Guardare e filmare il dolore degli altri: un’azione passiva

Panottico: un’immagine settecentesca che secondo l’utilitarista Bentham avrebbe dovuto raffigurare un carcere ideale. Per George Orwell prima e per Michel Foucault poi costituiva invece la rappresentazione distopica di un potere ubiquo che non solo controlla le vite pubbliche e le esistenze private degli individui, bensì si insinua nelle loro menti e corpi, riproducendosi.

L’immagine dell’essere guardati e controllati passa senza soluzione di continuità dal Novecento al nuovo Millennio con l’affermarsi dei nuovi social media. Si tratta di una nuova forma di “capitalismo della sorveglianza”, come definito da Shoshana Zuboff, attuantesi attraverso nuove forme di controllo socio-economico e securitario, che limitano le libertà fondamentali.

Ma cosa succede quando a guardarci non sono i rappresentanti o emissari del “potere” nelle sue diversificate metamorfosi, interessati a controllarci, bensì sono altri cittadini che osservano per scelta o per caso ciò che avviene, rendendolo di dominio pubblico? Si tratta di una nuova fenomenologia di “guardoni” – esplosa negli ultimi tempi – che però si distanzia dalla passata tradizione dell’osservatore morboso che spia senza essere visto: la riproduzione visiva riguarda ora la violenza su vittime e la loro sofferenza.

La recete pubblicazione in rete di filmati che riprendono atti cruenti di violenza, dove gli autori – privati cittadini – rimangono ignoti, pongono nuovi quesiti sull’uso e sul significato dei social media.

Sono sotto gli occhi di tutti le terribili immagini riportate da video on-line: un uomo mentre strangola a mani nude un altro uomo, inerme, senza colpa; una donna stuprata di cui si sente la voce, implorante; bande di minorenni muniti di spranghe e coltelli. I balconi e le finestre diventano i luoghi privilegiati per osservare, in pace, la “vita sconvolta degli altri”. Si guarda, si filma, non ci si muove dal proprio luogo di vita. Si preferisce pubblicare sui social media la propria “opera” senza firmarla, prima di denunciare gli episodi alle forze dell’ordine.

Vogliono essere tali filmati atti di denuncia, come da tradizione documentale dei reporter? La domanda che tuttavia molti si pongono è: “Perché chi stava vedendo non è intervenuto?”. Si tratta di paura, indifferenza, o di altro, nell’intento di rafforzare l’audience del circo mediatico e l’estensione delle nuove arene del “teatro del dolore”? Non si tratta di voyeurismo o di esibizionismo. Si tratta piuttosto di una “occulta volontà di protagonismo” da parte di nuovi “guardanti”, visivamente attivi, ma fisicamente passivi.

Senza dubbio, il ruolo dello street journalism è stato finora fondamentale, così come l’impegno di cittadini a riprendere in tempo reale certi accadimenti, testimoniando la “verità” di crimini. Si pensi al filmato girato da una giovane afro-americana che con coraggio aveva ripreso la scena dell’assassinio di George Floyd, davanti a poliziotti armati, che avrebbero raccontato una diversa storia per nascondere il loro crimine. Da qui era nato il movimento anti-razzista Black Lives Matter, contro la brutalità della polizia e le disuguaglianze razziali.

I recenti filmati non sembrano invece voler essere di denuncia sociale. Rimandano piuttosto a più profondi cambiamenti collettivi e psichici. Non concernono necessariamente il dibattito sul potere vigilante di telecamere fisse, droni e telefoni cellulari, cioè su sicurezza, sorveglianza e privacy. Nell’età dei social media, si riferiscono piuttosto alla nuova tensione fra il guardare e il far guardare, privando la transazione visuale della prassi del civismo attivo.

La pandemia ha così lasciato molti strascichi nelle menti e nei corpi: si vuol allontanare l’idea di un contagio prossimo, di un rischio ancora attuale che continua a lasciare lungo il suo percorso morti e disabili.  Si continua a preferire la lontananza, la mancanza di reciprocità, la fisicità del contatto. Sempre più spesso accade di trovarsi a tavola con persone che guardano intensamente il proprio telefonino, preferendo messaggi e video alla parola e alla presenza concreta degli atri.

La distanza permette di allontanare le fonti della violenza e la possibilità di malattia. Le riprese di una realtà materiale si trasformano in entità virtuali, “come guardare un film”. Sono gli altri a morire e a soffrire.

Nel suo importante studio su Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanee, Stanley Cohen sosteneva la tesi secondo cui ciò che connoterebbe di fatto la nostra esistenza quotidiana sarebbe un costante processo di rimozione della sofferenza che porta ad un’indifferenza ipocrita rispetto al dolore altrui, nel rifiuto di potersi trovare nella stessa posizione.

Eppure la vulnerabilità e l’imprevedibilità esistenziale è ciò che viene raccontato anche nei recenti filmati “amatoriali”: si trattava di un giorno come tanti altri e poi è successo… La vita è così cambiata all’improvviso, per sempre. I filmati intendono negare l’eventualità di un trauma perpetuo: vedo, filmo, divento autore di un lavoro che altri vedranno e giudicheranno, compresi i commenti offensivi e voyeuristici dei leoni della tastiera che aumenteranno l’audience dei discorsi d’odio. Nessuna empatia nei confronti delle vittime, solo la freddezza rappresentativa di chi vuol rimanere un protagonista anonimo.

Storia deriva dal greco sapere perché si è visto qualcosa che può essere raccontato. Nell’età dei social media, coloro che un tempo erano lettori di giornali, ascoltatori di programmi radiofonici, spettatori di programmi televisivi, diventano ora autori, oltre che testimoni. Anche se dovranno essere raccolti ulteriori dati empirici e sviluppati approfonditi studi in campo neuro-scientifico, si può tuttavia avanzare l’ipotesi secondo cui il potenziamento delle capacità visuali – rafforzate da sofisticati strumenti di duplicazione della realtà e dalla creazione di nuovi orizzonti visivi in un illimitato spazio virtuale – può addirittura inibire la possibilità di intervenire pragmaticamente nello spazio pubblico. Guardo, filmo, resto fermo e pubblico on line, rimanendo sempre comodamente a casa.

Seppur con i dovuti distinguo, filmare abusi e violenze senza intervenire o senza denunciare previamente tali atti alle forze dell’ordine prima di metterli on line (ma ciò è anche dovuto alla voracità scandalistica di siti che sfamano così un pubblico famelico di notizie di cronaca nera), non è un’opera di protesta, ma è un’azione vile. L’ammissione di essere stati pietrificati dalla paura di intervenire per non essere a propria volta aggrediti non spiega del tutto i meccanismi psichici di nuove forme di narcisismo, efficiente nelle riprese, potenziato dalla indiscriminata diffusione on-line di contenuti scritti e visuali, occultato dall’anonimia, ma passivo nell’intervento diretto e nella denuncia che implicherebbe uno spostamento anche spaziale. Le virtù civiche e l’attivismo sociale si misurano anche nella capacità empatica di non nascondersi o scappare di fronte al pericolo, altrui.

 

Marina Calloni è professoressa ordinaria di Filosofia Politica e Sociale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Foto: Aneta Pawlik via Unsplash

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