Muore Ebrahim Yazdi, figura emblematica della politica iraniana

La figura di Ebrahim Yazdi, scomparso il 27 agosto scorso all’età di 86 anni, illustra bene i paradossi della Repubblica islamica dell’Iran. Chi ha frequentato Tehran negli ultimi vent’anni lo ha conosciuto come un oppositore, il leader del piccolo (e mal tollerato) Movimento iraniano per la libertà: un “liberale islamico”, fautore di riforme democratiche. Un intellettuale dai modi pacati, capace di analisi acute, ma in qualche modo fuori dai giochi. Eppure Yazdi ha fatto parte della cerchia più ristretta dei dirigenti rivoluzionari iraniani, uno di quelli che erano con l’ayatollah Khomeini sull’aereo che lo riportava in Iran nel febbraio del 1979 – e uno di quelli che hanno lavorato con lui per costruire la Repubblica islamica, di cui è stato anche il primo ministro degli esteri.

Nato nel 1931 a Qazvin, nell’Iran nord-occidentale, Ebrahim Yazdi usciva da una famiglia benestante (padre commerciante). Si è formato negli anni del governo di Mohammad Mossadegh, il primo ministro che aveva portato una ventata di democrazia in Iran (finché ha nazionalizzato il petrolio, ed è stato deposto nel 1953, con un colpo di stato sostenuto dalla Cia). In quegli anni Yazdi studiava farmacologia all’Università di Tehran; nel ’59 è andato a specializzarsi negli Stati uniti, al Massachusetts Institute of Technology. La sua militanza politica contro il regime dello Shah è cominciata proprio negli Usa, negli anni ’60, dove lavorava come medico e aveva preso anche la cittadinanza. Nel ’61 ha aderito al Movimento per la libertà in Iran, fondato da Mehdi Bazargan; nel ’63 ha contribuito a fondare l’Associazione degli studenti islamici iraniani. Per anni ha lavorato a tessere una rete internazionale di contatti (cosa che allora includeva anche organizzare campi di addestramento alla guerriglia in Egitto e in Libano). Nel 1972 l’ayatollah Khomeini, ormai emerso come leader carismatico dell’opposizione allo Shah che ai tempi era in esilio a Najaf, in Iraq, lo ha nominato suo rappresentante negli Usa. Quando nel ’78 il regime di Saddam Hussein ha costretto Khomeini a lasciare l’Iraq, e il Kuweit gli ha negato l’ingresso, è stato Yazdi a trovargli ospitalità a Neauphle-le-Chateau, alle porte di Parigi.

Nell’esilio francese Ebrahim Yazdi ha spesso rivestito il ruolo di portavoce di Khomeini – insieme ad altri giovani rivoluzionari di educazione occidentale, come Abolhassan Bani Sadr e Ghobzadeh. Rappresentava il volto liberale, moderato e costituzionalista di una rivoluzione che teneva dentro un po’ tutti, dalle correnti islamiche più fondamentaliste ai “nazionalisti islamici” come appunto Yazdi, alla sinistra incluso il partito comunista, ai liberali; gli intellettuali, la borghesia illuminata, gli strati più popolari: tutti. Forse persone come Yazdi pensavano che, una volta fatta la rivoluzione, Khomeini si sarebbe ritirato in un ruolo di guida spirituale nel suo seminario teologico a Qom. Certo non è andata così.

Dopo la fuga dello Shah, in quei primi mesi del 1979, Ebrahim Yazdi è diventato ministro degli esteri del primo governo ad interim post-rivoluzione, in cui il capo del Movimento per la libertà Bazargan era il primo ministro e Bani Sadr il primo presidente della repubblica nella storia iraniana.

In quei mesi, mentre si preparavano le elezioni per l’assemblea costituente che ha disegnato l’architettura della Repubblica islamica, Yazdi ha contribuito a istituire il corpo delle Guardie della Rivoluzione, per mettere ordine nel proliferare di milizie rivoluzionarie e allo stesso tempo stabilire un controllo sull’esercito sospettato di nostalgie per la monarchia. Ha lavorato per far riconoscere internazionalmente il nuovo governo – nella primavera del ’79 aveva incontrato presso l’Onu, a New York, il segretario di stato Usa Cyrus Vance. Poco dopo, in settembre, ha rappresentato l’Iran al vertice dei Non Allineati, accolto fraternamente da Fidel Castro.

Insomma: Ebrahim Yazdi è stato uno degli artefici della Repubblica islamica e della sua costituzione – e l’ha sempre difesa. La sua permanenza al governo però è stata molto breve: perché una volta cacciato lo Shah le correnti più oltranziste hanno rapidamente preso il sopravvento («La lotta di potere tra diversi gruppi e correnti è cominciata all’indomani della rivoluzione, fa parte delle cose», mi aveva detto con grande tranquillità lo stesso Yazdi, l’ultima volta che l’ho incontrato nel 2009).

Per lui la caduta è avvenuta nel novembre del 1979, quando un gruppo di studenti rivoluzionari ha occupato l’ambasciata degli Stati uniti a Tehran prendendo in ostaggio 52 americani (la “crisi degli ostaggi” durerà 444 giorni, segnando l’inizio dell’isolamento internazionale della Repubblica islamica). Quando Khomeini ha espresso il suo sostegno all’occupazione dell’ambasciata, Bazargan e il suo governo si sono dimessi in protesta: Yazdi poi espresse la convinzione che far cadere il governo “moderato” fosse uno degli obiettivi dietro alla presa di ostaggi. In ogni caso, Yazdi non è mai più tornato nelle stanze del potere. Nel 1980 era stato eletto deputato, ma in seguito gli è stato vietato anche di candidarsi.

Del resto quello è stato tra i momenti più difficili per l’Iran, tempo di repressione interna e di guerra: nel settembre ’80 l’esercito iracheno aveva invaso l’Iran, e lo sforzo di difesa ha riunificato il paese – ma ha anche permesso alle correnti oltranziste di rafforzare la propria presa sul potere (è allora che Bani Sadr, destituito da un voto del parlamento, è stato costretto alla fuga). Nell’81, durante un’ondata di arresti tra i moderati, quando è stato giustiziato anche Ghobzadeh, Ebrahim Yazdi ha accusato il Partito della rivoluzione islamica di aver instaurato “metodi stalinisti e anti-islamici”. Nell’83, quando l’Iran è riuscito – dopo battaglie strenue – a respingere le forze irachene oltre il confine, il Movimento per la libertà si è pronunciato contro la prosecuzione della guerra (che invece è andata avanti fino al 1988): anche per questo è stato osteggiato e represso duramente dalle fazioni ormai al potere. Yazdi stesso è stato arrestato in diverse occasioni e gli è stato ritirato il passaporto. Nel 1990, da poco scomparso l’ayatollah Khomeini, è stato additato come “lacché degli Stati Uniti”. Nel ’95, alla morte di Mehdi Bazargan, ha assunto la presidenza del Movimento per la libertà – ridotto a una sigla, forse un movimento d’opinione, non proprio illegale ma solo tollerato.

Solo quando a Tehran è stato eletto il presidente riformista Mohammad Khatami, nel ’98, inaugurando un periodo di aperture politiche e sociali, la voce di Yazdi è tornata a farsi sentire. Ormai fuori dai giochi, ma guardato da molti giovani riformisti come una figura di riferimento nel dibattito che si apriva allora sull’islam, la democrazia, le trasformazioni sociali. E lui non si tirava indietro: l’abbiamo visto esporsi per protestare contro l’esclusione di illustri riformisti dalle candidature, o contro le ricorrenti ondate di arresti tra giornalisti e oppositori, o firmare appelli – che spesso lo riportavano a subire interrogatori e magari a visitare la galera. Nel maggio del 2003, agli sgoccioli della presidenza Khatami, quando l’esercito degli Stati uniti era installato in Iraq, il presidente George W. Bush aveva messo l’Iran nel suo “asse del male” e c’era chi a Washington sosteneva l’ipotesi di un “regime change” a Tehran, Yazdi diceva che l’unico modo per cambiare l’Iran era dall’interno: faceva appello a «consolidare il processo di riforme all’interno del sistema, come chiedono i riformisti». Rifiutava le minacce di intervento: «Sembra che gli Stati uniti puntino proprio a questo. Ma non è ciò che vogliamo noi: il cambiamento deve maturare all’interno. Molti qui hanno dubbi sulle reali intenzioni e obiettivi degli Stati uniti in Medio oriente. La democrazia non è una merce che si importa, né si impone con interventi militari» – disse nelle dichiarazioni che raccolsi per il manifesto, 1 maggio 2003.

Un liberale musulmano, un sostenitore della democrazia, che però non ha mai rinnegato la rivoluzione islamica che ha contribuito a fare. L’ultima volta che l’ho incontrato era nel giugno 2009, pochi giorni dopo le elezioni che hanno dato un secondo mandato (contestato) al presidente Mahmoud Ahmadi Nejad – mentre la tv iraniana annunciava sette morti al termine di una gigantesca manifestazione a sostegno dei candidati riformisti sconfitti. Quella contestazione era «la crisi politica più grave attraversata dalla Repubblica islamica nei suoi trent’anni di vita», diceva, e anche vista a posteriori non c’è dubbio. Parlava del «desiderio di cambiamento» degli iraniani dopo «anni di libertà soffocate, attivisti sociali arrestati, studenti perseguitati, censura sui giornali, sui libri, sul cinema». Ora sappiamo che il secondo mandato di Ahmadi Nejad, inaugurato dalla repressione di quelle contestazioni di piazza, è stato addirittura peggio.

Alla domanda se si aspettasse una protesta simile, aveva risposto di no, ma aveva cercato di darne una spiegazione: «Nessuno probabilmente si aspettava la reazione vista in questi giorni. Vede, le persone andate in strada sono per lo più giovani. In Iran il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni, è nata dopo la rivoluzione. Quali idee gli sono state trasmesse? Trent’anni fa milioni di donne hanno manifestato contro lo Shah, sfidando la cultura tradizionale che le voleva chiuse in casa. La politicizzazione delle donne ha cambiato la società iraniana, e quelle donne sono le madri dei giovani che protestano oggi. Loro hanno lottato per i diritti e la libertà, e ora dicono “non è per questo che abbiamo lottato”. Penso che queste proteste non si fermeranno presto».

Le proteste in effetti sono durate mesi. Un cambiamento «ormai è inevitabile», diceva Yazdi. Secondo lui però non era in questione la legittimità della Repubblica islamica, e la sua opinione era condivisa da molti riformisti e oppositori: «C’è spazio per cambiamenti all’interno del sistema, e tutta l’opposizione che ora contesta il voto è leale alla repubblica islamica. Anzi: la costituzione è stata violata, è questo che mina la legittimità delle istituzioni» (sul manifesto, 16 giugno 2009).

Ebrahim Yazdi è stato arrestato poco dopo, per una vecchia condanna per il reato di «tentare di convertire il governo del velayat-e faqih [“supremazia del giureconsulto”, il primato del clero sul potere politico] in un governo democratico». Paradossale. Nel 2011 è stato condannato di nuovo, a otto anni, per “attentato alla sicurezza nazionale”, l’accusa standard rivolta agli oppositori.

Già da tempo malato di cuore e di un tumore, Ebrahim Yazdi ha fatto in tempo a vedere una nuova stagione di apertura interna con la presidenza Rohani, che ha sostenuto. Scarcerato per motivi umanitari, è morto a Izmir, in Turchia, dove era in cura per un tumore. Dopo trentacinque anni di emarginazione politica, la stampa iraniana di ogni tendenza l’ha onorato delle prime pagine. Il quotidiano riformista Shargh ha titolato: “Morte del guerrigliero incline al dialogo”. Rohani lo ricorda, in un tweet, come “un pioniere della lotta [allo Shah] nei giorni oscuri della tirannia”.

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