Un concetto chiave su cui si fonda la nostra comprensione della democrazia è la libertà. Tuttavia, di recente la libertà è diventata anche motivo di imbarazzo per la sinistra globale e un concetto più facilmente appropriabile dalla destra, nella sua difesa dei diritti individuali in contrapposizione alle norme sociali condivise. Vorrei riflettere su che aspetto potrebbe avere un’idea robusta di libertà per la sinistra e perché sia necessario recuperarla, invece di provare a farne a meno. E voglio porre la questione in un modo che ci spinga a riflettere tanto sulla micro-storia quanto sulla macro-storia: su come gli eventi della storia mondiale plasmino e limitino le vite degli individui che vi si trovano coinvolti, e su come le istituzioni politiche esistenti tentino, e falliscano, di promuovere determinati ideali morali. Per fare progressi, dobbiamo confrontarci con due tipi diversi di fallimenti: quello degli Stati socialisti nel mantenere la promessa di libertà e quello delle istituzioni del capitalismo liberale nell’estendere la libertà oltre le élite privilegiate e oltre una manciata di società liberali occidentali. In effetti, mentre molti associano le idee socialiste ai concetti di eguaglianza e giustizia e le idee liberali al tema della libertà, la tradizione socialista, da Karl Marx in poi, promuove in realtà le stesse idee di libertà che sono filosoficamente al centro del liberalismo. Semplicemente le radicalizza ulteriormente e, per certi versi, mostra i limiti delle teorie liberali, ad esempio nel modo in cui i concetti di libertà vengono circoscritti a specifiche categorie di persone: cittadini di un certo Stato o membri di una particolare classe sociale.
Certo, non dobbiamo avvicinarci né al socialismo né al liberalismo come a sistemi di pensiero puri. La mia proposta è piuttosto di cominciare a pensare alle contraddizioni nell’esperienza della libertà: la tensione tra gli ideali morali a cui aderiamo e l’interpretazione di questi ideali da parte delle istituzioni esistenti.
Consideriamo l’esempio della libertà di movimento. Ricordo la prima volta che viaggiai in Occidente con mia nonna. Avevo circa undici anni ed era la prima volta che agli albanesi era consentito viaggiare fuori dal proprio Stato. Il discorso era cambiato: ci era sempre stato detto che non potevamo viaggiare perché il nostro Stato non ce lo permetteva o perché non avevamo il passaporto. Ma poi cadde il Muro di Berlino, finì la Guerra fredda, si abbandonò il socialismo di Stato. Quasi da un giorno all’altro lo Stato iniziò a rilasciare passaporti a tutti. Eppure scoprimmo che il passaporto non bastava: occorreva anche un visto, per il quale non era competente il nostro Stato, bensì un altro. Improvvisamente tutti gli ostacoli alla libertà di movimento che avevamo internalizzato perché ci veniva detto che non potevamo viaggiare in quanto non autorizzati si esternalizzarono. Scoprimmo che non potevamo viaggiare anche perché un altro Stato non ce lo permetteva. Ma se la libertà di movimento conta, conta tanto nell’emigrazione quanto nell’immigrazione: sia per lasciare il proprio Paese, sia per entrare in un altro. Se mi si dice che sono libera di uscire dall’aula ma, arrivata nel corridoio, noto che tutte le porte sono chiuse a chiave, sono davvero libera di muovermi? Proprio quando gli Stati socialisti dell’est avevano smesso di sparare ai propri cittadini alla frontiera, i Paesi capitalisti dell’ovest iniziarono a mandare barche e a pattugliare i mari. I migranti continuavano a morire. Erano cambiati soltanto i colori delle uniformi e le bandiere sotto cui venivano perpetrati i crimini.
Parlo della migrazione perché è un tema molto saliente nelle democrazie liberali contemporanee e perché è un buon prisma attraverso cui esplorare ciò che non va nelle visioni prevalenti della libertà: per capire quando la libertà è per alcuni, ma non per altri. Ma anche perché vi si può esaminare, più in generale, il rapporto tra libertà e progresso, punto su cui tornerò. Siamo così integrati gli uni con gli altri che gli effetti di un’ingiustizia subita in una parte del mondo si avvertono ormai ovunque: la migrazione ne è solo una conseguenza. E dunque l’idea che possiamo semplicemente chiudere le frontiere o realizzare la libertà in un luogo, in uno Stato o in un gruppo di Stati, per un solo gruppo di persone, è incoerente. Dobbiamo pensare la libertà come libertà globale e la democrazia come democrazia globale. Come farlo?
La crisi della democrazia che stiamo osservando ha portato alla luce una curiosa tensione. Da un lato, ha messo in discussione le teorie della globalizzazione che avevano diagnosticato (e spesso celebrato) la fine dello Stato e la morte della sovranità. Dall’altro, ha mostrato la distanza da quella che è l’unica concezione di sovranità che rende lo Stato moralmente attraente e democraticamente legittimo: la sovranità popolare, l’idea per cui siamo uguali autori delle leggi a cui siamo tenuti a obbedire.
L’ideale moderno di democrazia si basa su un’idea molto peculiare di legittimazione, diversa da quelle prevalenti nel mondo antico, dove la comunità era la fonte delle norme morali, o nel periodo dal Medioevo alla prima età moderna, quando si faceva appello al diritto divino dei re. Il concetto moderno di legittimazione è strettamente connesso alla libertà. Esso è chiamato in causa per spiegare perché individui, nati liberi e uguali, sacrifichino la loro libertà nello stato di natura senza legge, in cambio della libertà acquisita in associazione con gli altri, in una condizione civile governata da leggi. Questa idea di legittimazione democratica spiega anche perché, in circostanze d’emergenza, lo Stato – e solo lo Stato – abbia l’autorità di sospendere o restringere temporaneamente quelle libertà fondamentali, la cui protezione è la ragione della sua stessa fondazione: la libertà di movimento, di associazione o di voto.
La maggior parte di queste libertà è, in teoria, garantita nei documenti fondativi della maggior parte delle democrazie liberali esistenti. Molte, se non tutte, sono state sospese o limitate nell’ambito delle misure d’emergenza invocate per affrontare le crisi che abbiamo attraversato di recente: insicurezza finanziaria, emergenza sanitaria, guerra e così via. Le emergenze sono di solito fenomeni di breve periodo, ma segnalano qualcosa di importante sul lungo periodo. Il governo d’emergenza crea un precedente per la concentrazione del potere nelle mani di pochi – esperti scientifici, agenzie che controllano i dati, élite economiche e politiche – che continueranno a fare leva sull’autorità dello Stato per esigere l’obbedienza di tutti, offrendo protezione solo ad alcuni.
Ecco perché la questione della libertà è connessa alla sfida di ripensare i fondamenti della democrazia alla luce delle nostre esperienze storiche. Il fallimento del socialismo nell’Europa orientale ci ha insegnato che alcune libertà – di parola, di pensiero, di protesta, di associazione, di movimento – non sono negoziabili. Ma dobbiamo affiancare a una solida tutela di queste libertà di prima generazione, garanzie altrettanto solide per le libertà sociali: la libertà di prosperare, di realizzare il potenziale morale delle persone. In altre parole, queste libertà di prima generazione devono essere significative. La libertà di pensiero è importante, ma a cosa equivale quando le persone non hanno accesso alla cultura? Che cosa significa quando tutti i nostri pensieri sono disciplinati dal flusso di dati attraverso algoritmi che consentono alle imprese private di trarne profitto?
Pertanto, un confronto effettivo con la libertà richiede di ripensare i fondamenti della democrazia. A tal fine, dobbiamo rivedere il rapporto tra liberalismo e capitalismo e considerare la coppia come un fenomeno storico, con tutte le promesse e i fallimenti che ha comportato.
Non è un compito facile. Il liberalismo è una “chiesa” ampia. E non coincide con il capitalismo. Il capitalismo è un insieme di relazioni politiche ed economiche; il liberalismo è un insieme di idee. Sebbene il capitalismo non sarebbe quello che è senza il sostegno delle teorie liberali, non tutte le teorie liberali sostengono il capitalismo. Liberali progressisti da John Stuart Mill a John Rawls sono stati critici del capitalismo; spesso hanno difeso forme alternative di organizzazione sociale, come la “property-owning democracy” e il socialismo liberale.
Ciò colloca il liberalismo in una posizione curiosa: nella misura in cui il liberalismo viaggia con il capitalismo, è un fenomeno storico. Nella misura in cui se ne distacca o lo qualifica, è un ideale sociale. Il liberalismo ha un’idea centrale, la libertà, e una promessa centrale: la libertà dalla paura. Per i liberali progressisti la domanda è: il fallimento del capitalismo deve essere considerato un fallimento del liberalismo? E se il liberalismo dev’essere inteso come un ideale piuttosto che come la realtà sotto cui viviamo, fino a che punto gli incontri storici tra capitalismo, socialismo, fascismo, democrazia, teocrazia e populismo mettono in discussione l’intero progetto liberale?
A mio avviso, il liberalismo non può garantire la libertà dalla paura perché le società liberali, nel loro incontro con le strutture economiche capitalistiche, producono patologie proprie, diverse dalla paura del dispotismo o dell’intolleranza che il liberalismo avversa, e tuttavia distruttive a loro volta.
I socialisti tendono a spiegare le patologie liberali in relazione alle condizioni materiali in cui le idee si sviluppano. Ma ancor prima della critica socialista, le tensioni del progetto liberale, anche nella sua forma ideale, erano chiare agli osservatori più acuti del liberalismo. Le origini intellettuali del liberalismo risiedono nelle guerre di religione del XVI e XVII secolo e nella combinazione di tre elementi: un’antropologia morale, una teoria dell’economia e una teoria della politica. Tutti e tre aiutarono gli ideatori liberali a elaborare un’interpretazione peculiare di che cosa fosse il potere e di come dovesse essere esercitato; contribuirono all’utopia liberale che stiamo ancora aspettando di realizzare. E tuttavia, su tutti e tre i fronti, i primi critici del liberalismo notarono le tensioni che rendevano le promesse liberali poco più che promesse.
Consideriamo l’antropologia del liberalismo. Molti approvarono la liberazione degli individui dal giogo dell’autorità e celebrarono l’emergere di un nuovo ideale: quello della società civile. Questo si basava sul ruolo del doux commerce (come lo chiamava Montesquieu), ossia sul contributo complessivo del commercio alla prosperità materiale e a relazioni pacifiche tra gli esseri umani. Eppure, accanto alla celebrazione della centralità dell’individuo (il discorso dei “vizi privati/virtù pubbliche”), circolavano nel Settecento importanti critiche alla società commerciale, che elencavano tutte le disposizioni psicologiche distruttive incoraggiate da quel progetto: egoismo, avidità, invidia, sfiducia, competizione per beni non essenziali e di lusso, esagerazione delle apparenze, desiderio di impressionare, bisogno di riconoscimento esterno, rivalità, indifferenza verso il destino dei più vulnerabili, comportamenti di sfruttamento.
Passiamo ora al rapporto tra teoria economica e teoria dello Stato. Come notarono molti primi critici, pur ammirando la società commerciale, i liberali avevano bisogno dello Stato per garantirne il funzionamento. I liberali erano orgogliosi di aver “scoperto” i diritti umani come esito dell’ideale universale di cittadinanza, celebrato durante le rivoluzioni francese e americana. Si attribuirono anche il merito della fine della rappresentanza per ordini e della distruzione di strutture di autorità, come la nobiltà e la Chiesa. Ma questo ideale universale era costantemente minacciato dal conflitto tra le esigenze della società commerciale e quelle dello Stato. Da un lato, lo Stato è necessario per garantire la proprietà privata e i diritti e doveri che permettono alla società commerciale di funzionare. Dall’altro, come notarono molti primi liberali, lo Stato fa affidamento sulla tassazione e sul contributo che i ricchi apportano alle sue finanze per preservare l’ordine e la stabilità. Ma, a seconda dell’entità della tassazione e delle misure di welfare necessarie per evitare che l’ineguaglianza minacci la stabilità, ciò può essere così divisivo sul piano politico da distruggere l’ideale universale di solidarietà civica. Le vecchie divisioni di classe e di status ritornano, solo in forma moderna. Per affrontare la minaccia, lo Stato esternalizza alcuni dei suoi problemi al sistema internazionale di crediti e debiti, che di solito riesce a rattoppare l’ineguaglianza interna al prezzo dell’anarchia globale.
Questo conduce a una terza fonte di paura, propria del liberalismo. I liberali classici cercavano di limitare il ruolo dello Stato e celebravano la società civile come una struttura spontanea e non gerarchica, in cui tutti sono uguali. Ciò faceva parte di una teoria a stadi della storia, difesa da molti proto-liberali, tra cui Adam Smith, Adam Ferguson e John Millar. Per Smith e altri, la storia è fondamentalmente la storia delle relazioni materiali articolate attraverso diversi sistemi di produzione: caccia-raccolta, pastorale, agricolo, che culmina nella superiorità della società commerciale. Ma una simile narrazione di speranza, insieme alle teorie a stadi su cui si fonda, è intrinsecamente gerarchica. Il prezzo della speranza liberale nel trionfo della società civile fu la condanna di forme di vita alternative (ad esempio quella di caccia-raccolta e quella agricola) come stadi inferiori di sviluppo storico. Ciò conduce all’attacco aggressivo contro i popoli legati a tali forme di organizzazione sociale, ritenuti primitivi, arretrati e bisognosi di rieducazione liberale. Anche qui il liberalismo produce una sua paura caratteristica: la paura del colonialismo e dell’impero. Non si tratta di danni collaterali, né di un’applicazione incoerente delle norme liberali (per esempio, nel difendere certi diritti e libertà per le persone da un lato del mondo, mentre li si nega ad altri). È una componente cruciale della missione liberale portare le virtù della società civile a popoli ritenuti altrimenti incapaci di realizzarle.
I liberali spesso mettono da parte la storia del colonialismo, come se non avesse nulla a che fare con i loro ideali. Ma la paura del colonialismo (e del neo-colonialismo nella forma della dipendenza dal debito o della sudditanza a istituzioni internazionali egemonizzate dai Paesi liberali occidentali, o ancora dell’interventismo umanitario) non è un sottoprodotto sfortunato. È il risultato di una filosofia della storia secondo cui la società capitalista liberale è lo stadio finale di un processo che culmina nel liberare popoli arretrati dalla loro stessa stupidità e oppressione.
Tutti questi elementi rimandano a una questione più generale riguardante il concetto liberale della libertà e il suo rapporto con il potere. I liberali cercano di limitare il potere dello Stato, delle autorità religiose e di ogni forma di organizzazione collettiva che minacci la libertà individuale. Ma, nei suoi sforzi di disperdere il potere, il progetto liberale genera le proprie strutture di potere, un proprio insieme di paure e una propria forma di non libertà. Le strutture di potere liberali sono anonimizzate più che personali, spontanee più che pianificate, e gli atteggiamenti psicologici che le consolidano alimentano egoismo e indifferenza più che aggressione aperta. Ma ciò non significa che la paura del capitalismo liberale sia meno preoccupante o meno pervasiva delle paure che il liberalismo cerca di abolire. Se mai, può essere più subdola. Dove il potere è disperso, spontaneo e anonimizzato, è ancora più difficile combatterlo.
La destra è riuscita a dettare l’agenda e a convincerci che i conflitti che viviamo siano riducibili a una frattura tra cosmopolitismo liberale e comunitarismo. Finora la destra ha avuto successo, perché è stata capace di persuadere i cittadini che i problemi del capitalismo siano riducibili a problemi di appartenenza politica. Se risolvi la questione dell’appartenenza, avrai risolto i conflitti del nostro tempo. Ma la migrazione, come ho detto, non è una causa dei problemi: è un sintomo della crisi. Se la questione del progresso politico è la questione di come evitare gli errori del passato, l’esclusione non può essere la soluzione. Un’alternativa progressista deve partire dalla messa in discussione dei termini in cui il rapporto tra libertà e democrazia viene mobilitato nel discorso politico quotidiano, soprattutto dalla destra.
Ed è qui che risiede il fallimento della sinistra contemporanea. La questione del progresso politico è oggi concepita come una questione di diritto astratto e di diritti, di chi plasma e promulga le leggi, di chi è incluso e chi escluso. In altre parole, è diventata una questione di regolazione dei termini dell’appartenenza politica o dell’appartenenza di gruppo, più che di emancipazione dei gruppi sociali marginalizzati, i cui confini di oppressione non coincidono nettamente con quelli dello Stato-nazione. La migrazione è percepita come un problema perché l’appartenenza politica è vista come la soluzione. Le guerre culturali sono così salienti perché riguardano il controllo dei confini di un gruppo sociale. Se la sinistra non va oltre la questione dei diritti e della cultura per ripensare il legame tra democrazia e capitalismo, è difficile immaginare come qualsiasi soluzione proposta non finisca, alla lunga, per essere esclusiva in qualche modo (quindi giocando a favore della destra).
Dunque, come avviene il cambiamento? Come si produce il progresso? Qui mi trovo in una posizione ambigua. Da un lato, credo nel progetto dell’Illuminismo come lavoro intellettuale di critica, di messa in luce dei doppi standard morali, di evidenziazione delle contraddizioni tra l’ideale di libertà e la sua realtà istituzionale. Credo anche che la libertà sia legata all’agency morale: non è né la libertà del mondo socialista, ormai scomparso, né quella del mondo capitalistico in affanno, ma una consapevolezza della nostra responsabilità morale verso gli altri, del dovere di confrontarci con il passato e di riconoscere ciò che dobbiamo alle future generazioni, in modo da promuovere una democrazia effettiva, tanto economica quanto politica, a livello globale.
Dall’altro lato, sono una materialista. Viviamo in un mondo d’ingiustizie replicate da strutture sociali anonime, in cui le istituzioni esistenti riflettono schemi dominanti di relazioni di potere sia all’interno degli Stati sia tra gli Stati. Quindi, se non cambiamo collettivamente gli incentivi materiali, se non democratizziamo il mercato, se non trasformiamo le istituzioni politiche, ci sarà sempre uno scarto tra come il mondo ci appare e come dovrebbe essere. Moralmente parlando, un mondo fatto delle asimmetrie che sperimentiamo – nella distribuzione del potere, nelle possibilità di movimento, nelle risorse materiali, nella produzione della conoscenza – non è un mondo libero. E un mondo in cui non tutti sono liberi è un mondo che non può essere davvero libero per nessuno.
Immagine di copertina: il Parco delle quattro libertà di Franklin D. Roosevelt Four Freedoms Park, che celebra le Quattro libertà articolate nel suo discorso sullo Stato dell’Unione nel 1941. (Foto di MLTZ / Robert Harding RF / robertharding via AFP)


