La frattura del legame storico tra capitalismo e democrazia sembra ormai evidente. Il legame che aveva retto, anche se in modo ambiguo, durante l’epoca del capitalismo industriale e della crescita fordista, oggi sembra definitivamente spezzato a causa del neoliberismo finanziario, della delocalizzazione delle produzioni e della crisi delle istituzioni democratiche.
È venuta anche a cadere una delle più forti immagini simboliche del patto sociale novecentesco: la tripartizione del tempo. Otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di vita per affetti e divertimento. Questa scansione non era solo il risultato di una decisiva conquista politica e sindacale. Era bensì una forma di organizzazione materiale dell’esistenza, fondata su un equilibrio tra produttività, riposo e relazioni sociali. Era la forma-tempo della cittadinanza sociale.
Questo modello è oggi saltato. La disgregazione del lavoro salariato stabile, la flessibilizzazione estrema dei ritmi produttivi, l’intermittenza del reddito e la crescente atomizzazione delle forme occupazionali hanno reso impossibile la negoziazione collettiva del tempo.
Il sindacato, un tempo protagonista della contrattazione e della rappresentanza, ha progressivamente perso potere e legittimità. Non perché i lavoratori siano scomparsi, ma perché è scomparso il contesto che li rendeva un soggetto politico unitario. La fabbrica, nel modello fordista, non era solo un luogo di produzione, ma anche un territorio politico: spazio di aggregazione, di conflitto, di deliberazione collettiva. Era lì che si articolavano pratiche discorsive, si formavano alleanze, si costruivano identità politiche.
Con la delocalizzazione e la frammentazione delle filiere produttive, è venuto meno lo spazio fisico della politica del lavoro. Oggi il lavoro avviene in call center, hub logistici, piattaforme digitali, ambienti domestici. Luoghi spesso invisibili, de-territorializzati, dove la relazione tra soggetti è interrotta o mediata da sistemi digitali. Questo rende molto più difficile la formazione di un discorso pubblico condiviso e quindi l’emergere di una volontà politica collettiva.
La storica tensione tra Stato, capitale industriale e contrattazione collettiva, che aveva reso possibile – almeno in alcuni contesti – un equilibrio redistributivo e una relativa forma di benessere sociale, si è progressivamente dissolta con l’affermarsi della finanziarizzazione dell’economia. Quel compromesso, fondato sulla dialettica tra produzione e conflitto sociale, non regge più sotto la pressione dei nuovi assetti globali.
Al suo posto, si è instaurata una configurazione inedita: una controversa alleanza – non dichiarata ma operativa – tra autarchie politiche e neoliberismo finanziario. In questo contesto, il capitale non ha più bisogno del consenso sociale garantito dalla mediazione statale o sindacale: esso si muove attraverso circuiti transnazionali, algoritmi speculativi e forme di potere post-democratico.
La finanziarizzazione non solo ha svuotato il lavoro del suo potere negoziale, ma ha anche svincolato l’accumulazione di ricchezza dalla produzione materiale, rendendo la disuguaglianza strutturale e autoreplicante. Ne risulta uno scollamento profondo tra economia e società, tra decisioni politiche e bisogni collettivi, tra retorica populista e realtà autoritaria.
Il risultato è un decoupling strutturale: il capitalismo non ha più bisogno della democrazia per funzionare, e la democrazia non ha più il potere materiale per governare il capitalismo.
La frammentazione del lavoro ha prodotto una trasformazione radicale della struttura di classe. Non parliamo più di una “classe operaia” unitaria e territorializzata, ma di una moltitudine dispersa: lavoratori della gig economy, giovani precari, donne escluse dalle garanzie sociali, migranti senza status, soggetti costretti all’informalità.
In particolare, le giovani generazioni vivono una crisi profonda non solo materiale, ma immaginativa: l’accesso all’idea di futuro è stato loro negato col tramonto di ogni filosofia della storia. Il lavoro non è più un mezzo per costruire, ma una soglia di sopravvivenza.
Le donne, che avevano conquistato spazi di tempo e diritti nel secondo Novecento, si trovano ora in una posizione di doppia vulnerabilità: precarizzate nel lavoro e ricacciate in ruoli di cura non retribuiti.
Il tempo – elemento chiave di ogni progetto emancipativo – è oggi nuovamente privato, frammentato, assente.
In questo contesto, la “politica dei temi” (genere, lavoro, ambiente, diritti), concepita come sommatoria di rivendicazioni settoriali, mostra tutti i suoi limiti nella radicalizzazione identitaria che limita la visione d’insieme. È necessario ripensare quindi il quadro generale, ovvero la struttura sistemica delle disuguaglianze, nella loro interconnessione.
La domanda, dunque, non è come restaurare il patto sociale novecentesco, ma come ripensare la democrazia in un mondo senza garanzie, senza territori stabili, senza soggetti politici tradizionali.
Occorre ripensare i luoghi della deliberazione pubblica. Da un lato, nella presenza fisica con spazi territoriali di nuova aggregazione (centri civici, scuole, cooperative, esperienze mutualistiche). Dall’altro, nell’ambiente digitale, costruendo arene deliberative online che non siano solo luoghi di espressione individuale, ma di costruzione collettiva di senso e azione.
In parallelo, serve una riflessione profonda sul ruolo dello Stato sociale, oggi eroso sia dall’austerità imposta dal neoliberismo sia dalla crisi di legittimità delle istituzioni pubbliche.
Lo Stato non può essere semplicemente “protettivo”: deve diventare attivo nella redistribuzione del tempo, del reddito e del potere, ripensando il welfare in chiave post-industriale, neo-territoriale e transgenerazionale.
Infine, ogni riflessione sulla democrazia nel XXI secolo deve confrontarsi con il nuovo disordine autocratico mondiale: la crisi del diritto internazionale, l’affermarsi di autoritarismi ibridi, l’indebolimento delle istituzioni multilaterali, la pressione esercitata da grandi attori non statali (multinazionali, big tech, finanza, piattaforme).
La democrazia, se vuole sopravvivere, non può restare legata esclusivamente alla forma-Stato del XX secolo. Deve articolarsi in forme transnazionali, capaci di agire dentro e oltre i confini, ricostruendo alleanze sociali e politiche che rispondano alle nuove fratture globali.
Il capitalismo globale ha sciolto il suo legame con la democrazia. Il compromesso storico che aveva garantito per decenni una parvenza di equilibrio tra potere economico, rappresentanza politica e istanze sociali è ormai infranto.
Non bisogna tuttavia restaurare un ordine perduto o rincorrere nostalgie istituzionali. Bisogna piuttosto dare forma a nuove soggettività politiche, ricostruire dalle rovine spazi collettivi di senso e immaginare una democrazia all’altezza della frattura che stiamo attraversando e che sappia ricucire le relazioni nel mondo umano e naturale.
Le autocrazie che avanzano non sono semplici ritorni del passato: sono figure nuove del dominio, ibride, adattive, capaci di annidarsi nelle strutture vuote della democrazia svuotata.
È tempo di ricominciare a pensare a ciò che ancora non esiste. Occorre generare una nuova legittimità a partire dai margini, dalle rotture, dagli spazi silenziati dell’attuale. Significa partire dallo scarto per ridisegnare le relazioni e aprirsi a un nuovo inizio.
Immagine di copertina: un rider in pausa a Brampton, Ontario, il 2 ottobre 2025. Foto di Mike Campbell / NurPhoto via AFP.


