Quale governance per il dopoguerra?
Appunti sul mondo che verrà

Al dopo bisogna pensarci prima. Occorre interrogarsi adesso intorno a cosa volere dopo che le armi, russe e ucraine, avranno cessato, presto o tardi, di sparare. Ogni conflitto ha una fine, se non altro per esaurimento delle energie dei belligeranti. Non necessariamente il cessare del fuoco equivale però alla pace, per non parlare del fatto che esistono paci peggiori della guerra stessa. Jürgen Habermas, non sospettabile di essere un guerrafondaio, nonché firmatario con Derrida di un manifesto contro l’invasione dell’Iraq, ha ricordato come il nostro mirare ad ottenere la pace “non equivale alla richiesta di sacrificare un’esistenza politicamente libera sull’altare della mera sopravvivenza”. In altri termini, per una pace stabile occorre la giustizia, senza la quale il cessate il fuoco rimane precario.

Ma qui ci sono due ordini di riflessioni che vanno fatti. Giorni fa (il 19 maggio), un editoriale del New York Times ha ricordato a Biden che il supporto del pubblico americano, per non parlare dei repubblicani, all’invio di armi e risorse all’Ucraina non è eterno, alcune incrinature iniziano a vedersi, e mentre la guerra minaccia di prolungarsi per mesi, forse anche oltre l’anno, con rischi crescenti di escalation atomica intenzionale o per errore, è necessario chiarire quali siano gli obiettivi di fondo. Si vuole chiudere dignitosamente la partita ucraina, con il massimo di integrità territoriale salvaguardabile per Kiev, per poi provare a ricucire pian piano una relazione più “normale” con la Russia? O strada facendo l’obiettivo è diventato la destabilizzazione del regime putiniano, ben oltre la vicenda ucraina? Impietosamente, il prestigioso Editorial Board segnala come sia imprudente oscillare: ciò che è utile per un obiettivo è potenzialmente dannoso rispetto all’altro. E dice la sua: “non è ancora interesse dell’America tuffarsi in un conflitto totale con la Russia, anche se una pace negoziata potrebbe imporre all’Ucraina di fare delle scelte difficili”. Henry Kissinger, intervenuto (il 24 maggio) online al Foro di Davos, ha ribadito il concetto. Cercare di indebolire la Russia sarebbe un’idea pericolosa, in prima battuta per l’Europa, ad essa più prossima geograficamente e meno coesa politicamente dei due – sottinteso inespresso – duellanti globali.

Sono opinioni autorevoli, che aprono la riflessione, ma non la esauriscono. Per proseguirla, va notato che l’oscillazione ha una ragion d’essere, al di là del carattere di Joe Biden, nel fatto che le due alternative non si collocano sullo stesso piano, ma muovono da due ordini di problemi diversi.

La pace in Ucraina ha già dei punti fermi che orientano i Paesi NATO e in parte sono presenti nel piano di pace presentato dal Governo italiano. In primo luogo, la decisione sull’integrità territoriale va lasciata agli ucraini, che hanno pagato un prezzo di sangue così alto, e non può essere negoziata sopra le loro teste. Inoltre, nulla potrà essere regalato al tavolo negoziale a chi ha invaso l’Ucraina, che non sia già stato conquistato sul terreno. Infine, lo status di neutralità o demilitarizzazione della futura Ucraina sarà oggetto di negoziato. Resta da vedere quanto sia ad oggi maturata fra le parti in conflitto la percezione di una sostanziale immodificabilità della situazione sul terreno, senza la quale la speranza di guadagnare militarmente un vantaggio negoziale fa premio sugli appelli a negoziare.

Ma il vero interrogativo su cui occorre iniziare a riflettere è il dopo. Potrà essere conclusa una pace più o meno buona, che richieda da parte dell’Ucraina decisioni più o meno “difficili”. Ma questo è solo lo scenario locale, ucraino. Il mondo è più grande dell’Ucraina e auspicabilmente durerà più a lungo di questa guerra.

Come lo vogliamo pensare? Prima dell’invasione dell’Ucraina esisteva un embrione di governance globale, spesso bloccato dai veti in Consiglio di Sicurezza, ma dotato di un grande dinamismo che ha portato prima all’adozione della dottrina della Responsibility to Protect (elaborata nel 2001 da una Commissione istituita da Kofi Annan) da parte del World Summit ONU nel 2005 su iniziativa di Ban Ki-Moon; e poi, nel 2006, ha visto gli Small-5 (Costa Rica, Giordania, Lichtenstein, Singapore e Svizzera) chiedere la regolamentazione dell’esercizio del veto in Consiglio di Sicurezza, mentre fiorivano progetti di riforma della rappresentanza assembleare. Nonostante le difficoltà, esisteva una speranza non utopica che le Nazioni Unite potessero giungere a mitigare, con la moral suasion del multilateralismo e del dialogo, l’arbitrio di superpotenze che guardavano con sufficienza o con irritazione a quel palcoscenico, ma tuttavia non osavano mai delegittimarlo del tutto. Ne facevano spesso un teatro, da Krusciov a Trump, ma parlavano da quel podio.

E adesso? L’ONU versa in pre-coma, come la Società delle Nazioni sul finire degli anni Trenta. Ma potrà mai risorgere, dopo l’invasione dell’Ucraina? E se non risorge, come evolverà il sistema delle relazioni internazionali? Torneremo a un mondo vestfaliano e, a seguire, al “concerto delle potenze” su scala non più europea ma globale, con le superpotenze al posto dei paesi europei? Andiamo verso un assetto in cui tre superpowers si contendono la scena, con intorno una cintura di buffer-states, poi delle potenze di media portata – UK, EU, Turchia, India, Iran, Israele, Sud-Africa, Brasile, Canada, Giappone, Australia, Sud-Corea, Taiwan – e poi degli Stati nominalmente sovrani che non rientrano in nessuna di queste categorie?

Un mondo instabile perché tripolare, con un assetto che consente a una coalizione di due di prevalere sulla terza superpotenza, con una competizione dei centri imperiali per guadagnarsi il favore delle potenze intermedie ancora non del tutto allineate, e infine le “sovranità limitate” che ritornano, con le forme diverse che hanno assunto (pensiamo alle precedenti invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia, oppure alla strategia della tensione italiana e al colpo di stato in Cile): sarà questo il mondo del 2050?

Torniamo alla domanda di cui sopra, dopo avere richiamato la frase tanto contestata a Joe Biden: “per amor di Dio, quest’uomo non può restare al potere”. Proviamo a rispondere. Può restare al potere Vladimir Putin, umiliato o salvaguardato dell’umiliazione, e il mondo tornare come prima? Certo un mondo deve restare, nessuno può responsabilmente volere rischiare che non vi sia più un mondo. Ma è possibile tornare al multilateralismo di qualche anno fa, con l’ONU imperfetta ma voce fra le voci, dopo l’invasione dell’Ucraina e con un attore globale che si è mosso come la Russia putiniana? Ci può essere altra base di rapporto fra NATO e Russia che non sia la deterrenza e la tutela della propria sicurezza? L’invasione dell’Ucraina è (come ha recentemente affermato il premier polacco Morawiecki), o pensiamo che non sia ancora, la pietra tombale sul “mutamento attraverso il commercio” inseguito da mezzo secolo di Ostpolitik tedesca?

Se queste domande instillano il dubbio che si possa riprendere “business as usual” una volta conclusi i negoziati per la pace in Ucraina e chiarito il destino del Donbass, si capisce anche la ragione del doppio binario su cui si sono mosse l’Amministrazione Biden e i vertici NATO. Entrambe le cose sono vere: urge far tacere le armi e concludere una pace dignitosa, e però nulla tornerà come prima per il puro e semplice fatto che la doverosa pace dignitosa sarà siglata. Al “come prima” si tornerà solo quando tutte le potenze di questo mondo, grandi e medie, ivi inclusa la Russia, avranno rinunciato ad aggredire i vicini. Se questo mutamento passerà per la rimozione di Putin non spetta ai paesi NATO deciderlo, ma certo è che la postura di deterrenza e soprattutto il perdurare delle sanzioni alla Russia devono seguire un corso indipendente da ciò che si deciderà al tavolo del negoziato per l’Ucraina.

 

Alessandro Ferrara è Professore di filosofia politica all’Università di Roma Tor Vergata, e insegna Legal Theory all’Università Luiss Guido Carli di Roma. 

Foto: Il Segretario di Stato Usa Antony Blinken ascolta l’intervento del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres – New York, 19 maggio 2022 (A. Renault / AFP).

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