Verso una democrazia riparativa

Questa intervista è stata realizzata da Fulvia Giachetti.

 

Senza un argine alla catastrofe climatica in corso e senza un freno agli interessi privati che investono pienamente la politica, sembra non resti alcun vero baluardo contro i pericoli che minacciano il futuro. La democrazia liberale sembra non possedere più i requisiti necessari per proteggere le istituzioni che un tempo la sostenevano e garantivano. Come riportare il bene collettivo – e non i mercati o i blocchi di potere – al centro della democrazia? Wendy Brown, dell’Institute for Advanced Studies, ha parlato con Reset della sua idea di “democrazia riparativa”: una visione post-liberale per rinnovare la democrazia di fronte all’autoritarismo, al collasso ecologico e all’esaurimento dell’ordine liberale.

 

“Hanno fatto un deserto e lo chiamano pace”: le parole di Tacito oggi risuonano nel dibattito pubblico, mentre Israele e Hamas firmano il piano di pace statunitense. A che condizioni possono esserci una pace duratura e una qualche forma di riparazione dopo ciò che è accaduto?

Ci sarà un enorme sollievo se cesseranno i bombardamenti, se cesserà la fame prodotta in modo intenzionale, se cesserà il genocidio. Ma che tipo di pace ci può essere tra le macerie? Quali le prospettive di prosperità e rinascita in Palestina, per non parlare di giustizia e indipendenza? Ci sarà la possibilità per i palestinesi di avere il controllo delle proprie vite, del proprio futuro, di poter ripristinare le condizioni per la cultura palestinese, l’istruzione e un’esistenza dignitosa?

Come è noto, i bombardamenti non erano diretti solo contro Hamas, ma miravano a distruggere le infrastrutture di Gaza, compresi ospedali, quartieri e istituti scolastici. Una delle prime cose che Israele ha fatto subito dopo il 7 ottobre è stata vietare l’Unrwa ‒ l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata alla fornitura di servizi sociali e all’istruzione in Palestina ‒ dai territori occupati. Con il divieto dell’Unrwa, i bombardamenti e la chiusura delle scuole a Gaza, Tel Aviv ha di fatto eliminato la prospettiva di un popolo istruito e, con esso, la possibilità di un’autodeterminazione palestinese.

Queste sono alcune delle questioni che occorre affrontare ora. Le priorità immediate sono naturalmente il cibo e l’assistenza sanitaria; ma subito dopo vengono i temi delle istituzioni culturali ed educative, e della sovranità, in qualunque forma essa sia. Queste questioni rimangono, nel migliore dei casi, senza risposta, nel peggiore dei casi precluse, quantomeno al momento. Il piano attuale è quello di colonizzare e subordinare, se non addirittura eliminare, la Palestina. Il sostegno continuo alla Palestina deve quindi assumere la forma di sostegno al futuro dell’autogoverno palestinese e al benessere dei palestinesi. Tutto ciò non è incluso nel cosiddetto piano di pace di Trump, per non parlare delle aspirazioni israeliane.

 

Un vero piano di pace basato sulla ricostruzione richiederebbe una volontà politica libera, per quanto possibile, dagli interessi privati. Ma nulla del genere sembra all’orizzonte. Il capitale transnazionale appare sempre più spietato e fuori controllo. Lo Stato ha perso del tutto la propria autonomia? E nel mondo euroatlantico, la de-democratizzazione neoliberale ha ormai raggiunto il suo punto finale?

Penso che ogni volta che crediamo che sia finita, il neoliberalismo sviluppi un’altra variazione di de-democratizzazione. Ora siamo nell’era in cui la finanza privata sta assumendo le funzioni dello Stato e, naturalmente, nella svolta autoritaria neoliberale.

Come ci ha insegnato Karl Marx, il capitale ha sempre qualcosa di nuovo da colonizzare, anzi deve trovare nuovi mercati, nuovi siti di investimento, nuovi modi per rendere più economico il lavoro, in breve, nuovi ambiti di profitto. Il capitale finanziario ora estrae profitto dagli Stati stessi, mentre investe in essi. La sostituzione dei fondi pubblici con fondi privati nei progetti statali sta avvenendo in tutto il mondo. Quindi, l’autonomia immaginaria degli Stati – che è sempre stata una finzione – sta diventando sempre più debole. Gli Stati sono sballottati dai flussi di capitale internazionali, ma sono anche sempre più luoghi di investibilità per il capitale e di controllo da parte del capitale. Ciò significa che anche i progetti ben intenzionati ‒ come la transizione verde o la costruzione di alloggi o la fornitura di assistenza sanitaria o la sicurezza per chi ha perso il lavoro ‒ sono diventati siti di investibilità. La finanza privata non produrrà mai una vera transizione verde. Ne produrrà una ricoperta di “greenwashing” e che serve gli interessi del capitale. Lo stesso vale per ogni elemento delle infrastrutture in cui viene investito il capitale.

Negli Stati Uniti Joe Biden ha cercato di sfruttare il capitale e di dargli anche una direzione politica. Il suo Inflation Reduction Act era stato inizialmente concepito per costruire infrastrutture di ogni tipo, finanziate con fondi pubblici, dalle autostrade all’assistenza all’infanzia. Il capitale si è impossessato del progetto e lo ha sovrastato con i propri interessi. Poi è arrivato Trump e ha annullato gran parte del resto, ma Biden ci ha provato. Qualche anno fa la Spagna ha deciso di aumentare in modo sostanziale il salario minimo, cosa che secondo tutti avrebbe affossato l’economia, ma così non è stato. Esiste un’interazione tra gli Stati che facilitano l’accumulo di capitale e il potere politico del capitale di dirigere gli Stati: questo è il ciclo che deve essere spezzato e alcuni politici di sinistra ci hanno provato.

 

Alcuni studiosi, tuttavia, sostengono che la cosiddetta “Bidenomics” – e altri esperimenti politico-economici simili – siano stati solo una forma temporanea di keynesismo d’emergenza: un espediente per salvare il sistema durante la crisi del Covid-19, per poi tornare alla “normalità” neoliberale una volta superata l’emergenza.

Non credo che questa analisi sia del tutto corretta. Il Covid-19 ha mostrato quanto lo Stato sia essenziale nel garantire e proteggere le popolazioni, e nell’agire per l’interesse pubblico. Ha cambiato i termini stessi del dibattito. La “Bidenomics” ha cercato di sfruttare l’occasione aperta dal Covid-19 per superare il paradigma neoliberale, ma non aveva le strategie, né la volontà, per romperlo davvero.

 

Quindi la sinistra ha fallito, mentre la destra globale minaccia di infliggere il colpo di grazia alla democrazia liberale. Come spiega questa ascesa? Nel suo libro The Ruins of Neoliberalism (“Le rovine del neoliberalismo”) l’ha descritta come una “mutazione Frankenstein” del neoliberismo. Siamo ancora dentro quella mutazione, o già in una fase post-neoliberale?

Penso che chi parla di post-neoliberalismo si concentri solo sugli aspetti economici del neoliberismo, immaginandolo ancora come una politica di deregolamentazione, taglio delle tasse, privatizzazione dei beni pubblici e libera circolazione globale dei capitali. Le politiche tariffarie di Trump sembrano muoversi in un’altra direzione. Eppure la privatizzazione di beni e servizi pubblici continua (autostrade, sanità, pensioni). Lo Stato stesso è sempre meno un ente pubblico e sempre più un’entità “investibile” dalla finanza privata. In questo senso, siamo ancora pienamente nell’era neoliberale, non oltre di essa.

Ma l’altro aspetto del neoliberalismo su cui mi sono concentrata, in Undoing the Demos e In the Ruins of Neoliberalism, riguarda la sua natura di “razionalità di governo”: una logica che sottomette ogni attività umana a criteri economici, trasformando la condotta stessa in un comportamento economico. Questa, a mio avviso, non è venuta meno.

Tutto ciò è cruciale per capire una figura come Trump. Che cos’è Trump, in fondo? È un tipo particolare di uomo d’affari, un immobiliarista, che interpreta tutto in termini di affari, contratti, negoziazioni, anche di estorsione e manipolazione. È così che governa. In questo senso, non siamo in una fase post-neoliberale: tutto resta incorniciato nei termini della condotta economica. Parlare di post-neoliberalismo significa ignorare questi elementi.

Una parte dell’attrazione che Trump esercita deriva proprio da questo: la gente si fida degli imprenditori, non dei politici. Trump ha corso non come politico, ma come un uomo d’affari capace di trasformare gli Stati Uniti in un affare migliore e quindi di concludere accordi più vantaggiosi per il Paese. Innumerevoli elettori di Trump, quando vengono interrogati sul perché si fidano di lui, rispondono più o meno così: “Certo, mente, inventa, è volgare, ma è un uomo d’affari, sa quello che fa”.

Non abbiamo però ancora toccato la dimensione autoritaria. Le grandi corporation non sono istituzioni democratiche: funzionano attraverso gerarchie rigide, decisionismo e autorità che discendono dall’alto. Accettare questo modello come forma legittima di politica fa parte dell’eredità neoliberale. Certo, confini rigidi, espulsione dei migranti e demonizzazione della globalizzazione hanno alimentato la svolta a destra; una sorta di reazione contro la globalizzazione neoliberale. Ma la globalizzazione è solo una faccia del neoliberismo. Concentrarsi solo su quella significa perdere di vista gli elementi neoliberali che persistono oggi.

 

I teorici neoliberali non avrebbero voluto questa svolta ideologica contro la globalizzazione?

No, non volevano né mobilitazioni politiche di massa né populismo. Tutt’altro: immaginavano una pacificazione politica totale, riducendo i cittadini ad attori economici. Né desideravano Stati forti, militarizzati e polizieschi, come quelli neofascisti che oggi vediamo. Alcuni pensatori neoliberali erano anzi convinti antifascisti, e cercavano di progettare un ordine politico-economico che impedisse il ritorno del fascismo o del totalitarismo. Ma le loro teorie ignoravano il potere politico e la mobilitazione collettiva, in parte perché coltivavano la fantasia che tali forze sarebbero state semplicemente estinte da una società di mercato “libero”.

 

Negli ultimi tempi lei ha teorizzato una “democrazia riparativa post-liberale” come via alternativa per ripensare la democrazia stessa. Quali sono i principi fondamentali di questa forma politica? In che modo la democrazia riparativa potrebbe affrontare la situazione attuale? E, dato che “post-liberalismo” è un termine piuttosto vago, cosa intende con esso?

Il liberalismo – anche se nacque per contenere il potere dello Stato o della monarchia e per garantire le libertà borghesi – come dottrina e forma di governo si è ormai esaurito. È sempre stato intrecciato al capitalismo, ma oggi ne è completamente colonizzato. Ci ha condotto sull’orlo del collasso ecologico. Come forma di governo e come modo di intendere noi stessi, è incompatibile con l’affrontare la crisi ecologica: non riesce a coglierla ontologicamente né a risolverla politicamente. È ancora troppo antropocentrico e individualista. Senza una forma democratica capace di contenere o trasformare il capitalismo – e senza una forma politica capace di affrontare la crisi ecologica – siamo perduti.

La necessità di una democrazia post-liberale quindi nasce dal bisogno di rispondere a due crisi intrecciate: la crisi della democrazia – che degenera in autoritarismo o fascismo – e la crisi della vita planetaria. Non credo che il liberalismo abbia le risorse per affrontare nessuna delle due. Non può frenare il capitalismo, che ha catturato e corrotto ciò che di buono restava nella democrazia liberale, né può portarci a un rapporto con la natura che superi l’individualismo metodologico al suo centro. Quell’individualismo non solo mette l’essere umano al centro, ma gli concede anche la licenza di fare ciò che vuole in nome della libertà che il liberalismo celebra. È questo che ha prodotto la crisi ecologica, e non può guidarci fuori da essa.

La democrazia riparativa deve fondarsi su una nuova economia politica e una nuova ecologia politica che immaginino un diverso tipo di essere umano e una diversa democrazia. Gli elementi fondamentali della democrazia – libertà politica ed eguaglianza politica – devono essere ridefiniti al di là della dicotomia moderna tra umano e natura.

 

Lei descrive la democrazia riparativa come una forma di statalismo di sinistra che non è però statocentrica. Come può un simile modello affrontare sfide transnazionali e globali?

Gli Stati stessi non sono il luogo adatto alla democrazia riparativa. La forma democratica che ho in mente, e che sta emergendo in ogni parte del mondo, è quella in cui i principi originari della democrazia, così come ce li hanno tramandati i greci, sono fondamentali, ma non sufficienti: il principio dell’uguaglianza politica, ossia la condivisione equa del potere tra i cittadini, e la libertà politica, cioè l’autogoverno comune. Si tratta di due concetti non liberali.

Gli Stati, tuttavia, restano cruciali per attuare le decisioni, organizzare e applicare regolamenti o limiti e produrre benessere generale. La questione è come mantenere gli Stati subordinati alla democrazia, anziché essere le forze de-democratizzanti che sono ora. Il compito che ci attende è: come frammentare i poteri degli Stati, in modo tale che gli Stati non controllino tutte le forme di potere politico nella società e invece devolvano parte di quel potere politico al popolo e alle comunità locali? Dobbiamo farlo senza rinunciare agli Stati come siti con cui è possibile raccogliere e convogliare risorse in modo utile, e per limitare efficacemente determinati tipi di comportamenti e poteri.

La sinistra deve liberarsi di quella che Foucault chiamava la nostra “Stato-fobia”, cioè la nostra paura degli Stati, la nostra convinzione che gli Stati siano sempre polizieschi, violenti, repressivi. Allo stesso tempo, gli Stati non sono certo i migliori fornitori di tutto ciò di cui la vita umana e non umana ha bisogno. Sono distanti, lontani dai problemi che affrontiamo sul campo. Sono inevitabilmente burocratici e vincolati dalle regole; non sono agili. Uno dei motivi per cui la gente ne diffida così tanto è che li vede come entità che affrontano in modo goffo e inconsapevole i problemi che gli esseri umani devono affrontare, e non ha torto.

Quindi, come utilizzare gli Stati come piattaforme per le transizioni verdi, come luoghi in cui indirizzare le risorse e applicare determinati tipi di regolamentazioni, lasciando al contempo ampi spazi alla democrazia al di fuori di essi? Mettiamola in un altro modo. Gli Stati non potranno mai essere democratici, ma fungono da strumenti della democrazia. Il liberalismo classico cerca di collocare la democrazia all’interno dello Stato e affronta le sue caratteristiche antidemocratiche opponendosi o bilanciando i diversi organi e poteri statali. I post-liberali o i democratici anti-liberali mirano a subordinare lo Stato alla democrazia. Oggi dovremmo riflettere su questo: dove risiede la democrazia? Cosa può fare? Come possiamo dare voce agli esseri umani e alla natura in modo che la partecipazione alla costruzione di un futuro migliore sia qualcosa che le persone sentono di avere nelle loro mani e di cui si sentono responsabili? Si tratta sia di un compito teorico sia di un campo di sperimentazione politica.

 

Gli Stati esistenti possono ancora essere trasformati in questa direzione, o dobbiamo piuttosto immaginare la creazione di nuove formazioni istituzionali?

La destra ha svolto un lavoro straordinario nel trasformare gli Stati, in modo rapido e profondo. Li sta convertendo in nuovi strumenti di repressione, attraverso combinazioni inedite di potere militare e poliziesco e mediante una sistematica sottrazione di diritti. Sta anche promuovendo nuovi ordini economici e costruendo nuove culture nazionali e nuovi sistemi educativi. Lo Stato trasformato – e trasformativo – che la destra sta creando è formidabile. La sinistra dovrebbe essere in grado di eguagliarlo.

 

 

Foto di copertina di LB Studios / Connect Images via AFP. 

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