Il neo-liberalismo è un’ideologia politica che, nell’accezione più “benevola”, pone al centro la libertà economica come chiave e architrave anche per le altre libertà. Dagli anni Settanta del Novecento ha preso forma in una serie di indicazioni, soprattutto di politica economica, applicate con misura diversa e variabili gradi di coerenza da quasi tutti i Paesi del mondo. Se poi nel concreto le ricette neo-liberali hanno fatto crescere l’economia risulta, a mio giudizio, dubbio e non solo da quando la crisi del 2008 ha mandato in frantumi l’illusione di un mercato in grado di autoregolarsi, ma anche se procediamo a un confronto dei tassi di crescita del Pil pro-capite fra i Paesi occidentali negli ultimi decenni che tenga conto delle differenze di potere d’acquisto (secondo i dati della Banca Mondiale, l’Europa continentale ha fatto meglio di Stati Uniti e Regno Unito, e tutti sono cresciuti meno rispetto al trentennio di politiche keynesiane seguito alla Seconda guerra mondiale). Oppure se esaminiamo senza pregiudizi le modalità e le ragioni che hanno favorito dagli anni Ottanta la straordinaria performance della Cina: le liberalizzazioni, certo utili, si sono accompagnate a programmazione e intervento pubblico. Senza contare che in alcune grandi regioni le politiche neo-liberali sono state semplicemente disastrose (su tutte, l’ex Unione Sovietica negli anni Novanta). A ogni modo, su questo tema ferve il dibattito ed è probabile che non esista una risposta univoca: una stessa politica può favorire o meno la crescita del Pil, a seconda dei livelli di partenza, di variabili condizionanti (livelli di istruzione, di capitale sociale, efficienza delle istituzioni), dell’intensità e rapidità con cui viene implementata.
Molto meno dibattito c’è invece su tre fallimenti, storici, che l’ideologia politica neoliberale (e la connessa visione economica) ha consegnato al mondo in cui viviamo. Questi tre fallimenti, supportati ormai dai fatti, sono la crisi ecologica, l’aumento delle diseguaglianze all’interno dei Paesi, la crisi delle democrazie e, con esse, degli stessi ideali liberali. Il primo è forse il più grave, almeno in una prospettiva di più lungo periodo, ma non è l’oggetto di questo contributo. Qui ci concentriamo invece sul secondo e sul terzo fallimento, fra loro legati.
Secondo i dati della Banca Mondiale nel 1980, anno dell’arrivo di Reagan alla Casa Bianca, negli Stati Uniti l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze (di reddito, in questo caso), risultava di 34,7 ed era in lenta diminuzione da decenni. Si tratta di una misura soggetta a scostamenti molto piccoli. Dal 1980 inizia una rapida ascesa che porta l’indice a toccare, nel 2022, 41,3: si tratta del livello di disuguaglianze più alto di tutto l’Occidente, da molti considerato incompatibile con la democrazia (che si basa su un ideale e su regole di uguaglianza formale che cozzano con una forte disuguaglianza sostanziale). Ma l’indice di Gini in questo periodo cresce in quasi tutti i Paesi occidentali, fra cui quelli europei, anche se qui con meno intensità (come con minore intensità vengono applicate le politiche neo-liberali). Nel Regno Unito l’indice passa da 27,2 nel 1978, alla vigilia della vittoria di Margaret Thatcher, a 38,8 nel 2000, per poi diminuire. Nei tre principali Paesi dell’Unione Europea (Germania, Francia e Italia), come in generale nell’Europa continentale, l’aumento è più contenuto e l’indice di Gini si mantiene su livelli generalmente inferiori, fra 30 e 35; l’incremento c’è, tuttavia, direttamente riconducibile all’implementazione delle ricette neo-liberali (riduzione delle aliquote per i redditi da capitale e per gli scaglioni più alti dei redditi da lavoro, compressione salariale e precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa pubblica e del welfare). Come del resto è ovvio.
Oggi sappiamo che questo aumento delle disuguaglianze non è andato a beneficio di una maggiore crescita e quindi di un’eventuale riduzione della povertà – almeno per quel che riguarda le conseguenze delle politiche fiscali. La teoria dello sgocciolamento, trickle-down economics, uno dei cavalli di battaglia dell’ideologia neo-liberale e fatta propria da Reagan negli anni Ottanta, sostiene che tagli alle tasse per i più ricchi favoriscono la crescita e quindi, attraverso lo “sgocciolamento” (trickle-down), anche una riduzione della povertà (benché non necessariamente della disuguaglianza). Negli ultimi anni il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha mostrato però che tutto ciò non si è verificato nel mondo occidentale: al contrario, le politiche fiscali pro-crescita sono quelle che vanno a favore dei redditi dei ceti medi e bassi, che hanno una maggiore propensione a spendere; e più in generale, secondo il Fmi, l’aumento del 20 per cento della quota di reddito dei più ricchi si traduce in realtà in minore crescita economica. I più ricchi hanno infatti una maggiore propensione a risparmiare e, per giunta, a causa della liberalizzazione dei capitali realizzata fra gli anni Ottanta e Novanta (e non accompagnata da trasparenza e controlli), il loro risparmio si traduce più facilmente nella ricerca di rendite speculative, anziché in investimenti produttivi.
Connessa all’aumento delle disuguaglianze vi è stata la crisi della democrazia liberale. Questa ha innanzitutto una dimensione elettorale che si manifesta, da un lato, nella crescente astensione al voto e più in generale in disaffezione e disinteresse verso le forze politiche (ma non necessariamente nel disimpegno su temi etici, sociali, geo-politici); dall’altro, trova sbocco nei consensi in ascesa verso forze politiche populiste e nazionaliste, in qualche caso di sinistra radicale ma perlopiù di estrema destra, che mettono in discussione le tradizionali formazioni, e le stesse forme, della democrazia liberale. Benché non l’unica, una ragione fondante di queste dinamiche è stata ed è l’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare l’aumento delle disuguaglianze e l’impoverimento del ceto medio. E questa si deve essenzialmente al fatto che la classe politica si trova oggi, nelle nostre democrazie, subordinata rispetto al potere dei multimilionari e del capitalismo tecno-finanziario, anche a causa di “riforme” che a partire dagli anni Ottanta hanno progressivamente tolto potere e risorse (economiche e intellettuali) ai tradizionali partiti e alle istituzioni pubbliche.
La vittoria, negli Stati Uniti, di Donald Trump, la prima nel 2016 e la seconda ancora più sonante nel 2024, è in parte il risultato di queste dinamiche. I sondaggi indicano che i cittadini hanno votato Trump perché, soprattutto, insoddisfatti della gestione dell’economia da parte dei Democratici. Questo nonostante ben 82 premi Nobel dell’economia avessero lanciato, alla vigilia del voto, un appello per la candidata democratica Kamala Harris, sostenendo che le sue proposte fossero le migliori per l’economia: difficile trovare un esempio più eloquente dell’insoddisfazione del cittadino medio nei confronti delle élite (intellettuali, in questo caso, formatesi spesso nelle migliori università americane cui il cittadino medio ha sempre più difficoltà ad accedere). Le politiche di Biden avevano peraltro rappresentato una significativa svolta rispetto ai decenni neo-liberali, almeno su un punto: l’indebitamento, per favorire la conversione ecologica e sostenere i redditi più bassi. Biden però non aveva avuto la forza o il coraggio di mettere in campo la seconda gamba fondamentale di questa strategia: riformare la tassazione, rendendola progressiva e colpendo le rendite, redistribuendo così risorse da chi ha più a chi ha meno. L’indebitamento comporta l’immissione di nuovo denaro nell’economia; la leva fiscale redistribuisce il denaro che già c’è. Puntare tutto sulla prima strada porta inflazione, che puntualmente si è verificata: e l’aumento dei prezzi è stato il principale motivo di insoddisfazione degli elettori verso Biden.
Nell’Unione Europea le disuguaglianze sono più basse, la speranza di vita superiore di ben quattro anni (nel 1980 era inferiore di un anno). La democrazia, benché sotto attacco, è in condizioni meno critiche. Rispetto agli Stati Uniti, noi abbiamo tuttavia un problema che ci differenzia in negativo: un assetto istituzionale inadeguato, che fra le altre cose favorisce il fiscal dumping, cioè la competizione al ribasso sulle aliquote fiscali per i milionari e le grandi imprese. Ed è un assetto quasi impossibile da riformare (in materia fiscale è necessaria l’unanimità). Questo vuol dire che, se anche in qualche paese europeo ci fosse una classe politica effettivamente disposta a una tassazione più progressiva, come è il caso del governo Sánchez in Spagna, o come potrebbe essere in Francia (dove la discussione su un’imposta patrimoniale è molto avanzata), questa sarebbe giocoforza costretta ad agire solo a livello nazionale; e con forti vincoli (misure incisive possono facilmente essere controproducenti, data la grande mobilità di persone e capitali). Peraltro, per gli stessi motivi, a livello nazionale si può attivare quasi solo la leva fiscale: da un lato significative politiche di indebitamento nazionale sono precluse dal patto di stabilità (di recente reso più flessibile, ma senza cambiarne l’impostazione ordo-liberale), dall’altro l’Unione Europea non sembra intenzionata a replicare programmi comuni di investimento a debito, come il Pnrr nel 2020 (destinato a rimanere un’eccezione, non l’inizio di un nuovo corso).
Si può rimediare a questa situazione? È evidente che occorre trovare un modo per superare la regola dell’unanimità, o per tutti (riformando i trattati), o almeno per coloro disposti a procedere verso una maggiore integrazione (attraverso le cooperazioni rafforzate). In entrambi i casi, tuttavia, è necessario il consenso dei cittadini, affinché accettino di cedere sovranità dai loro paesi alle istituzioni comuni. È necessario, cioè, che i cittadini abbiano fiducia nell’Unione Europea. Attualmente, l’unico modo realistico per ottenere questa precondizione è mettendo in campo politiche espansive, europee, con debito comune: sia dal lato dell’offerta, con investimenti nelle nuove tecnologie (come auspica ad esempio il rapporto Draghi); sia da quello della domanda, per sostenere i redditi dei ceti medio-bassi, riducendo le disuguaglianze (politiche della domanda ancora più necessarie, oggi che i mercati esteri sono compromessi dai dazi di Trump, per rafforzare il mercato interno e puntellare il Pil). Grosso modo come è avvenuto durante il Covid-19, soprattutto grazie al Pnrr, quando infatti la fiducia nell’Unione Europea è aumentata. Le forze progressiste, e anche tutte quelle più in generale che hanno a cuore la democrazia europea, dovrebbero puntare a questo: politiche espansive comuni per sostenere i redditi, l’innovazione e per ridurre le disuguaglianze, da affiancare alla richiesta di maggiore integrazione, fra chi lo desidera, e a una riforma dei trattati in direzione dell’Europa federale. Per poter sperare di avere successo, tutti questi aspetti devono necessariamente andare insieme.
Foto di copertina di Thibaut Durand / Hans Lucas via Afp.


