Guerre finanziarie e nuovo disordine globale

Alla luce delle attuali guerre finanziarie è necessario distinguere il mercato – inteso come lo strumento attraverso cui procedere a una giusta ed efficace allocazione delle risorse – dal capitalismo che, qualificato nei termini della pervicace ricerca del profitto, sta producendo varie distorsioni del “normale” funzionamento del mercato stesso e l’esplosione di una tensione globale su più livelli, con particolare rilievo proprio nell’ambito finanziario. Il nuovo mondo, in cui i due termini si sono del tutto separati, è iniziato nel dicembre del 2001. Venti anni dopo che la presidenza di Ronald Reagan aveva scelto di spingere il pianeta verso la liberalizzazione dei flussi di capitale, giungeva a compimento il percorso fortemente voluto da Bill Clinton di ingresso della Cina nel mercato internazionale, attraverso l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc).

L’idea clintoniana era, in apparenza, lineare e consisteva nella fiducia totale nella capacità salvifica del mercato in termini di affermazione della democrazia politica. In altre parole, per Clinton la sterminata disponibilità cinese di manodopera era una risorsa a cui il sistema produttivo americano avrebbe potuto attingere per mantenere il suo primato economico. Riuscendo al contempo, proprio con la forza del mercato, a trasformare alla radice la lunga tradizione imperiale e comunista della Cina, che sarebbe dovuta diventare in pochi anni una democrazia liberale.

Come è noto, le cose non sono andate in quella direzione. La Cina, sfruttando proprio la sua natura di regime antidemocratico, ha utilizzato il capitale e la tecnologia esteri per generare un’industrializzazione fulminea e senza precedenti. Ha trasformato le originarie delocalizzazioni delle catene produttive delle multinazionali nello sviluppo di un sistema autoctono, capace di fare concorrenza su scala globale e, sotto l’egida dello Stato, condizionare le strategie economiche e monetarie delle grandi potenze. L’economia cinese ha inoltre avuto la straordinaria caratteristica di far lievitare il prezzo delle materie prime e dell’energia, senza determinare un aumento dell’inflazione mondiale, raffreddata dall’eccezionale abbattimento dei costi della manodopera. Così, mentre la Cina diventava la fabbrica del mondo e il cuore dell’economia reale, le economie “occidentali” si dedicavano a tempo pieno alla finanziarizzazione, resa possibile proprio dal contenimento dell’inflazione. Si moltiplicavano le “scommesse” realizzate con gli strumenti della finanza derivata sull’andamento dei prezzi delle commodities e dell’energia e, per effetto delle politiche monetarie della Federal Reserve, prendeva forma una fiammata creditizia di cui i mutui subprime avrebbero beneficiato.

In altre parole, la turbo finanza e le premesse della crisi del 2008 traevano alimento dall’andamento forsennato dell’economia cinese che infuocava una domanda senza inflazione e offriva ai mercati finanziari infinite occasioni di ottimismo rialzista. La stessa ingegneria finanziaria, concepita per distribuire il rischio attraverso le cartolarizzazioni, non sarebbe stata forse così selvaggia senza l’ondata di fiducia nella capacità della stessa finanza di produrre ricchezza che l’ingresso della Cina nell’Omc aveva messo in moto. Erano in molti, allora, gli osservatori che individuavano il destino dell’Occidente nella possibilità di trarre dalla finanza – e non più dalla produzione e dal lavoro – gli elementi della sua fortuna. Poi è arrivata l’esplosione della gigantesca bolla creata da una simile distorta visione e l’intervento dello Stato è risultato decisivo non più solo in Cina. Ad aggravare il quadro sono arrivate la crisi del 2011, la pandemia e la guerra.

Il processo di finanziarizzazione dell’economia è stato quindi il tratto dominante degli ultimi tre decenni e si è tradotto nella creazione di un monopolio concentrato ora nelle mani dei grandi fondi americani – le cosiddette “Big Three” (BlackRock, Vanguard, State Street) – che gestiscono il risparmio globale e hanno acquisito partecipazioni rilevanti nelle principali società quotate. Questo monopolio ha iniziato rapidamente a espandersi in Europa, con il costante trasferimento di risparmi e capitali dai principali Paesi del Vecchio Continente verso i listini statunitensi. Dopo l’elezione di Donald Trump, deve misurarsi con una nuova élite finanziaria legata all’ex magnate e molto coinvolta nel settore delle criptovalute e in altre forme di investimento decisamente aggressive, secondo le linee della dottrina “neocon”.

 

Il conflitto

È discesa di qui una vera e propria “guerra finanziaria” all’interno del capitalismo americano che vede la partecipazione anche di una finanza europea, impegnata nel tentativo di frenare la propria colonizzazione, e di una nascente “finanza asiatica”, costruita sull’asse tra Cina e India, in grado di costruire una possibile alternativa monetaria e finanziaria al monopolio occidentale.

Un dato generale sembra emergere dopo l’insediamento della seconda amministrazione Trump: il capitalismo finanziario così come si è strutturato nell’ultimo decennio, con il monopolio dei grandi fondi che drenano quantità crescente di risparmio collettivo e lo indirizzano verso i principali titoli dei listini americani e verso il debito pubblico federale, non è compatibile con un potere politico ostile. Dal 20 gennaio, data di insediamento della nuova amministrazione a fine aprile 2025, i listini statunitensi hanno perso 18mila miliardi di dollari di capitalizzazione, solo in parte recuperati dopo la “distensione” con la Cina. In larga misura ciò è stato effetto delle dichiarazioni del presidente che hanno tolto la certezza dell’imbattibilità dei grandi fondi e animato lo scontro geopolitico proprio con la Cina.

Trump ha destabilizzato un ordine finanziario a cui era assegnata dalla politica, in termini remissivi, la prerogativa di creare ricchezza. Si è trattato di una subordinazione senza alcuna interferenza e senza alcuna progettualità, nella costante ricerca di un equilibrio, in verità sempre più difficile, con l’economia reale dei cinesi, degli indiani e dei nuovi grandi produttori. Si era costruito uno scambio globale fondato sulla sottomissione della politica alla finanza, ritenuta la soluzione all’eccessiva onerosità fiscale delle statualità, e sull’attribuzione ai nuovi produttori mondiali del compito di fornire al pianeta gli approvvigionamenti materiali necessari a patto che continuassero ad usare il dollaro come valuta di scambio e di riserva, così da reggere il peso della finzione finanziaria.

Trump, in sintesi, ha mostrato di non voler stare dentro questo schema: si è opposto al monopolio finanziario e pretende di riportare in vita, negli Stati Uniti, un’economia produttiva. Due obiettivi che lo rendono devastante per la salute dei listini di Borsa a tal punto da mettere in discussione la tenuta del dollaro su un duplice versante: da quello di Larry Fink che vuole superare il dollaro con i bitcoin per smontare le statualità ritenute ora pericolose perché non più “amichevoli” e da quello della Cina perché il dollaro sta perdendo la sua stabilità nel momento in cui Trump ne fa uno strumento di scontro politico. A farne le spese è, in primis, la tenuta del debito federale americano che ha raggiunto livelli non più sostenibili e che ha bisogno di un’enorme copertura da parte dei grandi fondi, destinati a diventare così ancora più decisivi per le sorti degli Stati Uniti.

È avvenuto dunque che lo scontro all’interno del capitalismo finanziario statunitense sia esploso. Black Rock e JPMorgan attaccano frontalmente Trump accusandolo di rovinare milioni di risparmiatori americani. Si tratta della vera tragedia americana: per decenni la politica ha assegnato alla finanza il compito di fornire ai cittadini e alle cittadine i servizi essenziali della loro esistenza, dalla sanità alle pensioni e all’assistenza. Negli ultimissimi anni questo processo si è trasformato nel monopolio delle Big Three che assorbono il risparmio statunitense e lo remunerano con la costruzione di continue bolle finanziarie. I risparmiatori in tal modo dipendono dalla forza dei grandi fondi che ora li usano come strumento di pressione contro Trump. La politica americana si riduce all’esigenza insuperabile di non disturbare il monopolio finanziario, perché dalle sue sorti, e non da altro, dipende la vita degli americani e delle americane. Una follia coltivata nel tempo, rispetto alla quale Trump è solo un accidente della storia, che ha un’intrinseca natura antidemocratica perché priva la nozione stessa di cittadinanza di qualsiasi contenuto, non partorito dalla ricerca della ricchezza privata dipendente dall’assoggettamento consensuale al potere del monopolio.

 

Il modello

La pervasività del modello finanziarizzato, che ha sostituito il ruolo degli Stati per gran parte delle loro funzioni, rende la dimensione politica sempre più debole e ancillare nei confronti della tenuta di un mercato che, come accennato, ormai coincide con un sostanziale monopolio e ha trasformato i cittadini in risparmiatori “obbligati” dalla fine delle statualità sociali ad affidarsi ai “padroni” della finanza stessa. Il potere politico deve “collaborare” al buon esito dell’onnipresente finanza per garantirle di essere autonoma. In maniera paradossale, la politica ha permesso la costruzione della finanziarizzazione, ma la forza acquisita da quest’ultima ha finito per soggiogare la stessa politica fornendole un’ideologia molto più cruda di quella che persino la dottrina neoliberale aveva immaginato. Il dramma è che questo modello lo abbiamo copiato fedelmente in Europa, dove sono state fondamentali le politiche dell’austerità e della deindustrializzazione per spostare il baricentro sociale dal lavoro alla rendita finanziaria; l’austerità ha smontato i sistemi di Welfare e favorito la privatizzazione che ha reso necessaria la finanziarizzazione. Con tale spostamento peraltro si è accentuata la dipendenza europea dagli Stati Uniti perché il luogo di destinazione del risparmio europeo sono state le Borse americane dalle cui sorti discendono gli esiti dei grandi patrimoni e dei fondi pensionistici del Vecchio Continente. Per essere più chiari: la ricchezza finanziaria dei miliardari americani ed europei, che come detto costituisce circa il 70 per cento dei loro patrimoni, è costituita dallo stesso numero limitato di titoli soltanto americani e quotati nelle Borse americane.

Per il modello liberale esiste un’unica ristrettissima élite, americana ed europea, che si è spaventosamente arricchita per l’esplosione della finanziarizzazione – nonostante le crisi che i super ricchi non hanno pagato – il cui unico centro nevralgico è costituito da Wall Street e dintorni: un’esplosione dunque che ha una sola capitale, la Borsa americana, ma che ha beneficiato di tante legislazioni internazionali e nazionali, tutte congiuntamente neoliberali, impegnate con certosina pervicacia a ridurre a zero le imposte sui patrimoni finanziari dei super ricchi. In questo senso, non è vero che il modello dominante degli ultimi trent’anni non ha funzionato: per qualcuno ha funzionato benissimo e ha dimostrato di avere una geografia del potere insostituibile a cui la politica ha manifestato una chiara subordinazione funzionale.

Ma l’epilogo della vicenda statunitense può essere ancora più doloroso perché l’insostenibilità dell’indebitamento pubblico e privato del Paese è ormai palese e nel medio periodo non possono bastare le risorse dei risparmiatori globali raccolte e messe a disposizione dai grandi fondi anche quando riuscissero a piegare Trump ai loro voleri. La montagna di risorse necessarie è destinata a crescere rapidamente e, al di là dei fondi, nessuno sembra molto disposto a fare ancora credito agli Stati Uniti. Non la Cina, alla ricerca evidente di un totale disaccoppiamento dall’economia a stelle e strisce, non solo in termini commerciali e finanziari ma anche in quelli monetari. Sulla stessa lunghezza d’onda si pongono gli altri membri dei Brics – Brasile, Russia, India e Sudafrica – e persino l’Europa sta dando segnali di disaffezione rispetto alla dipendenza dalla finanza statunitense, pur continuando a coltivare qualche riflesso condizionato pavloviano. Le aste di vendita dei titoli federali sono sempre più complicate e il dollaro soffre ben più di quanto possa servire per rendere le merci americane maggiormente competitive. In queste condizioni, però, sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti fare ricorso al “quantitative easing”, alla produzione in eccesso di carta moneta per coprire il debito, come avvenuto nel 2008, perché la credibilità del dollaro è ben diversa oggi e un’operazione simile potrebbe generare l’accelerazione della svalutazione del biglietto verde.

È molto probabile allora che l’amministrazione Trump debba fare i conti, per la prima volta nella storia americana recente, non solo con una dura recessione ma con il rischio di un fallimento almeno parziale dei propri conti pubblici. Per evitarlo occorrerebbero una vera politica fiscale, del tutto anomala per gli Stati Uniti, con pesanti sacrifici per la popolazione americana, e un drastico ridimensionamento del dollaro tale da riflettere un cambiamento evidente delle gerarchie planetarie. Un’alternativa, ma solo apparente perché altrettanto dolorosa, sarebbe una gigantesca inflazione importata dall’estero, con l’acquisto di prodotti a prezzi impennati a tal punto da produrre effetti sul valore del debito, secondo la più ingiusta e più conosciuta delle ricette. Forse, i dazi di Trump hanno, consapevolmente o in maniera meno cosciente, proprio questo fine: gli americani devono pagare il costo di anni di una finanziarizzazione che ha permesso loro di vivere molto al di sopra delle loro condizioni reali ma, nella narrazione di Trump, questo costo è colpa del resto del mondo cattivo che ha provocato l’impennata dell’inflazione americana, dimenticandosi quanto gli Stati Uniti hanno fatto per lui.

 

 

Immagine di copertina di Manuel Cohen via Afp.

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