Andrew Sullivan, l’uomo che si fece giornale

Andrew Sullivan, star della blogosfera ormai da anni, ha deciso di mettersi in proprio. Dopo essere stato ospitato per anni dal sito del magazine TIME, poi da quello di The Atlantic e infine dalla piattaforma di The Daily Beast, il suo seguitissimo blog The Dish sta per diventare a pagamento. Agli inizi di gennaio, sotto una foto della redazione in tenuta natalizia, è comparso un lungo post. Il titolo: “Dichiarazione di indipendenza”. Il contenuto, un avviso ai lettori: dal 1 febbraio l’accesso non sarà più gratuito. Si tratta di un abbonamento annuale fissato a un soffio dai 20 dollari, più o meno l’equivalente di un centesimo al giorno. Il motivo? “Abbiamo bisogno, in particolar modo, di essere pagati decentemente per quello che è un lavoro estremamente intensivo, 365 giorni all’anno”. Nel post, Sullivan snocciola i numeri di una produzione da 240 articoli alla settimana e circa 90mila email ricevute in un anno. “La gente mi chiede come facciamo… Semplice: ci facciamo il mazzo. E i miei colleghi ed io ci meritiamo di essere pagati per questo”.

Il modello è chiamato freemium, principalmente gratuito ma con contenuti dedicati solo a coloro che hanno sottoscritto l’abbonamento. Per il resto: soglia mensile di articoli a consultazione libera per non danneggiare i visitatori occasionali, homepage aperta a tutti – così come restano gratis alcuni articoli brevi, ma soprattutto l’ accesso a tutti i contenuti che vengono linkati da altri blog o siti. In cambio della sottoscrizione, Sullivan promette un sito agile e senza pubblicità, libero da legami con gli inserzionisti, ma anche dai vincoli dell’editore. Insomma, The Dish si vende senza mezzi termini ai suoi più cari visitatori che, più che sottoscrivere un abbonamento sembrano adottare Sullivan e il suo staff di cinque editor e due stagisti: “Siamo nelle vostre mani… Non abbiamo marketing, non abbiamo pubblicità, non abbiamo una corporation alle nostre spalle. Abbiamo solo voi”.

Al pari di quanto avviene con una testata, abbonarsi a The Dish sembra equivalere ad affiliarsi, a sostenere lo stile e il pensiero del blog, più che a comprarsi il diritto a leggere ciò che verrà pubblicato. Mario Tedeschini Lalli, vicedirettore del settore Innovazione e Sviluppo del Gruppo Editoriale L’Espresso e autore del blog Giornalismo d’altri, dice di non vedere nulla di particolarmente rivoluzionario nell’esperimento di The Dish, ma sottolinea una differenza lessicale di non poco conto: “Attenzione, Sullivan non li chiama subscribers (abbonati) ma members (membri). Il lettore che decide di pagare quei 20$ in realtà non sta comprando un contenuto, ma una quota sociale in un circolo che ruota attorno al blog”. È questo, per Tedeschini Lalli, l’aspetto più interessante dell’iniziativa di Sullivan. E tuttavia non è niente più che la traduzione in digitale di una forma di sussidio già collaudata nel mondo dell’informazione analogica: “Per una quarantina d’anni, l’Italia ha avuto organi di stampa finanziati sostanzialmente dalla loro community: basta pensare al Manifesto e a quegli accorgimenti che tuttora le testate tradizionali stanno sperimentando – come buoni sconto o inviti ad eventi per i lettori abbonati, per renderlo parte della comunità del giornale. A questo servirà l’esperimento di The Dish: per capire se anche attorno a un organo di informazione digitale è possibile creare una community e sfruttarla in maniera tale che finanzi il prodotto”.

A un solo giorno dall’avvio dell’iniziativa, quasi 12mila lettori si erano abbonati, pagando la somma base di 19,99 dollari o donando qualche dollaro in più (opzione possibile, ma che non comporta un aumento di benefici). Con un picco di 36 membri registrati in un solo minuto, all’indomani della dichiarazione d’indipendenza di The Dish, Sullivan raggiungeva un terzo dell’obiettivo annuale (fissato attorno ai 900mila dollari). “Temevamo che ci volesse ben di più per raggiungere un simile supporto”, ammette Sullivan che si vanta del successo dell’iniziativa: “Quasi 12mila (abbonati) in questo momento. È ancora solo l’ uno percento del nostro lettorato mensile”. Un uno percento che ha reso già circa 333mila dollari, stando a quanto dichiarato dallo stesso blog. Tanto per avere un termine di paragone: secondo Payscale, network che fornisce dati e statistiche sugli stipendi nei vari paesi, dice che negli Stati Uniti un giornalista prende, in media, qualcosa più di 32mila dollari all’anno. Considerato che la redazione di The Dish comprende un totale di sette persone, tra le quali due stagisti, appena l’un percento dei lettori abbonati garantirebbe comunque, a tutti e sette, uno stipendio sopra la media di quasi 10mila dollari. Certo, sono escluse le spese di mantenimento del sito – ma, si sa che il costo principale, nell’era digitale rimane la manodopera.

Ma come si costruisce una community così radicata? Filippo Sensi, vicedirettore di Europa e curatore del blog Nomfup, riconosce che offrire contenuti di qualità è fondamentale ma non sufficiente: “La community segue sempre i contenuti di qualità. Ma, se lo si inverte, il rapporto non è più così diretto”. L’ingrediente segreto nella ricetta di Sullivan sembra essere lui stesso, con il suo trascorso personale e professionale. “Con il passare degli anni, Andrew Sullivan si è creato un seguito e una reputazione che oggi, forse, pagherà”, continua Filippo Sensi che considera The Dish “un esperimento interessante e al quale tutti quelli che hanno a cuore il futuro dell’informazione devono guardare con attenzione. Lo è per lo shift da testata a brand personale, che potrebbe avere delle conseguenze importanti per le grandi testate. Ma lo è pure dal punto di vista economico: al di là di quello che ci diranno alla fine i numeri, è una scommessa il fatto che si possa essere sostenibili anche senza avere la credibilità e l’autorevolezza di una grande testata alla spalle. E poi è una sfida anche per altri blog che hanno una buona reputazione in rete”.

Dello stesso pensiero è Gianni Riotta, editorialista de La Stampa, con un passato alla direzione di Tg1 e Sole-24ore: “Il business model dei giornali come l’abbiamo conosciuto è finito: nessun giornale oggi dal NYT al Manifesto ha più una sostenibilità economica legata alla pubblicità, alle vendite, e alle copie. L’informazione sta cercando in questo momento nuovi contenuti e nuovi business model. Andrew Sullivan ne sta sperimentando – mi auguro per lui e per noi, con successo – uno. Lui è un personaggio bizzarro: cattolico, omosessuale, ex direttore di The New Republic – non senza scaramucce interne alla redazione… È un commentatore perfetto per il web dove, a volte, la nicchia governa più che il mainstream”. Tuttavia non saranno certo le grandi testate a soffrire per un’iniziativa simile: “Le difficoltà del business model dei giornali non sono legate all’andamento della crisi economica, né da Internet… Il loro problema deriva dal fatto che, essendo mutata la società, non è più efficace quel tipo di comunicazione di massa propria dei giornali”.

Insomma, la comunicazione molti a molti inaugurata da Internet ed esaltata dalla sua versione social, sovrappone testata e firma, più che capovolgerne i rapporti. La rivoluzione post industriale del giornalismo è anche questo: un giornalista che si fa – per dirla con Tedeschini Lalli – “contenitore di se stesso”. Ma si può immaginare un esperimento simile anche in Italia? Ernesto Belisario, ci offre la sua prospettiva di avvocato esperto di diritto delle nuove tecnologie: “L’ Italia ha delle leggi sulla stampa alquanto vetuste, ma ciò non toglie che si possa fare una cosa simile anche da noi. Tutto dipende dal modello che si sceglie di adottare. Dal punto di vista giuridico, le opzioni sono due: ci sono le testate registrate e ci sono soggetti che sperimentano nuove strade, come l’HuffPo che non è una testata registrata e assomiglia più a una community. In quest’ottica è possibile offrire servizi premium e funzioni extra agli utenti che si registrano al sito e accettano le Condizioni d’uso. Nei confronti dei blogger, queste piattaforme offrono spesso solo la visibilità: giuridicamente il rapporto tra blogger e piattaforma non è molto diverso da quello tra Facebook e utente”. Tuttavia, il problema è un altro e ce lo spiega ancora Mario Tedeschini Lalli: “Quante persone in tutto il mondo sono in grado di leggere in italiano? Se sfiori i 55 milioni in tutto il mondo è grasso che cola.”

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