Fondi solo per ayatollah e armi
scatenano la rabbia in Iran

Le proteste scoppiate in Iran negli ultimi giorni di dicembre hanno colto tutti di sorpresa: il regime, il governo del presidente Hassan Rohani, le forze di sicurezza che hanno reagito in ritardo, i commentatori interni e quelli stranieri, che si sono buttati a cercare analogie con l’ondata di proteste seguita alle elezioni presidenziali del 2009.

Le analogie evidenti sono le strade invase da folle per lo più molto giovani, i gesti di sfida dei manifestanti, e l’ampio uso di telefonini per far circolare immagini e brevi video. Ma le analogie si fermano qui, le differenze sono molte. Negli ultimi giorni in Iran è emersa una corrente sotterranea di rabbia che va oltre gli schieramenti politici noti. Cerchiamo di ricapitolare.

La prima manifestazione di protesta è scoppiata il 28 dicembre a Mashhad, nel nord-est del paese, contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari – le uova ad esempio, rincarate di quattro volte in poche settimane, e altri generi di prima necessità. Proteste simili non sono nuove in Iran, anche se di solito non ricevono grande attenzione mediatica. In particolare, negli ultimi mesi sono state segnalate numerose piccole proteste su scala locale, ad esempio per gli stipendi non pagati o contro licenziamenti improvvisi. Ci sono state proteste quando banche o istituzioni di credito semi-ufficiali sono fallite lasciando i risparmiatori con nulla in mano.

La manifestazione contro il carovita a Mashhad però ha un antefatto. In dicembre il governo ha presentato al parlamento la sua legge finanziaria, perché sia approvata come di consueto prima della fine dell’anno (il capodanno persiano cade il 21 marzo). Questa volta però il presidente Rohani ha illustrato la sua finanziaria lasciando trapelare anche elementi di solito riservati: per la prima volta ha rivelato i finanziamenti miliardari che vanno a fondazioni religiose, a istituzioni controllare dalle correnti più oltranziste dello stato, ai militari. Gli iraniani così hanno appreso non solo che il budget militare è aumentato di circa il 20 per cento (all’equivalente di 11 miliardi di dollari), ma che continua a crescere il budget destinato a istituzioni parallele dello stato, ad esempio per i rappresentanti della Guida suprema nelle università, o le più potenti fondazioni religiose (ad esempio i fondi per l’istituto di un ayatollah ultraconservatore, Mohammad Taghi Messbah-Yazdi, sono aumentati otto volte in dieci anni): tutte istituzioni che possiedono imprese e beni immobiliari ma sono ampiamente esentasse (i tentativi del governo Rohani di tassarle finora sono stati pressoché vani). Per contro, la finanziaria prevede di eliminare i sussidi in contanti che vanno a milioni di famiglie, di aumentare il prezzo del carburante, privatizzare parte delle scuole pubbliche. Già fa discutere una tassa sugli espatri, con cui lo stato cerca di raggranellare un po’ di entrate.

Le rivelazioni del presidente hanno suscitato un’ondata di commenti infuriati sui social media. Persone che fanno fatica a tirare a fine mese si sono sentite dire che l’élite si arricchisce con il denaro pubblico. L’establishment ultraconservatore si è visto additare come corrotto e parassita. Naturalmente le rivelazioni del presidente erano un gesto calcolato, per mettere sotto pressione proprio quella élite che ostacola i suoi tentativi di imporre qualche trasparenza nel sistema economico, banche gravate da sofferenze insostenibili, appalti, fisco, o far emergere il sommerso. Finché l’élite ultraconservatrice ha cercato di riprendere l’iniziativa.

Questo è successo appunto il 28 dicembre a Mashhad, seconda città del paese, sede di un santuario tra i più importanti dell’islam sciita (il mausoleo dell’Imam Reza) e di una congregazione religiosa particolarmente influente, la Astan Quds Razavi: capo di questa fondazione e “custode” del mausoleo è Ebrahim Raisi, già candidato presidenziale sconfitto da Rohani nel maggio scorso. Dicono che governi Mashhad come un suo feudo, la sua base di potere.

È nella roccaforte ultraconservatrice che è cominciata la protesta, a quanto pare dopo un appello circolato via Telegram, il social media più diffuso in Iran (conta circa 40 milioni di utenti, in un paese di 70 milioni di abitanti). Qui i manifestanti hanno urlato tra l’altro “morte a Rohani”. Una manovra per mettere in imbarazzo il presidente, mostrare come le sue politiche siano impopolari.

Se la protesta è stata innescata da una lotta di potere (ormai questa ricostruzione sembra accettata), poi però è sfuggita di mano anche a chi l’aveva voluta. Ormai sappiamo che in pochi giorni si è estesa. Via via che si è allargata, la protesta è diventata anche più “cattiva”. L’obiettivo degli slogan si è spostato: da “morte a Rohani” a “morte al dittatore”, cioè al Leader Supremo Ali Khamenei, prima autorità dello stato: ovvero morte al regime. Le immagini diffuse da anonimi testimoni hanno mostrato folle che strappano immagini di Khamenei, incendiano automobili, assaltano uffici pubblici, e in almeno un caso perfino sedi delle Guardie della rivoluzione: cosa impensabile in tempi normali. Va notato che la protesta ha coinvolto molte città, soprattutto nel centro e nord (la parte più popolata del paese), ma ha solo sfiorato Tehran: la rabbia che si è riversata nelle strade viene soprattutto dalla provincia.

Al terzo giorno sono cominciate a circolare notizie di morti. Finché le forze di sicurezza sono intervenute in modo più massiccio per riprendere il controllo della situazione, cosa che hanno fatto con polizia antisommossa e arresti (centinaia, a quanto pare). Il 2 gennaio l’ondata di protesta sembrava ormai spenta, il 3 gennaio molte città hanno visto grandi manifestazioni organizzate dal regime (la “risposta ai teppisti”, è stata ufficialmente definita). Quello stesso giorno il comandante delle Guardie della rivoluzione, generale Mohammad Ali Jafari ha dichiarato che “la sedizione è finita”, che “un gran numero di teppisti è stato arrestato” e che i nemici del paese “hanno fallito”. Il bilancio è di 21 morti tra cui alcuni agenti, secondo la televisione di stato. Gli arrestati saranno trattati “con fermezza”, ha detto il generale Jafari: e non c’è da dubitarne.

Il messaggio delle strade

Difficile dire quanti fossero i manifestanti. Osservatori certamente non allineati con il regime parlano di piccoli numeri; citano casi in cui si trattava in realtà solo poche centinaia (per esempio a Kashan, a sud di Tehran). Non era visibile una direzione comune, uno slogan unificante, né sono emerse figure di leader. Invece, è emersa una grande rabbia repressa. Richieste di libertà, certo: nei giorni dei disordini è circolata l’immagine di una ragazza che si toglie il hijjab e lo sventola in cima a una pertica, ed è una delle immagini più circolate in occidente. Ma soprattutto dimostrazioni di rabbia. C’era anche il video di un gruppo di donne infuriate che dicono “lavoriamo, e non ci pagano lo stipendio”. Sono state udite persone che dicono “lasciate stare la Siria, occupatevi di noi”. Certo è che non sono stati uditi gli slogan classici dei riformisti, nessuno ha chiesto la liberazione di Mir-Hossein Mousavi e di Mehdi Karroubi, i due candidati sconfitti nel 2009 diventati simbolo di quel movimento chiamato Onda verde. Secondo alcuni resoconti, i riformisti hanno mantenuto le distanze dalla strada, anche quando ne capivano le motivazioni.

Chi erano allora i manifestanti scesi nelle strade quest’ultima settimana? Dalle notizie circolate finora sembra di capire che sia la parte meno abbiente, più impoverita, la classe lavoratrice, gli abitanti delle piccole città di provincia e dei villaggi. E questo è un bel paradosso, perché si tratta degli strati sociali di solito sempre citati come la base di consenso del sistema politico della Repubblica Islamica.

Mentre la protesta non era ancora sopita, a Tehran è cominciata una “resa dei conti” tra gli schieramenti di potere. Già all’indomani della prima manifestazione a Mashhad il vicepresidente Eshaq Jehangiri aveva messo in guardia gli avversari: «Quelli che innescano movimenti di piazza possono non essere quelli che li controllano, perché poi l’onda viene cavalcata da altri e il loro gesto gli si ritorcerà contro», aveva detto (secondo l’agenzia semi ufficiale Isna). Pare che il “predicatore del venerdì” della città di Mashhad, l’ayatollah Ahmad Alam ol Hoda, notoriamente ultraconservatore, sia stato convocato dal Consiglio di sicurezza nazionale per spiegare il suo ruolo nelle dimostrazioni.

Due giorni dopo abbiamo sentito il presidente Rohani dichiarare (il 30 dicembre, terzo giorno di proteste) che “il popolo ha diritto a protestare”, per la situazione economica e “contro la corruzione e per la trasparenza”, anche se non si può tollerare violenze e atti di vandalismo.

Poi invece il leader supremo ha denunciato un “complotto” dei nemici della Rivoluzione islamica, accusando America, Israele, Arabia Saudita di aver tentato di destabilizzare il paese: è un’accusa standard, fa parte della propaganda ufficiale proprio come le manifestazioni filo-regime. All’interno però sono altri i nemici che ora vengono additati. Il comandante delle Guardie della Rivoluzione ha tirato in causa, pur senza nominarlo, anche l’ex presidente Mahmouod Ahmadi Nejad, tra coloro che avrebbero fomentato la rivolta (è noto che l’ex presidente ambisce a tornare in scena; alle ultime presidenziali il veto del leader supremo gli ha impedito di candidarsi ma è chiaro che cerca altre occasioni di sfruttare la sua grande popolarità).

Quale parte dello schieramento di potere trarrà più beneficio da questi fatti è presto per dire: Rohani forse avrà l’occasione per continuare il suo affondo contro l’élite conservatrice, anticipano commentatori autorevoli.

In ogni caso però sarebbe un errore ridurre i fatti della settimana passata a gioco di potere. La settimana di disordini dovrebbe dire ai dirigenti iraniani qualcosa sulla rabbia profonda che percorre il paese, e che non è rappresentata in fondo da nessuno schieramento politico oggi visibile. Il paese è cambiato anche rispetto al 2009. Le campagne si svuotano, anche per la siccità che attanaglia l’Iran da oltre un decennio. Le periferie urbane si riempiono di persone in cerca di lavoro. Il paese viene spesso descritto come altamente istruito, cosa vera: ma pochi trovano un lavoro adeguato al titolo di studio. La disoccupazione è stimata intorno al 12 per cento (dal Fondo Monetario internazionale), ma è opinione comune che sia più alta e che sfiori il 40 per cento tra i giovani. Molti trovano riparo nell’economia informale, che secondo stime del ministero del lavoro impiega circa 6 milioni di persone (su una forza lavoro di 23 milioni). Le ristrettezze aumentano; il governo di Rohani è riuscito a tenere sotto controllo l’inflazione (toccava il 40 per cento alla fine del mandato di Ahmadi Nejad, ora è stabilizzata intorno al 10 per cento), ma non a rilanciare l’economia nella misura che gli iraniani si aspettavano.  L’accordo sul nucleare aveva suscitato aspettative enormi: finite le sanzioni, tolti gli ostacoli all’export di petrolio, sarebbero tornati gli investimenti e l’economia sarebbe rifiorita. Le sanzioni sono in effetti finite, formalmente, ma le banche iraniane restano bandite dal sistema bancario degli Stati Uniti, e questo basta a rendere molto riluttanti anche le banche europee. Alcune grandi imprese sono tornate in Iran (le francesi Total e Renault), ma per il resto si sono affacciate solo piccole e medie imprese europee. La minaccia del presidente Donald Trump di stracciare l’accordo nucleare ha reso ancora più guardinghi i potenziali investitori.

Insomma, le aspettative non si sono realizzate, la frustrazione aumenta. Secondo un sociologo iraniano, citato in modo anonimo, quella che è scesa nelle strade questa volta è “la generazione che non ha candidati in gioco”, che non è rappresentata dagli schieramenti esistenti, non crede alle promesse. Una nuova scintilla potrebbe riportarla in strada.

Credit: Mohammad Ali Marizad / AFP

  1. Un’articolo unico nel panorama della disinformazione sui recenti fatti iraniani.
    Finalmente una descrizione ampia, informata, ed esaustiva. Complimenti a Marina Forti

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