia Saudita, che gioca un ruolo chiave soprattutto nel dialogo con Washington; e l’Egitto. Restano i grandi interrogativi sull’influenza e sull’assertività di Israele nel lungo periodo, in particolare nei confronti di Siria e Libano. Sarà estremamente difficile per qualsiasi governo israeliano – questo o il prossimo – “gestire” la regione. Israele cercherà di mantenere la propria influenza e il controllo dove può, ma il futuro del Medio Oriente può davvero basarsi solo sulla forza militare? È questa la vera domanda. Alla lunga, il dominio militare non è sostenibile, si rivela sempre controproducente.

 

Negli ultimi due anni, uno degli sviluppi più importanti per la Turchia è stato l’annuncio dello scioglimento del Pkk – il Partito dei Lavoratori del Kurdistan – e della fine della sua lotta armata. Il gruppo ha detto pochi giorni fa che ha ritirato le sue forze in Iraq. Come descriverebbe oggi la situazione e i suoi effetti sulla regione?

Il Pkk non era più attivo in Turchia da anni. Le sue roccaforti nelle montagne di Qandil, nel nord-est dell’Iraq, sono state pesantemente colpite, e la sua attenzione si è spostata sul Rojava, il Kurdistan siriano. Un anno fa, l’alleato di Erdoğan, Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, ha lanciato una nuova iniziativa intitolata “Una Turchia senza terrorismo”, ma non ne è seguito nulla di concreto: nessuna riforma, nessun cambiamento politico.
Il movimento curdo guidato da Abdullah Öcalan è stato di fatto cooptato dal regime, e persino le sue richieste più elementari – come il riconoscimento del curdo come lingua ufficiale – continuano a essere ignorate. Di conseguenza, il movimento curdo in Turchia attraversa una crisi profonda. Molti osservatori prevedono che alle prossime elezioni potrebbe non riuscire nemmeno a entrare in parlamento, a causa della diffusa disillusione tra gli elettori curdi.

 

E in Siria?

Parallelamente, sotto la pressione di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Arabia Saudita – e alla luce delle realtà militari sul terreno – Ankara è stata costretta ad accettare l’esistenza della Regione autonoma nel nord-est della Siria (anche nota come Rojava), guidata dalle forze curde. Sebbene i curdi costituiscano solo una minoranza della popolazione – circa tre milioni di persone su un totale di circa 25 milioni – sono loro a guidare l’amministrazione insieme ad arabi, armeni, siriaci e turkmeni. Questa realtà è ormai irreversibile.

 

Quindi, la Turchia non cercherà di approfittare del cambio di regime in Siria?

Ankara continua a sostenere di voler contribuire alla creazione di un nuovo esercito siriano. Ma ne esiste già uno, non c’è bisogno di un secondo. Finché americani, francesi e britannici resteranno coinvolti, sarà estremamente difficile modificare gli equilibri di potere. Il rappresentante speciale degli Stati Uniti per la Siria, che è anche ambasciatore americano ad Ankara, è Tom Barrack. Magnate del settore immobiliare, vicino a Trump e di origini libanesi, conosce bene la regione e i suoi principali protagonisti.
Solo pochi giorni fa, Mazloum Abdi, comandante in capo delle forze militari dell’Amministrazione autonoma della Siria nordorientale, è volato a incontrare Ahmad Al-Sharaa, il primo ministro autoproclamato a Damasco. I due si erano già visti a marzo e il dialogo prosegue sotto gli auspici di Stati Uniti, Francia e Regno Unito. La Turchia, semplicemente, non fa parte di questo quadro.

 

L’influenza della Turchia in Medio Oriente sembra essersi quindi ridotta. È perché il presidente Erdoğan oggi si concentra più sulla politica interna che su quella estera?

Non proprio. L’attuale regime resta ansioso di giocare un ruolo attivo nella regione, è da lì che sono nate le sue prime interferenze esterne. Prima del 2011, cioè dalla fondazione della Repubblica turca nel 1923, la Turchia non si era mai coinvolta negli affari dei suoi vicini meridionali o orientali: è sempre stata un Paese orientato verso l’Occidente. Questo attivismo regionale è, di fatto, un fenomeno nuovo per la Turchia. Oggi il governo nutre ambizioni in tutta l’area, non solo nel Mashreq ma anche nel Maghreb. La Libia, ad esempio, riveste un’importanza particolare per via della storia condivisa con la Turchia e con l’Italia. Il triangolo Turchia-Libia-Italia merita attenzione: sebbene Ankara abbia un’influenza limitata nel proprio immediato vicinato, è diventata un attore rilevante in Libia.

Oltre a questo, la Turchia vende i propri droni a chiunque sia disposto ad acquistare equipaggiamenti economici. Ma non si diventa una potenza globale in questo modo. Per sviluppare capacità reali, serve tecnologia avanzata – da qui l’importanza dell’acquisizione di Piaggio e, per così dire, della possibilità di sedersi allo stesso tavolo di Leonardo. La Turchia manca ancora della capacità tecnologica necessaria per far progredire la propria produzione militare ad alto livello.

 

 

Immagine di copertina: i militanti del Pkk annunciano alla stampa di aver completato il ritiro delle forze dalla Turchia, alla stampa a Qandil, nell’Iraq settentrionale il 26 ottobre 2025 (foto di Shwan Mohammed / Afp)

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