Iran: fine dell’Asse e adattamento strategico

Negli ultimi due anni, l’Iran ha subito i colpi più duri alla propria capacità di deterrenza dai tempi della fondazione della Repubblica islamica, perdendo gran parte dell’influenza regionale che un tempo esercitava attraverso i suoi fedeli proxy in Iraq, Siria, Libano e perfino nello Yemen. Un tempo in grado di mobilitare forze alleate in tutto il Medio Oriente per perseguire interessi comuni contro Israele, Teheran si trova oggi in una posizione strategica drasticamente ridimensionata. Dopo gli attacchi di Hamas dell’ottobre 2023, Tel Aviv ha colpito sistematicamente i proxy iraniani: ha messo in ginocchio Hamas a Gaza, indebolito Hezbollah in Libano e, con il crollo del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, privato l’Iran del suo alleato siriano. I successivi raid israeliani in profondità nel territorio iraniano hanno ulteriormente messo a nudo le falle dell’intelligence di Teheran, la limitata capacità militare e il crescente isolamento diplomatico. Tuttavia, l’attuale arretramento dell’Iran e dei suoi alleati non equivale a un collasso, ma rappresenta piuttosto una fase di ricalibrazione strategica all’interno di un ordine regionale in evoluzione, segnato dal multi-allineamento e dallo spostamento dei centri di potere.

 

L’erosione dell’Asse della Resistenza

I bombardamenti israeliani sull’Iran del giugno 2025 hanno rappresentato un punto di svolta. Per la prima volta Tel Aviv ha colpito direttamente le infrastrutture nucleari e militari iraniane, rivelando gravi debolezze nelle difese e nell’apparato di intelligence di Teheran. Lo scontro, durato dodici giorni e giunto dopo anni di guerra ombra tra i due rivali, ha infranto l’illusione che l’Iran potesse continuare a contare sull’ambiguità strategica e sulla deterrenza per procura, evidenziando al contempo il suo crescente isolamento diplomatico. A peggiorare la situazione, la campagna israeliana di assassinii mirati ha decapitato nodi nevralgici della rete regionale iraniana. Le uccisioni del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran e dello storico capo di Hezbollah Hassan Nasrallah a Beirut hanno avuto un valore tanto simbolico quanto strategico. Entrambi incarnavano la portata ideologica e operativa dell’Iran nella regione, e le loro morti – insieme alla contenuta reazione dell’Iran che ne è seguita – hanno mostrato fino a che punto si sia erosa la capacità di deterrenza iraniana.

In Libano, Hezbollah è stato costretto in una postura difensiva senza precedenti: le sue finanze sono in difficoltà e la sua influenza politica è messa in discussione da un governo più assertivo e da una popolazione sempre più stanca. A Gaza, le infrastrutture di Hamas sono ridotte in macerie e l’Iran, stretto tra sanzioni e vincoli logistici, non è più in grado di fornire al gruppo un sostegno materiale significativo. In Iraq, le milizie filo-iraniane esistono ancora, ma la loro libertà d’azione è limitata: la crescente cooperazione di Baghdad con gli Stati Uniti e le pressioni interne ne hanno ridotto drasticamente le attività. Nel frattempo, in Yemen, gli Houthi continuano a lanciare attacchi nel Mar Rosso, ma sono stati indeboliti dai raid israeliani e statunitensi e restano troppo lontani per incidere in modo decisivo sul “fronte palestinese”. La Siria – un tempo snodo vitale che collegava l’Iran al Libano e ai territori palestinesi – è ormai sfuggita al controllo di Teheran dopo la caduta di Assad, privando l’Iran di un pilastro essenziale della sua architettura regionale. Nel loro insieme, questi sviluppi rappresentano un indebolimento storico del cosiddetto “Asse della Resistenza”.

 

L’isolamento diplomatico dell’Iran

Con l’indebolirsi della rete di alleati per procura, Teheran si è ritrovata sempre più isolata. Nonostante anni di cooperazione durante la guerra civile siriana, la Russia ha offerto solo un appoggio retorico all’Iran durante gli attacchi israeliani del giugno 2025, alimentando la diffidenza all’interno della leadership iraniana. Le notizie secondo cui Mosca avrebbe trattenuto informazioni di intelligence – e forse persino condiviso dati con Israele – hanno messo in luce l’asimmetria del loro rapporto. La Russia considera l’Iran un alleato minore e sacrificabile: utile come strumento di pressione contro l’Occidente, ma inaffidabile nei momenti di crisi. Il sostegno di Teheran a Mosca nella guerra in Ucraina ha ulteriormente compromesso i già fragili rapporti con l’Europa.

L’impegno della Cina nei confronti dell’Iran riflette una dinamica analoga. Pechino resta il principale acquirente del petrolio iraniano – quasi il 90 per cento delle esportazioni – ma evita ogni coinvolgimento militare, privilegiando la stabilità regionale rispetto a un allineamento con Teheran. Le sue continue forniture di armi a Paesi del Golfo alleati degli Stati Uniti, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, confermano questo approccio pragmatico. Per Teheran, la dipendenza economica dalla Cina rappresenta una boccata d’ossigeno sul piano finanziario, ma offre scarse garanzie strategiche.

A livello regionale, gli Stati arabi un tempo aperti a un disgelo con l’Iran – come Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto – oggi puntano su stabilità e modernizzazione economica, rafforzando la cooperazione in materia di sicurezza con Israele sotto l’egida americana. Documenti trapelati che confermano consultazioni militari regolari tra Israele e i Paesi arabi, insieme all’esclusione dell’Iran dai recenti negoziati per il cessate il fuoco a Gaza, illustrano chiaramente la crescente marginalizzazione di Teheran e l’erosione della sua influenza nella regione.

 

Il ritorno delle sanzioni e la nuova strategia di Teheran

Se la posizione geopolitica e militare dell’Iran appare precaria, le prospettive economiche sono ancora più fosche. La riattivazione delle sanzioni Onu da parte di Regno Unito, Francia e Germania nell’agosto 2025 ha chiuso definitivamente ogni spiraglio di sollievo. A ciò si aggiunge la campagna di “massima pressione” di Washington, che aveva già paralizzato l’accesso dell’Iran al sistema bancario globale e agli investimenti esteri. La valuta nazionale continua a perdere valore, l’inflazione resta fuori controllo e anni di siccità e cattiva gestione hanno prodotto blackout cronici e gravi carenze idriche. Sul piano interno, la Repubblica islamica deve affrontare una crescente stanchezza sociale. Dopo anni di difficoltà economiche, proteste e repressione politica, molti iraniani sono ormai esausti dalle costose avventure regionali del loro governo. La pazienza della popolazione si assottiglia di fronte a una leadership che continua a privilegiare la “resistenza” rispetto al benessere quotidiano. Tuttavia, nonostante la disillusione diffusa, l’assenza di un’opposizione coerente o di una leadership carismatica ha lasciato la Repubblica islamica come l’unica struttura politica ancora in piedi – logorata, ma sopravvissuta.

Il governo di Masoud Pezeshkian e il ministro degli Esteri Abbas Araqchi si trovano ora sotto il fuoco incrociato di riformisti e conservatori. I conservatori li accusano di eccessiva passività verso l’Occidente, mentre i riformisti li rimproverano per il loro immobilismo e per la decisione di non partecipare al Vertice per la Pace di Gaza tenutosi a Sharm el-Sheikh.

In questo contesto, l’adozione da parte di Teheran di una postura più prudente e difensiva, volta a evitare un’escalation diretta con Israele, appare meno una scelta strategica che una necessità dettata dalle circostanze. La deterrenza militare della Repubblica islamica è stata scossa, le sue fondamenta economiche indebolite e la sua attrattiva ideologica sbiadita. L’Iran ha così intensificato i contatti con Paesi al di fuori del blocco occidentale, cercando di consolidare i legami con Russia, Cina e membri del cosiddetto Sud globale.

Questa strategia riflette la dottrina del “Guardare a Est” promossa dalla Guida Suprema Ali Khamenei, che mira a contrastare le pressioni occidentali ancorando l’Iran a reti economiche e geopolitiche alternative. Lo scorso luglio, il ministro degli Esteri Araqchi ha partecipato al vertice dei Brics – che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – a Rio de Janeiro, mentre all’inizio di settembre Pezeshkian ha preso parte al summit dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) a Tianjin. Teheran considera questi incontri piattaforme essenziali per rafforzare la propria posizione in un contesto di sanzioni e isolamento.

All’interno di queste alleanze, l’Iran mira sia a ottenere una legittimità diplomatica nel nuovo ordine multipolare emergente, sia a garantirsi un sollievo economico che gli permetta di aggirare le sanzioni e diversificare i propri mercati. Oltre alla Cina – il suo principale partner commerciale, che rappresenta circa il 30 per cento del commercio totale dello Stato – Teheran ha cercato di rafforzare la cooperazione economica con altri Paesi del Movimento dei Non Allineati, il più vasto raggruppamento internazionale al di fuori del sistema Onu. Nel 2023, le esportazioni iraniane hanno raggiunto i 2,18 miliardi di dollari verso la Turchia, un miliardo verso l’India, 943 milioni verso il Pakistan (con un nuovo accordo volto ad ampliare gli scambi da 3 a 10 miliardi) e 453 milioni verso gli Emirati Arabi Uniti (fonte: Observatory of Economic Complexity). Tuttavia, queste nuove partnership, pur avendo una funzione politica utile, restano economicamente limitate e, nei casi della Cina e della Russia, segnate nel breve periodo da una forte asimmetria strategica.

 

Adattamento strategico e sfide di stabilità in Medio Oriente

I recenti arretramenti subiti dall’Iran in Medio Oriente hanno imposto una ricalibratura strategica, mentre la Repubblica islamica si trova a dover gestire un’influenza regionale ridotta, un isolamento crescente, tensioni interne e capacità economiche e militari limitate. Tuttavia, la fragilità dell’attuale ordine regionale – così come la resilienza dell’Iran – non dovrebbe essere sottovalutata. Le analisi sulla postura regionale di Teheran si sono spesso concentrate in modo ristretto sulle sue alleanze militari e sulle reti di proxy, trascurando le dimensioni economiche e finanziarie che sostengono la sua influenza. Come ha messo in evidenza un recente rapporto del Chatham House, l’Iran e l’Asse della Resistenza hanno utilizzato sistemi complessi di commercio energetico e finanziario per aggirare sanzioni e vincoli esterni. In un ordine globale in trasformazione, Teheran ha saputo adattarsi stringendo legami pragmatici sia con Stati affini sia con Paesi vicini agli interessi occidentali. La sua strategia oggi si fonda meno sulla resistenza ideologica e più sull’interdipendenza economica e su un coinvolgimento regionale flessibile.

Inoltre, i membri dell’Asse hanno storicamente sfruttato i vuoti di governance per trasformare le crisi in opportunità di influenza sociale e politica. Sebbene oggi appaiano come una rete frammentata più che un progetto geopolitico unitario, essi conservano la capacità di colmare i vuoti istituzionali in Stati fragili come Libano, Siria, Iraq e Palestina – offrendo servizi, occupazione e welfare laddove i governi falliscono – rafforzando così la propria legittimità. Il Libano ne è un esempio emblematico: il nuovo governo ha ereditato uno Stato debole e non dispone dei mezzi per sfidare Hezbollah senza un sostegno esterno, mentre l’assistenza degli Stati Uniti e di altri attori internazionali è rimasta in gran parte limitata agli aiuti umanitari. Dopo l’insediamento di Aoun, Washington ha persino congelato i finanziamenti destinati alle forze armate libanesi, mentre Hezbollah mantiene un forte radicamento comunitario.

Infine, le politiche regionali aggressive di Israele – a Gaza, così come nei suoi attacchi contro Iran, Libano, Siria, Qatar e Yemen – hanno lasciato profonde ferite nell’opinione pubblica mediorientale. Un sondaggio dell’Arab Center for Research and Policy Studies (ACRPS) ha rilevato che il 77 per cento degli intervistati considera gli Stati Uniti e Israele le principali minacce alla stabilità regionale, contro appena il 7 per cento che indica l’Iran come minaccia primaria. Ciò suggerisce che, nonostante il riavvicinamento pragmatico di diversi governi arabi a Israele, il risentimento popolare rimane forte – e in crescita. In Arabia Saudita, ad esempio, l’opposizione al riconoscimento di Israele è salita dal 38 per cento nel 2022 al 68 per cento nel gennaio 2024 (ACRPS). L’opinione pubblica va dunque considerata un fattore essenziale in qualsiasi valutazione di lungo periodo della regione.

In conclusione, l’Iran sembra passare da una postura di espansione regionale a una di contenimento strategico, privilegiando la resistenza pragmatica rispetto alla leadership ideologica. La sua futura influenza dipenderà sempre meno dall’esibizione di forza militare e sempre più dalla capacità di valorizzare la diplomazia, l’impegno economico e la coesione interna. Altrettanto decisivo sarà il ruolo degli attori regionali e globali nel promuovere una stabilità duratura attraverso uno sviluppo inclusivo e iniziative diplomatiche costanti. In assenza di una gestione attenta, i rancori irrisolti e la marginalizzazione sociale rischiano di creare le condizioni fertili per nuova instabilità e per l’ascesa di forze dirompenti.

 

 

Immagine di copertina: i funerali di Stato in Piazza Azadi a Teheran per i circa 60 comandanti militari e scienziati iraniani uccisi nei bombardamenti israeliani. 28 giugno 2025 (Foto di Nikan / Middle East Images via AFP)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *