La democrazia liberale è un affare occidentale, non mondiale. In Occidente è nata e si è evoluta nella tarda età moderna sulla base di precondizioni culturali, economiche e sociali non replicabili. La sua esportazione ha fatto parte di alcuni progetti neocoloniali. Il mondo sa ben distinguere il buongoverno dall’oppressione, l’ordine dal caos violento, ma non pensa né si organizza democraticamente. E non ammira l’Occidente democratico né aspira a imitarlo, tranne che per la produzione di beni e servizi. Oggi la democrazia liberale interessa un ottavo circa della popolazione mondiale. L’Europa, l’Occidente (che non sono la stessa cosa o almeno non lo sono sempre stati), la democrazia, sono da tempo provincializzati. Il West è The Rest.
È in atto, a dimostrare questo assunto, la distruzione di quello che veniva definito l’ordine liberale del mondo, un’espressione che contiene tanto un universalismo giuridico ed economico, l’ideologia dei diritti umani e del libero mercato, quanto un particolarismo, la dominanza anglosassone e in particolare statunitense che attraverso quell’ordine si esercitava a partire dalla fine della Guerra fredda (e, dal punto di vista finanziario e monetario, dal 1945). Riemerge oggi un pluralismo politico internazionale che vede Russia e Cina (insieme a India, Indonesia, Brasile, Turchia, Arabia Saudita) sfidare il potere e l’economia americana e anche la tradizionale capacità egemonica degli Stati Uniti. Benché non abbiano ancora una forma geopolitica e geoeconomica definita, i Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – minacciano di fatto il vecchio ordine. Le frizioni, gli smottamenti, i punti di contatto tra vecchie e nuove aree di influenza, le tensioni vecchie e nuove su rotte marittime e catene del valore, la spietata concorrenza sulle tecnologie avanzate, determinano uno scenario internazionale in movimento, in tumulto, in crisi e in alcuni casi in guerra.
L’insicurezza esterna entra all’interno delle democrazie occidentali e si somma all’insicurezza generata dal paradigma economico neoliberista, azzoppato da quasi vent’anni (dalla crisi dei mutui subprime del 2007) ma non sostituito da un’alternativa. Un paradigma che nasce contro il quasi-keynesismo di Bretton Woods, contro il compromesso socialdemocratico fra capitale e lavoro, garantito dalla politica, contro l’idea che l’economia non debba avere potere illimitato nella società, e che alla lotta alla disoccupazione sostituisce la lotta all’inflazione. E che ha prodotto uno sbilanciamento a favore dei profitti e a danno dei salari, una sconfitta dei corpi intermedi (partiti e sindacati) dovuta a un allentamento del legame sociale generato dal lavoro, che è stato parcellizzato e precarizzato, un incremento delle disuguaglianze di sapere e di potere oltre che, naturalmente, di ricchezza, un indebolimento delle istituzioni democratiche (soprattutto del parlamento) e dello Stato sociale in nome dell’autonomia del mercato rispetto alla politica.
Ne è derivata una delegittimazione dal basso delle istituzioni democratiche in quanto palesemente incapaci di tutelare i cittadini dalle conseguenze più dure del turbocapitalismo, e una serie di spinte iperpolitiche di protesta (i populismi) che cercano di ridare potere alla politica ma che finiscono col consegnarsi anch’esse alle logiche di mercato per debolezza teorica e programmatica; per questa via le società si spaccano in tribù contrapposte, in guerre civili culturali prevalentemente simboliche, anche se molto violente, fra posizioni woke e posizioni di destra. Sulla spinta di questi processi e della potenza del capitalismo rafforzato dalla tecnologia elettronica, altamente efficace e passivizzante – che mette a disposizione dei poteri economici e della politica, nel frattempo divenuta autoritaria, un immenso potenziale di controllo – la democrazia si trasforma in postdemocrazia, in un regime oligarchico appena mascherato che conserva le istituzioni democratiche depotenziate e ridotte a facciata. E se di recente la politica ritrova spazio e potere, ciò avviene solo in chiave autoritaria, attraverso un potenziamento dei vertici dell’esecutivo che si pongono in rapporto diretto col popolo in modalità plebiscitaria, mentre gli spazi di protesta e di dissenso vengono erosi in nome di emergenze sempre nuove, dal Covid alle minacce di guerra. Liberismo in crisi, populismi subalterni, società informi e divise, emergenzialismi, neo-autoritarismi, società e Stato digitalizzati, dove il soggetto è non controllore ma controllato: ecco il volto reale delle postdemocrazie (più propriamente, delle neo-oligarchie) occidentali.
È evidente che questo è un sistema di contraddizioni: una democrazia senza popolo, un individualismo che crea individui in balia di ogni potere e di ogni emozione, un securitarismo che rende tutti insicuri. La democrazia liberale è indebolita, sfigurata, delegittimata: il liberalismo divenuto liberismo l’ha quasi travolta a causa delle contraddizioni che ha alimentato, e che la sinistra non ha visto o ha sottovalutato, abbracciando di fatto il paradigma di quello che avrebbe dovuto essere l’avversario. Processi interni e internazionali interagiscono nel creare condizioni ostili alla democrazia, alla mediazione o anche a una forte conflittualità politica fondata su idee e interessi reali piuttosto che su simboli o su emozioni. Soprattutto, nella postdemocrazia viene meno la fiducia che la politica possa modificare lo stato di cose esistente, che si presenta come “privo di alternative” (secondo il celebre detto della signora Thatcher) e che in effetti è prevalentemente creduto tale.
Ma la prognosi della democrazia liberale non è necessariamente infausta, pur essendo di sicuro riservata. Le differenze fra il mondo del passato (dei “trenta gloriosi”) e quello attuale sono radicali: le trasformazioni del paradigma economico (il passaggio da un quasi-keynesismo al neoliberismo o in Europa all’ordoliberalismo), del livello tecnologico (da una “civiltà delle macchine” a una civiltà digitale) e dell’ordine internazionale (dal bipolarismo alla globalizzazione e infine al pluralismo geopolitico). Il risultato di queste trasformazioni è un mondo in guerra, un Occidente indebolito e le sue società informi e divise. Ma l’apatia sociale di fondo, la tendenza entropica, si accompagna a sussulti di protesta, a contestazioni, a disagi che pur venendo proclamati ad alta voce o si disperdono in breve tempo o assumono posture di destra – data la capitolazione storica delle sinistre negli ultimi decenni.
È chiaro che le trasformazioni intervenute non possono essere cancellate, che il film della storia non può essere riavvolto. Lo sforzo dei controrivoluzionari cattolici, di “fare il contrario della rivoluzione”, è sempre stato vano. Quello che si può e si deve tentare è un’azione multilivello volta a ridare forma politica alla società, ovvero a farla uscire dalla polverizzazione neoliberista e a favorire aggregazioni sociali, culturali e di interessi che abbiano durata e consistenza organizzativa, e qualità politica. Che possano contare sulla mediazione di partiti politici molto più coraggiosi e radicati degli attuali, e che siano un sistema di raccolta e di potenziamento di quelle energie che oggi insorgono dalle contraddizioni sociali ma che presto si disperdono nell’inerzia, nella sfiducia o nella violenza cieca. Senza questo movimento dal basso non c’è speranza di mutamento. Ma per rendere produttiva la protesta sociale è necessario, oltre che l’organizzazione pratica, anche un lavoro teorico che consenta di comprendere le logiche del mondo di oggi e di integrare l’esperienza nella conoscenza. Perché ci sia azione ci deve essere pensiero, idea.
Da qui una serie di esigenze: che si formi una nuova alleanza fra politica e cultura, cioè che politici e intellettuali facciano, ciascuno per la propria parte, un passo avanti per incontrarsi, uscendo dal reciproco sospetto e dalla reciproca indifferenza o insofferenza. Un’occasione (già persa, nell’immediato: ma altre se ne presenteranno) dovrebbe essere la lotta senza quartiere contro le riforme della scuola e dell’università che fanno della formazione un addestramento, che prevedono l’acquisizione di abilità anziché la maturazione critica dei discenti, che spostano il baricentro del sistema educativo verso il mondo economico privato, che alimentano la corsa alle università telematiche.
Al livello politico è evidente che lo squilibrio di potere fra esecutivo e legislativo va corretto e che le logiche plebiscitarie di legittimazione del potere vanno superate con il ritorno alla centralità di un parlamento che sia la sintesi della ripoliticizzazione dal basso della società. Una politica, infine, che sia in grado di stringere un nuovo patto non subalterno con l’economia, lungo tre direttrici: ritorno della politica economica, se non della programmazione democratica; ritorno della economia mista, cioè dell’intervento sistematico della mano pubblica nella produzione; ritorno di un equilibrio giuridico fra lavoro e capitale, con diminuzione delle tipologie dei contratti di lavoro e riforma del sistema degli appalti. Tutto ciò implica in pratica un abbandono del paradigma neoliberista e delle sue ideologiche convinzioni sull’autonomia dell’economia.
Naturalmente, perché tutto ciò non sia un patetico libro dei sogni è necessario un assestamento della situazione internazionale (e quindi tanto meno avventurosa e bellicista sarà la politica delle democrazie, tanto più spazio si aprirà a una riqualificazione delle loro istituzioni); e, insieme a questo, una chiara volontà politica democratica, tanto dal basso quanto nelle élite. E questa non la si può dare per scontata: la decadenza è reale, l’inversione di rotta è solo possibile – neppure probabile. Ma vale la pena sforzarsi di pensarla e di prepararla, perché se è vero, come diceva Paul Valéry, che le civiltà sono mortali, è anche vero che la nostra – il lungo ciclo tardo moderno aperto con la rivoluzione francese – non deve ancora essere data per morta.
Immagine di copertina: la sala vuota del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite a New York, il 20 dicembre 2023. Foto di Charly Triballeau/Afp.


