Quali sono i parametri di un ipotetico “nuovo Medio Oriente” che sta emergendo dopo il terribile 7 ottobre 2023? Oltre l’indicibile tragedia di Gaza – non solo drammaticamente umanitaria, ma tale anche in termini di incongruenza politica – si stagliano alcuni marcatori recenti, che facilitano la comprensione del tentativo di riassetto della regione, non certo nella direzione della stabilità, ma più verosimilmente in quello di una fase armistiziale comunque benvenuta, sia pure a certe condizioni, nella misura in cui essa possa creare le condizioni per un vero spazio negoziale sui fondamentali del conflitto.
Quale pace dopo l’armistizio?
Il piano di pace (che non è ancora un piano ma, per ora, una precaria tregua bilaterale e un’agenda negoziale) in 20 punti annunciato da Donald Trump e Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca contiene elementi che devono essere realizzati attraverso una trattativa, come avvenuto per il cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e la liberazione dei prigionieri palestinesi. Manca ancora la totale e incondizionata riapertura dei valichi, indispensabile per consentire l’accesso degli aiuti umanitari. Questi, legati alla sopravvivenza stessa della popolazione, non possono essere vincolati ad altre condizioni esterne (come, ad esempio, il comportamento di Hamas). È cosa assai positiva che si ribadisca che nessun palestinese di Gaza sarà costretto a lasciare la Striscia e che Israele non occuperà o annetterà Gaza, ma ciò non implica automaticamente che Israele si ritirerà del tutto. La smilitarizzazione di Gaza riguarda in primo luogo Hamas, ma dovrebbe riguardare a maggior ragione anche Israele in quanto presente militarmente nella Striscia.
Quale governo per Gaza?
Gli elementi di (relativa) novità riguardano il governo della Striscia, che dovrebbe essere affidato a un comitato palestinese “tecnocratico e apolitico”, come già previsto nel piano di pace arabo, ma con la “supervisione” di una sorta di “Consiglio di Amministrazione” (Board) presieduto nientemeno che dallo stesso Trump e da altre personalità internazionali (tra cui, pare, Tony Blair). Il rischio è che, senza un coinvolgimento pieno delle pur deboli istituzioni palestinesi, assomigli troppo a uno schema coloniale, una “Nuova Compagnia delle Indie orientali” patrimonialista per Gaza. La sicurezza, invece, dovrebbe essere garantita da una “Forza internazionale di stabilizzazione” destinata a subentrare progressivamente all’esercito israeliano. Israele intende però esercitare una sorta di diritto di veto sulla composizione di tale forza che, per essere davvero credibile, dovrà ricevere un mandato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Una missione internazionale di monitoraggio rafforzato è il massimo che ci si può aspettare, non certo una missione di “peace-enforcing”, peraltro una configurazione inesistente nel panorama internazionale, se non nella forma di interventi militari nazionali o coalizionali ben al di fuori del quadro delle Nazioni Unite. Ma il monitoraggio dovrà essere bilaterale, non solo verso Hamas e le forze terroristiche e criminali all’interno della Striscia, ma anche verso l’Idf e il suo ritiro. Il disarmo di Hamas potrà verosimilmente avvenire in due modi: attraverso il riassorbimento delle milizie nelle forze di sicurezza palestinesi (l’Anp da tempo afferma il principio “one land, one government, one gun” per i palestinesi) oppure tramite un complesso programma di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr) gestito da una qualche Autorità internazionale. È un punto molto arduo, perché Hamas lega il suo disarmo a una condizione assai difficile da realizzare a breve termine: la “fine dell’occupazione” israeliana.
Tra i 20 punti troviamo anche la ricostruzione (il cui costo è stimato a oltre 50 miliardi di dollari), che però assomiglia parecchio a un gigantesco progetto di sviluppo immobiliare (la “Riviera”, uscita dalla porta, rischia di rientrare dalla finestra), con la creazione di zone economiche preferenziali nella Striscia e un piano economico-finanziario targato esplicitamente “Trump”. In sostanza, molti punti ricordano il documento “Peace to Prosperity” (noto anche come “Vision”), lanciato da Trump nel gennaio del 2020 che, pur con le sue profonde incongruenze e lacune, per molti aspetti era assai più avanzato: affrontava il problema di Gerusalemme, la determinazione dei confini, la questione dei rifugiati e, soprattutto, menzionava apertamente la soluzione a due Stati, per quanto condizionata da una serie di criteri e obiettivi preliminari di non agevole soluzione. Anche ora, chi subordina il riconoscimento dello Stato palestinese a una serie di circostanze esterne, come il disarmo di Hamas (che dovrà avvenire, con tempi e modi tutti da stabilire) in fondo finisce, sia pure involontariamente, per assegnare un ruolo politico improprio ad Hamas, riconoscendole, nei fatti, un diritto di veto alla statualità della Palestina, che è invece una variabile indipendente, riconducibile esclusivamente all’Anp.
Un protettorato separato?
Nel piano in 20 punti – con tutta la congerie di operazioni da mettere in atto, ma prima ancora da negoziare e concordare a livello internazionale e multilaterale – non vi è alcuna menzione esplicita dell’Autorità Nazionale Palestinese come istanza di congiunzione tra Gaza e la Cisgiordania. Gaza, trattata come un territorio autonomo, rischierebbe di diventare uno staterello a parte, una sorta di protettorato decretato arbitrariamente da una coalizione di Stati, e non gestito dalle Nazioni Unite, come avvenne ad esempio nel caso molto dissimile del Kosovo, che però era destinato a un destino di indipendenza dalla Serbia. In quel caso, furono dispiegate ben tre missioni internazionali: UNMIK, che stabiliva una gestione amministrativa da parte dell’Onu; EULEX, che dava la responsabilità della ricostituzione dello stato di diritto all’Unione Europea; e KFOR, che affidava la sicurezza alla Nato.
In questo caso, tuttavia, trattare Gaza come un corpo separato, un’entità a sé stante che non sembra far parte della prospettiva di uno Stato palestinese, solleva seri dubbi sull’obiettivo principale perseguito. I punti finali del piano sono rivelatori. Se e quando Gaza si stabilizzerà e le riforme palestinesi procederanno, “potrebbero emergere condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”. Un linguaggio che riporta indietro la storia addirittura al periodo precedente agli Accordi di Oslo del 1993. Per quanto lo si cerchi, nel funambolico piano americano non si trova alcun riferimento alla Cisgiordania, né un cenno al ritiro di Israele dai territori occupati. “Peace to Prosperity” del 2020 citava espressamente la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 242 del 1967, che intimava tale ritiro. Trump ha comunque dichiarato – e c’è da sperare che mantenga questa posizione – che non appoggerà le intenzioni israeliane di annettere l’intera Valle del Giordano.
Superare la soluzione a due Stati?
Il piano si limita a riservare agli Stati Uniti la facilitazione del dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare “un orizzonte politico verso una pacifica coesistenza” che dovrebbe essere appoggiata dal “dialogo interreligioso” per promuovere la tolleranza. Ma questo conflitto – prima di Hamas e soprattutto della destra religiosa fanatica israeliana – non era mai stato prevalentemente religioso, ma territoriale. Basterebbe, invece di questa costruzione barocca, ritornare a una formula antica, ma ancora attuale: “land for peace”, cioè una terra per i palestinesi e una per gli israeliani, e la pace in tutta la regione. Analisti di varie tendenze, che si professano realisti, sostengono che la soluzione a due Stati sia ormai irrealistica. Ma quanto sono realistiche le presunte alternative? È realistica, ad esempio, la condivisione in condizioni di uguaglianza di unico territorio, la parità di diritti tra arabi e israeliani, istituzioni comuni e rappresentative di tutte le componenti in uno Stato federale o confederale, la libertà di circolazione per tutti, la fine dell’applicazione della legge marziale in una porzione del territorio, l’elettorato attivo e passivo senza discriminazioni, la cittadinanza laica e non basata su criteri etnico-religiosi?
I nodi del conflitto sono stati evitati per troppo tempo, e gli accordi di normalizzazione tra Israele ed alcuni Paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco – pomposamente definiti “Accordi di Abramo”, scomodando persino il nome del Grande Patriarca delle tre religioni monoteistiche, hanno offerto un alibi perfetto per evitare di affrontare la questione cruciale, e cioè dare finalmente un focolare nazionale anche ai palestinesi. Dopo l’accordo di pace con l’Egitto del 1979 e quello con la Giordania del 1994, Israele contava di poter completare la normalizzazione includendo anche l’Arabia Saudita. Ma, per quanto significativi, questi accordi non avrebbero dovuto essere interpretati come la pietra tombale sulla questione palestinese, ridotta dagli ultimi governi israeliani a una mera tematica di sicurezza interna, rispetto alla quale la comunità internazionale avrebbe dovuto tenersi a debita distanza. Tuttavia, in questa parte del mondo, per quanto numerosi siano i tappeti nelle stanze del potere, la questione palestinese non può essere nascosta sotto di essi come fosse polvere.
Alla fine del 2000, in una lettera aperta al primo ministro Ehud Barack, intitolata Un minuto prima della prossima guerra e di straordinaria attualità, Shaul Mishal, professore di Scienze politiche all’Università di Tel Aviv, scriveva: “Quando la polvere sarà ricaduta sulla prossima guerra israelo-palestinese o israelo-araba, saremo certamente i vincitori. E Lei, signor primo ministro, Lei spunterà dal fumo del campo di battaglia per pronunciare i più brillanti elogi davanti alle tombe appena scavate. Lei potrà anche persuadere molte persone che si trattava della più giustificata di tutte le guerre condotte dagli ebrei. Sarà una guerra nella quale vinceremo tutte le battaglie, ma queste vittorie non ci condurranno da nessuna parte se non al punto di partenza. Chi meglio di Lei sa che, quando l’ultima battaglia sarà terminata e saremo di nuovo costretti a sederci al tavolo dei negoziati con i palestinesi e i rappresentanti dei Paesi arabi, con gli americani, gli europei e forse anche con una partecipazione internazionale, noi dovremo discutere delle stesse questioni territoriali dolorose, di Gerusalemme e del diritto al ritorno dei rifugiati?[1]”.
La creazione distruttiva
Su più vasta scala, l’asse Trump-Netanyahu ha inaugurato in Medio Oriente l’era del “fai-da-te”, una sorta di bricolage militare che prescinde totalmente dal ruolo delle istituzioni multilaterali e dal diritto internazionale. Ne sono prova gli attacchi ai siti nucleari iraniani (condotti nel mezzo di un negoziato), quelli contro gli Houthi in Yemen, per non parlare delle incursioni in Libano, Siria e Iraq e, da ultimo, dell’attacco contro la delegazione di Hamas in Qatar in presenza di una trattativa fortemente spinta dagli Stati Uniti per una nuova tregua a Gaza. Ora, non si può passare con disinvoltura dal parlarsi allo spararsi. C’è netta discontinuità tra parole e proiettili. E anche negoziare con la minaccia di un’azione armata (tipica è l’espressione “tutte le opzioni sono sul tavolo”) non è nemmeno più diplomazia, ma una forma di intimidazione. Nei confronti dell’Iran è stato persino riabilitato il concetto di “guerra preventiva”, teorizzato già nel 2003 nella dottrina della sicurezza nazionale del presidente americano George W. Bush.
In un recente intervento sul Washington Post, intitolato significativamente An Attack on Diplomacy Itself, il ministro di Stato qatarino Al-Qulaifi, riferendosi all’attacco missilistico israeliano a Doha, ha ricordato che non si ha memoria nella storia recente di una delle due parti negoziali che abbia colpito il (suo) mediatore.
Per citare un solo esempio, gli Stati Uniti non hanno mai preso di mira l’ufficio dei talebani a Doha mentre erano in corso i negoziati per un accordo con il gruppo, con il Qatar come mediatore. Se la mediazione è una forma di “negoziato assistito”, colpire chi fornisce assistenza è non solo contraddittorio, ma un’evidente dichiarazione di sostanziale disinteresse per la via politico-diplomatica.
Più in generale, è evidente che dopo il 7 ottobre Israele ha cambiato in modo radicale la sua dottrina della sicurezza, che da difensiva è divenuta aggressiva. In termini politologici, si direbbe un passaggio dall’applicazione del “realismo difensivo” di Kenneth Waltz all’attuazione del “realismo offensivo” di John Mearsheimer (basti pensare al Libano, all’Iran, alla Siria, allo Yemen), con una componente della classe politica israeliana, la più estremista, che nutre chiare mire egemoniche. Un unilateralismo marziale che, se perseguito anche in futuro, assai difficilmente potrà essere la base di una sicurezza cooperativa nell’area.
Se in economia c’è il concetto di “distruzione creatrice”, il costruttivismo aggressivo in Medio Oriente richiama piuttosto l’idea inversa di una (illusoria) “creazione distruttiva”. Le macerie di Gaza e le decine di migliaia di vittime civili innocenti sono il simbolo di questa diplomazia al contrario.
Il disimpegno multilaterale
Altri segnali destrutturanti – qui richiamati a titolo esemplificativo – coinvolgono la dimensione multilaterale.
Il primo proviene dalle Nazioni Unite, anzi dal Consiglio di Sicurezza, e riguarda la sostanziale “liquidazione” di Unifil, la missione di mantenimento della pace attiva dal 1978 e rilanciata nel 2006, all’indomani della seconda invasione israeliana del Libano contro Hezbollah (dopo quella sciagurata di Begin nel 1982 contro le frange armate palestinesi). Una missione fortemente voluta dall’Italia che, nel pieno delle ostilità, convocò a Roma una conferenza internazionale preludio del cessate il fuoco e dell’avvio di una presenza internazionale di interposizione nel sud del Libano. Quella missione è risultata sempre indigesta a Tel Aviv, che l’ha a lungo considerata inefficace nel disarmare Hezbollah (ma non era quello il suo mandato), e un ostacolo alla libertà di azione dell’Idf nel Paese dei cedri. Ora la missione è stata, nei fatti, rottamata, benché all’orizzonte del 2027, contro le aspettative di Italia e Francia, i due Paesi maggiormente impegnati sul campo, assieme alla Spagna. In teoria dovrebbero essere le Forze Armate Libanesi a controllare il territorio a sud del fiume Litani, ma non dispongono ancora della piena capacità logistica e militare. Il rischio è che si generi un vuoto di potere che potrebbe preludere a un riesplodere delle ostilità in un territorio strategico per la stessa sicurezza di Israele, tanto più che la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti tra Israele e Libano non sembra a portata di mano.
Il secondo marcatore dell’involuzione strategica mediorientale è la decisione, lo scorso 28 agosto, di tre potenze europee – Francia, Germania, Regno Unito – di interrompere dinanzi al Consiglio di Sicurezza la via diplomatica per trattare quel che resta del programma nucleare iraniano, avviandosi a reintrodurre le sanzioni precedenti all’accordo del 2015 con Teheran (il cosiddetto “snapback”). Pesa non poco sulla scelta dei tre Paesi europei un’agenda parallela, non direttamente legata alla sostanza del negoziato, e connessa invece ad altri fattori, come ad esempio la detenzione illegale di loro cittadini in Iran e attività sovversive sui loro territori. Questioni molto gravi, ma che andrebbero trattate nel loro merito, senza usare il negoziato nucleare per “punire” gli Ayatollah e distinguendo tra diplomazia e rivalsa. Il risultato, anche in questo caso, rischia di portare l’Iran in una posizione intransigente, favorendo gli argomenti dei “falchi” interni, che spingono addirittura per l’abbandono da parte di Teheran del Trattato di Non Proliferazione Nucleare.
Verso una coesistenza pacifica?
In questo quadro complessivo, certo non incoraggiante, la buona notizia è che con l’iniziativa americana, nonostante che la filosofia politica della seconda amministrazione Trump sia improntata allo slogan “pace attraverso la forza”, è stata paradossalmente riportata in auge la pista diplomatica, ossia un percorso politico che riemerge dopo il sostanziale fallimento della soluzione militare. Del resto, nei due anni intercorsi dal 7 ottobre, non un solo ostaggio israeliano è stato liberato grazie alle incursioni dell’Idf, ma solo attraverso l’opera paziente dei mediatori che hanno intessuto e, in diversi casi, concluso trattative di estrema complessità e delicatezza. C’è da sperare che questo messaggio fondamentale, fondato su evidenze empiriche, possa fornire punti cardinali per un reale riassetto del Medio Oriente che non proceda per esclusioni e interdizioni, da qualunque parte esse provengano, ma attraverso una strategia complessiva di coinvolgimento e di reciproca accettazione delle priorità dei popoli della regione. Non ci si può illudere che nel prossimo futuro si creino condizioni di collaborazione basate su un diffuso clima di fiducia, ma si può almeno sperare che tutti gli attori puntino a ottenere un obiettivo minimalista eppure, in questo contesto, assai ambizioso: una coesistenza pacifica, di portata assai più vasta rispetto a quella evocata nel piano Trump come obiettivo limitato tra israeliani e palestinesi.
[1] Alain Gresh, Israele, Palestina. La verità su un conflitto, Einaudi, Torino 2004.
Immagine di copertina: il presidente statunitense Trump e una serie di leader internazionali al summit su Gaza di Sharm el-Sheikh il 13 ottobre 2025 (foto di Saul Loeb / Afp).


