Agenda cercasi. La via stretta per i riformisti di fronte alla sfida populista

Quello populista è un fenomeno che presenta indiscutibilmente alcuni forti tratti comuni in varie e lontane parti del mondo. Gli schizzinosi che vorrebbero snobbare il concetto stesso di populismo, perché pensano sia una parola passe-par-tout con cui politici in difficoltà cercano di esorcizzare il loro problema con uno stratagemma fumogeno, sono pedanti e noiosissimi. Ma soprattutto non colgono il punto. Farebbero bene a rassegnarsi: i politici in difficoltà esistono e annaspano, il concetto ha una lunga e complessa storia negli studi politici, ma nella nostra epoca indica qualche cosa di preciso, tutt’altro che fumo.

Fenomeni come quelli caratteristici di leader al potere come Narendra Modi, Trump, Bolsonaro, Orban, Erdogan, Kaczinsky o all’opposizione come Le Pen e Zemmour, in Francia, e Meloni in Italia mostrano innegabili tratti comuni: l’appello al popolo come unità omogenea definita dall’etnia, dalla lingua, dalla religione o dalla cultura della maggioranza; l’opposizione verso gli altri, minoranze fuori dall’inner circle e potenziali invasori; l’ostilità di «noi gente comune» verso l’élite istruita, potente, privilegiata, cosmopolita etc. etc. E fa bene Giorgia Serughetti, sociologa, a raccogliere in un volume le idee con le quali individuare le dinamiche del populismo e cercarne le cause. L’esplorazione non è nuova ed ha già alimentato una vasta letteratura, qui passata in rassegna in modo analitico, ma Serughetti concentra la sua attenzione sulla crisi di identità che ha colpito strati della popolazione molto vasti che sono stati penalizzati dall’andamento dell’economia e per questo minacciati nel loro status, ma anche feriti dai mutamenti culturali legati all’ascesa delle minoranze e all’evoluzione del costume, della vita sessuale, dei rapporti di potere tra i generi.

In un fantastico saggio ispiratore (anche di questo libro), Achieving Our Country, del 1998, Richard Rorty, descriveva il successo dei liberal americani quando si sono dedicati, dopo le battaglie degli anni Sessanta per i diritti dei lavoratori, alle ingiustizie razziali e di genere. Quello che è avvenuto è stato uno straordinario avanzamento che ha reso inaccettabili discriminazioni, che erano prima il pane quotidiano della vita sociale, quasi l’ordine naturale delle cose, contro le donne, i neri, gli omosessuali. L’America è diventata più civile con un lungo balzo che ha cambiato in profondità le cose e che fin dall’inizio è stato preso di mira dalla destra, dal mondo conservatore in generale, che ha cercato di ridicolizzare questo balzo come «politically correct», agitando retoricamente le acque e tentando di confondere questa potente e liberatoria evoluzione con le sue marginali manifestazioni estremistiche. Operazione che continua oggi nel tentativo di seppellire tante conquiste di libertà e diritti nel rifiuto di formule che, nate per designare movimenti contro le ingiustizie razziali e sociali, come wokeness, vengono estese spregiativamente dagli avversari a qualunque protesta.

Un’ossessione che spinge pezzi della destra americana, senatori repubblicani e il redivivo Steve Bannon, a esaltare Putin come un bastione della resistenza anti-woke. Dietro la bagarre intorno a queste parole e alla loro presunta egemonia, in realtà la reazione conservatrice attacca il bersaglio grosso e cerca, per esempio, di riportare agli anni Cinquanta la legislazione sull’aborto. In quel celebre saggio Rorty vedeva già bene questo pericolo, perché nei decenni tra ‘60 e ‘90 l’economia produceva nuove ineguaglianze e molta insicurezza economica, mentre i progressisti americani, «come se non potessero occuparsi di più di una cosa alla volta», hanno finito per abbandonare le classi più svantaggiate e per favorire i cittadini istruiti e cosmopoliti, nonché – aggiungeva ironicamente – «autori di titoli strapagati e professori post-moderni» (quale era lui stesso). A un certo punto «qualcosa si spezzerà», diceva, e gli elettori meno benestanti si guarderanno intorno «alla ricerca di un uomo forte» e una volta che questo sarà al potere «nessuno può predire quello che accadrà».

Ed eccoci al dunque dei giorni nostri, quando come molti suggeriscono la politica riformistica liberale e inclusiva dovrebbe occuparsi meglio delle fasce sociali in difficoltà. Ma che fare delle battaglie in difesa delle minoranze, delle donne, dei diversi di ogni tipo? Attenuarla? Messi alle strette dai limiti di bilancio e dell’agenda politica, abbandonarle come priorità e passarle in seconda fila? Qui sta il cuore del problema per Serughetti, che non vuole rinunciare a un orizzonte normativo capace di tenere insieme l’agenda sociale e l’agenda culturale, se possibile come e meglio di quanto un largo fronte conservatore riesca a tenere insieme le politiche neoliberali con il tradizionalismo morale, Dio, patria e famiglia: la Bibbia ostentata da Trump quanto il rosario di Salvini. C’è un filo rosso che lega gli avversari delle politiche redistributive e il rifiuto del politically correct, il negazionismo scientifico e una visione individualistica e antiegualitaria della società, anche se non sempre questo filo è così forte e chiaro, come questo libro vorrebbe, in tante diverse situazioni. Non tutto il neoliberalismo è culturalmente conservatore e viceversa. La globalizzazione ha molti nemici a destra: vedansi i dazi di Trump o l’antieuropeismo e le nostalgie autarchiche della Lega.

Nei conflitti politici prevalenti nei paesi occidentali, nelle democrazie liberali che si rivelano talvolta fragili e talaltra illiberali, le acque si mescolano e un’opinione pubblica stordita dalla furia partigiana, dalla polarizzazione, nativi contro immigrati, «noi povera gente» contro i mitici club del potere finisce per costruire forme di solidarietà vittimistica di maggioranze – bianchi, cristiani, eterosessuali, maschi – che amano presentarsi come sotto assedio, a rischio di persecuzione, sostituzione, estinzione, Queste pagine mettono in evidenza come il tema del «gender», della fluidità sessuale e dintorni, sia scatenante per il «buon senso» populista, tanto da diventare il «collante simbolico» che raduna tutte le critiche all’ordine sociale ed economico e alimenta il risentimento conservatore, «il vile piombo del rancore». Una passione triste, cui è tempo di contrapporre altre passioni civili e solidali, alimentate da una visione lucida che restituisca alla realtà le sue reali proporzioni e contraddizioni.

Merito del libro è quello di smascherare e analizzare proprio questo revanchismo e vittimismo che trasfigurano le cose e proiettano una iperbole di rovesciamento catastrofico dei ruoli per reintrodurre nei fatti un «sessismo benevolo» (quando non malevolo e violento) che rimetta le cose, e le donne in primo luogo, «al loro posto».

Titolo: Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia

Autore: Giorgia Serughetti

Editore: Laterza

Pagine: 184

Prezzo: 18 €

Anno di pubblicazione: 2022



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