Fenomenologia di Fabio Fazio

Con le polemiche provocate dalle battute di Luciana Littizzetto a Che tempo che fa e il probabile spostamento del Festival di Sanremo per la concomitanza con le elezioni, Fabio Fazio è di nuovo protagonista della scena televisiva e non solo del nostro paese.
Pubblichiamo un suo ritratto pubblicato sul numero 123 di Reset.

Se lo ricorda ancor oggi, Gianni Minà, il verso che gli faceva il giovane Fabio Fazio nel Loretta Goggi in quiz. Correva l’anno 1984 ed era marzo, 20.30 su Rai 1. «Mi imitava bene – dice –, solo che insisteva su questo mio difetto della “s”, che avevo cercato pure di correggere andando a scuola di dizione dalla mamma di Lucia Ranucci del Quartetto Cetra. Ho avuto molti imitatori, tra cui Fiorello, che più di tutti ha colto il mio spirito: la mia capacità di mettere insieme più persone e farle conoscere tra loro. O, come diceva Massimo Troisi, “i’ vuliss’ave’ la tua aggenda…”. Anche se Fazio era forse più preciso di Fiorello. Negli anni è maturato molto, pur tuttavia non ha la padronanza del giornalista consumato. È “maestro di cerimonie”…».

 

1982-2010.Sono ventotto anni che Fabiofazio, come si pronuncia tutto d’un soffio (un nome, un logo), calca le scene televisive e non. Dal 1982 – prima della maturità classica al liceo Chiabrera di Savona (poi una laurea in Lettere all’Università di Genova con tesi su “Elementi letterari nei testi dei cantautori italiani”che gli vale un 110) –, quando esordisce in radio come imitatore, appunto, nel programma Rai Black out. Classe 1964, nato il 30 novembre, di anni allora ne ha solo 17. Un ragazzo che precorre i tempi. A partire dai propri. A 16 anni aveva già lavorato a Radio Vecchia Savona, poi a Radio Golfo Ligure. Mette su dischi e fa qualche imitazione. All’epoca, a tutto pensa tranne che alla tv. Forse anela il giornalismo… ma non è detto.

Nel 1982 la Rai promuove un concorso alla ricerca di nuovi talenti. Berlusconi (già lui!) è entrato nell’etere e la concorrenza a viale Mazzini 14 si fa sentire. L’audizione è nella sede di Genova. Selezionatori sono Bruno Voglino, in seguito capostruttura di Raitre sotto la direzione di Angelo Guglielmi, e Guido Sacerdote, autore e produttore televisivo (Sacerdote-Falqui: due cognomi, un’unica Ditta). Anche qui, Fazio fa quel che sa fare: le imitazioni. Di Sandro Pertini, Paolo Rossi, Gilberto Govi. I concorrenti sono ottomila ma passano solo in dieci: con lui c’è Chiambretti e Iacchetti, Cecchi Paone, la Poggi, persino Faletti, oggi mister best seller. L’anno successivo, nel 1983, fa già l’ospite a Pronto Raffaella. Da lì è un’infilata di programmi: la Goggi, Sponsor City (1985), quindi programmi di target giovanile (L’orecchiocchio, 1985-1986) e Jeans (1986-1988). Dal 1987 al 1990 conduce su Odeon Tv un fortunatissimo Forza Italia, precursore di Quelli che il calcio… e anche del nome scelto da Silvio Berlusconi per il suo movimento politico nel 1984…. Nel suo curriculum c’è un dopofestival di Sanremo (1995) e due Festival tutti interi (1999-2000), preceduti dal successo di Anima mia (1997), programma cult, e da Quelli che il calcio… (1999, 2000 e oltre…).

 

«Maestro di cerimonie» dice Minà. Fino a Vieni via con me, nonostante i ripetuti trionfi, i successi e i picchi di audience dei suoi innumerevoli programmi, la popolarità in vertiginosa ascesa, Fabio Fazio ha goduto di stampa non tenera. I critici sono molti e restano per lo più tali. Nel memorabile affresco tratteggiato per il n. 1/2009 di Micro Mega diretto da Paolo Flores d’Arcais – un vero e proprio “manifesto dell’antifazismo” –, il giornalista Andrea Scansi lo definisce uno dei «santini del veltronismo» accanto a Benigni, Celentano, Jovanotti, etc. Cioè il conduttore che si fa «demiurgo del chiacchiericcio pensoso», «simulacro», «sacerdote culturale». I suoi intervistati non sono tali, bensì «ospiti» e il perché l’ha spiegato lui stesso: «Le domande scomode sono un mito, che bisogno c’è di essere cattivi?». Già. «Il codice di Fabiofazio è la non-intervista» scrive Scansi. Ma è proprio così? La critica più recente gli piove addosso quando a Che tempo che fa, lo scorso 27 ottobre, intervista Sergio Marchionne, a. d. Fiat, che si lancia in giudizi pesanti sull’Italia («Qualcuno ha aperto i cancelli dello zoo»). Il Riformista, organo di una sinistra moderata e per nulla incline all’estremismo, lo attacca frontalmente: «Ma a Fabio Fazio chi gliele ha scritte le domande?» titola, rilevando che «l’unico atto d’imperio» del conduttore è stato interrompere una delle risposte più intriganti di Marchionne» quando stava per aggiungere qualcosa a una risposta («Magari nomi e cognomi»). Critica a lui e agli autori. In questo senso può avere ragione Minà: «Non ha la padronanza del giornalista consumato». Le domande si fanno soprattutto a partire dalle risposte.

Ma Marchionne, che in tv appare solo nei filmati del telegiornale o in quelli di repertorio, da Fazio ha accettato di andare perché «non mi piace urlare, questo è uno dei pochi posti dove non si urla». Chiosa Scanzi: «Ogni ospite di Faziofabio dice così (…) e magari è anche uno dei pochi posti – a parte Vespa e Paragone – dove non si fanno domande». In una diversa occasione, Il Foglio di Giuliano Ferrara lo accusa invece di fare «melassa»

Su questi rilievi non è affatto d’accordo Francesco Piccolo, uno degli scrittori più disincantati, suggestivi e anche oggettivi della nova generazione, analista attento e poco conformista della realtà, sceneggiatore di Nanni Moretti e anche nel team degli autori di Vieni via con me, assieme a Saviano: «Da spettatore lo considero un intervistato molto empatico ed educato. Nel caso specifico, a mio avviso l’intervistatore non era lì per dare voce al sindacato. Non è controparte che deve attirare l’interlocutore in una trappola. Il suo scopo è quello di far venire fuori la verità, il carattere del personaggio, non deve essere mai comodo e mai scomodo. Tant’è vero che Marchionne in quell’occasione è stato netto e persino molto scandaloso…».

Del resto, la motivazione con cui il 22 marzo 2007 Fazio viene insignito del prestigioso premio “È giornalismo”, istituito da Biagi, Bocca e Montanelli è che si tratta proprio di «un riconoscimento all’educazione e alla professionalità. Un segnale per dire che è ora di abbassare i toni». Già, ma i tanti che protestano contro la tv volgare e delle risse da bar sono poi anche gli stessi che (spesso) inneggiano (proprio) alla televisione del “sangue&arena” e che tifano per lo scontro duro, meglio se pure fisico… Mentre il giornalismo è, nella pratica, al tempo stesso vittima e carnefice del “modello Watergate”, watchdog, sempre e ad ogni costo “cane da guardia”.

Fabio Fazio le televisioni le ha girate tutte. Almeno le principali del sistema tv. Rai, Mediaset, Telemontecarlo, il cui breve passaggio con “contratto in esclusiva” per tre anni il 12 maggio 2001 gli vale una liquidazione da capogiro per la rottura anticipata dello stesso, a causa della cessione della tv dalla proprietà di Cecchi Gori a Telecom: 28 miliardi di lire secondo quanto svela alle agenzie l’allora ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, che qualche giorno più tardi riferisce sull’argomento in un question time in Parlamento. Ma la cifra non fu mai confermata né smentita, solo favoleggiata. Di che stupirsi, del resto? Già nel 1984, ognuna delle tredici puntate di Sponsor City che Retequattro manda in onda ogni giovedì a partire dal 3 maggio – e che vede in Fazio “il capo della claque” – costa 250 milioni di lire. E anche quando passa a Odeon Tv, nel settembre dell’87, i progetti e le aspettative sono elevate: nata dall’accordo tra il Gruppo Parmalat e la Società Acquamarcia-Bastogi, la rete – che si presenta come “Terzo polo televisivo” – a fronte di un investimento previsto di 250 miliardi di lire in tre anni, si propone di consolidare sul primo periodo la quota d’ascolto della vecchia Euro Tv, per passare ad uno share dell’8 per cento entro il primo anno e toccare la magica quota del 10 entro il 1990. E lui, per questo obiettivo e per la parte che gli compete, lavora a testa bassa.

Certo è che Fazio di coraggio ne ha da vendere, perché il passaggio dalla Rai a Tmc dopo i successi di Quelli che il calcio, Anima mia, due volte Sanremo, significa anche passare dal 30 per cento al 2 per cento di share. «Ma ho deciso di rimettermi in gioco. Intendiamoci, il mio non è un atto eroico, perché sono molto ben pagato e sarebbe fascistello e anche snob dire che i soldi non sono importanti». Quando Fazio entra a Tmc nel maggio 2001, l’azienda ha previsto un investimento per la sola copertura di rete pari a 150 miliardi, puntando ad essere all’85 per cento di lì a pochi mesi, in autunno, e al 95 per cento entro la primavera dell’anno successivo. Lui commenta con stoccatina: «Quanto prendo? Il bello di andare in una tv non pubblica è che si può non dire le cifre, perché non sono pagate dalla collettività».

Così, nel 2008, grazie anche al nuovo accordo che intercorre con la Rai, riesce a spuntare una rinegoziazione del contratto per un compenso pari a 2 milioni di euro l’anno, cioè il 30 per cento in più sull’ultimo accordo triennale scaduto solo pochi mesi prima. Ma il caso vuole che chi lo ha in scuderia, cachet o meno, si ripaghi ampiamente con gli introiti pubblicitari dovuti agli elevati indici di ascolto, come s’è visto anche con Vieni via con me. Berlusconi, per fare Risatissima e Drive in, a metà anni Ottanta, arriva ad offrirgli 150 milioni l’anno quando lui, in Rai, prendeva 80 mila lire a puntata. Ma alla fine preferisce investire sui «valori di una famiglia»… Ed è ancora Rai.

 

Eppure uno come Angelo Guglielmi, il mitico direttore di Raitre dal 1987 al 1994 dal quale Fazio riconosce di aver imparato tutto della televisione, quando arrivò alla direzione della rete di lui non ne voleva proprio sapere. «Venni praticamente licenziato» dice Fazio. Oggi Guglielmi ricorda quell’episodio con la sua caratteristica risatina: «Quando arrivai a Raitre Fazio era impegnato in due programmi, Jeans per un pubblico di giovani, e poi in un programma di imitazioni. In effetti, allora la sua leggerezza non mi affascinò. Era una leggerezza canonica, fin troppo abusata e celebrata. Avevo forti perplessità su di lui, e non era comunque al centro del mio cuore» rievoca per Reset. Poi quando gli affidai Quelli che il calcio… dovetti ricredermi, perché scoprii che la sua era alla fine una leggerezza creativa». Come decise di affidargli il programma? «In origine volevamo affidarlo a Dario Fo, poi però la moglie Franca ci disse che aveva già preso per Dario un altro impegno per il mese di aprile. Devo dire che fummo fortunati, perché lui in appena una puntata era già entrato nel ruolo. Sul fatto di saper fare o meno televisione, direi piuttosto che abbiamo imparato insieme: avevamo un’idea-guida e abbiamo fatto lievitare insieme la rete stessa».

Leggerezza”, “lievità”. Sembrano queste le parole-chiave del successo di Fabio Fazio, assieme a “educazione” “gentilezza”, “cortesia”, forse persino “buonismo”, ma paradossalmente sono le stesse parole per cui i suoi critici vedono nero e lo mettono sott’accusa in quanto elementi caratteristici di “mancanza di coraggio” o di «banalità di sinistra che coincide con la banalità nazionale», «epigono della televisione abbastanza intelligente» (copyright Pietrangelo Buttafuco su Panorama).

Gianni Minà è convinto che, «siccome ha successo, pretendono da lui troppo: non si può avere tutto, l’importante è riuscire a fare queste trasmissioni. Non credo che Fazio sia da criticare più di tanto». «Fazio? È antitelevisivo, è il modello delle parole, è teatrale. Ed è il bisogno del momento: del resto, quando un programma fa più di 10 milioni di spettatori incollati allo schermo, come si fa a dire che non c’è una domanda?» si chiede il politologo Ilvo Diamanti. «Basta vedere le masse che affollano i Festival, della Mente, di Filosofia, di Economia…, ecco Fazio è come i Festival che si tengono d’estate. Lui è teatrale, e oggi è anche la stagione dei teatri, pubblici e di impegno civile, con Marco Paolini ma anche con Ascanio Celestini. Un tempo c’era Dario Fo. Gli affabulatori. La gente va per ascoltare, e lo fa anche con la tv perché c’è una domanda di “altra tv”. Esiste un mercato per una richiesta inespressa, inevasa. Molta gente che vuole ascoltare solo parole».

Secondo Ilvo Diamanti, Fabio Fazio «fa infotainment vero per un pubblico colto di centrosinistra». Concetto che approfondisce il professor Giampietro Mazzoleni, autore di Politicapop (Il Mulino): «Fazio è espressione di quella tv che contagia la politica e di cui il pubblico si accorge, lasciandosi a sua volta contagiare». Una televisione «innanzitutto piacevole da guardare», che sa parlare di cose serie e che le trasmette in forma piacevole, «mix che funziona: cultura, cifra popolare, una buona dose di politica e intrattenimento», infotainment appunto, meglio: «l’idolo italiano dell’infotainment». Per il sociologo della comunicazione, Fazio è un David Letterman nostrano, che «grazie a queste capacità è giunto dove altri non sono arrivati, coronato dal successo». Rinunciando al «sexy, a veline, gambe e seni in mostra», il presentatore di Raitre è riuscito a «intercettare un filone sotterraneo di grande successo», ottenendo un posto certo nella storia della tivù italiana, sapendo da una parte «strizzare l’occhiolino a una certa intellettualità italiana», dall’altra «dando spazio all’altra Italia televisiva (quella dell’Auditel)». Garbata comicità? Senz’altro, per Mazzoleni, l’umorismo e il «soft speaking» di Fazio lo distinguono e lo rendono inconfondibile, consentendogli di «entrare nelle case di tutti gli italiani in punta di piedi».

E in un paese in cui i giornalisti convertono il ruolo di watchdog, «cani da guardia dei propri padroni», Mazzoleni rileva come Fazio sia anche l’emblema di trasmissioni dalla copertina satirica che «rappresentano quell’unica zona franca in cui sia ancora possibile criticare il potere». Chiosa Diamanti: «La fenomenologia di Fabio Fazio è la tv della nostalgia, è il saper interpretare le stagioni culturali e dell’opinione pubblica. Oggi va la nostalgia delle parole, la predica come nella tradizione della politica e del teatro. È molto di più di un Festival di Sanremo, persino di uno di quelli condotti da lui». Così Vieni via con me è «il Festival dei festival di una società che si guarda indietro e invecchia. La nostalgia è il sentimento di una società ferma e senza futuro, che vive solo di memoria. Del resto, quanto c’è di più nostalgico di un Paolo Conte in versione anni Ottanta…?».

 

Ma c’è un Fazio inedito, anche se abbastanza prevedibile, e che per certi versi contrasta con il “santino buonista” e mellifluo, nell’esperienza di Francesco Piccolo: «La sua caratteristica principale? È un grandissimo lavoratore. Attentissimo e infaticabile. Per Vieni via con me siamo stati chiusi praticamente giorno e notte in studio per 40 giorni di fila. Lui è una personalità molto forte, un vero capo. Ogni martedì mattina, all’ora deputata dei risultati dell’Auditel, scandiva: “Ora il problema è la prossima puntata…”. Cioè bisogna far di meglio. E giù a testa bassa. Fabio è un autore al cento per cento. Ha molte idee e anche un’idea precisa della tv che vuol fare. In questo è molto simile a Nanni Moretti, che ha un’idea precisa e sicura del cinema. Ha una selezione rapidissima degli avvenimenti, delle notizia, quasi a sottolineare “questa è la mia sintassi, la mia grammatica”. È in redazione alle 9.30, i giornali letti a casa, si intrattiene con gli autori in lunghi brainstorming. Nei giorni di prove si arrivava anche fino a mezzanotte, tutti intorno a un tavolo, poi però sabato e domenica mattina interrompeva per Che tempo che fa, per poi ritornare a Vieni via con me. Questi sono programmi molto di scrittura, caratteristica quasi in disuso ormai…».

Ma qual è l’idea televisiva di Fabio Fazio? Più che il segreto, quale l’ingrediente del successo? È sempre Piccolo a parlare: «Direi un’idea semplice: di gusto e di appartenenza con un suo proprio mondo televisivo, che è poi rintracciabilissimo: il gusto della televisione civile. Lui è uno molto, ma molto meno “buonista”, per usare una categoria abusata e che non gli corrisponde; lui è insofferente, duro anche nei suoi giudizi politici. Posso dire di averlo conosciuto solo in occasione del programma, ma mi sembra il Fazio più vicino a quel che è anche nella realtà: forse meno elegante, ma di sicuro con l’ospite più esposto come persona. Meno padrone di casa, ma più il protagonista del programma. I suoi “elenchi”? Una caratteristica culturale».

«Fazio? Con Saviano è stato un bravissimo e sapiente nel preparare quel che nella sociologia della comunicazione si chiama il media event» osserva il professor Paolo Mancini, ordinario di Sociologia delle comunicazioni presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia. «Più che al programma in sé, è stato importante assisterne alla preparazione e partecipare alla discussione successiva, un fatto di curiosità pura e semplice, al di là della trasmissione. Questo mi sembra il dato centrale. E questo aspetto cambia sicuramente la prospettiva, così come lo è accaduto per le trasmissioni di Celentano. Da questo punto di vista sono molto simili. E poi, diciamo, anche nella creazione del media event una certa facilitazione l’ha avuta in partenza, i contratti non risolti, la questione del caché di Benigni…». A lei Fazio piace? «Lo trovo piatto. Di lui viene da dire “ma guarda quanto è carino”, “quanto è gentile”. È più antipersonaggio che personaggio in sé. Ma è anche lo stesso Fazio che ha denunciato Striscia la notizia quando Antonio Ricci decise di fargli consegnare un Tapiro da Valerio Staffelli….». Del come andò si trova traccia nell’articolo di Micro Mega citato: «Nel maggio del 2007, Luttazzi ha raccontato che Fazio gli aveva rivelato di non aver fatto il militare grazie a una raccomandazione di Craxi. (…) Conduceva Fazio, tra i comici c’era Luttazzi. Che a un certo punto fece una battuta sui militari. Fazio bloccò tutto e gli chiese di non ironizzare sul tema. “Perché l’ho raccontato?”, ha spiegato Luttazzi. “Perché il tema iniziale era la sua paraculaggine infinita”».

Fazio l’ha presa malissimo. Ancor più la storia del Tapiro: «Non vi autorizzo a mandare in onda». Per Antonio Ricci più che una minaccia è un’istigazione… Secondo Mancini «un gesto arrogante».

 

Nel paese della maldicenza, dove tutto viene usato per screditare, l’ultima sul conduttore è che «Silvio Berlusconi adora Fabio Fazio». E se è vero che tutto quel che Berlusconi tocca diventa oro, da un po’ di tempo è anche vero l’opposto: ciò che tocca può pur diventare merda… L’ha raccontata sempre Il Riformista il 19 novembre scorso, attribuendo queste parole al presidente del Consiglio: «Fazio mi aveva invitato spesso a Quelli che il calcio… e io non avevo mai potuto intervenire. Ci andava la mia segretaria Marinella ma, con lui, mi sentivo sempre in debito. E così, quando mi ha chiamato a cantare a L’ultimo valzer la canzone che vorrei portare nel Duemila, mi è sembrata un’ottima idea». Correva l’anno 1999, era di novembre, e la trasmissione era condotta in coppia con Baglioni. Si scatena il finimondo. Scoppiano le invidie. Simona Ventura lamenta che «se Berlusconi fosse venuto da me sarebbe successo un putiferio». Francesco Storace intima: «Berlusconi non vada da Fazio, è un trappolone». In ogni caso salta tutto, perché per le regole della par condicio elettorale dopo uno scambio di opinioni con il presidente dell’Authority delle Tlc, Enzo Cheli, Berlusconi da forfait.

Il vero rischio passato, presente, futuro di Fabio Fazio? La sua “baudizzazione”. All’apice del successo e indipendentemente dai giudizi della stampa è questo il vero gap del presentatore. Lo sa anche lui, e da tempo. Almeno da un decennio. Da quando ha lasciato la Rai per Tmc nel 2001: «Ho iniziato a 18 anni alla Rai. Ho fatto cose importanti, in 18 anni. Otto anni di Quelli che il calcio…,Anima mia, due volte Sanremo…. Cosa mi prospetta il futuro? Un processo di baudizzazione, fondamentale ma che non mi appartiene. Oppure ritagliarmi una sorta di spazio minore, ma è difficile, dopo aver avuto il 30 per cento di share, come pure mantenere una sorta di status symbol, per andare alla rincorsa di più telegatti possibile». Ma per lui, il pericolo di diventare prigionieri di se stessi «è insostenibile» dice. Già.

L’insostenibile leggerezza dell’essere Fabio Fazio.

  1. E’ sicuramente l’analisi più attenta e completa che io abbia letto su Fabiofazio; avete messo assieme tutte le sfaccettature possibili, alcune però non sembrano stare bene assieme: una sconfina nell’altra così bene che lo spettatore non riesce più a recuperare la propria impressione-esperienza diretta; ciononostante penso che la lettura del prof. Mancini sia la più “pertinente”..

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