LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Bartali e l’umiltà del bene

«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Il proverbiale modo di dire del toscanaccio/Ginettaccio è ora «smentito» da un riconoscimento israeliano. Bartali è da ieri «Giusto tra le nazioni» dello Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme, per l’impegno in favore degli ebrei durante l’occupazione nazista nel 1943-‘44. Bartali è il 564° italiano fra i 24.811 riconosciuti «Giusti» dal 1963 in avanti. Alcuni nomi sono diventati famosi grazie al cinema, ai libri o alla Tv: il commissario di Polizia Giovanni Palatucci, il commerciante Giorgio Perlasca, il medico Carlo Angela (padre di Piero), i gioiellieri Costantino e Laura Bulgari… Per non parlare dell’imprenditore Oskar Schindler la cui biografia ispirò vent’anni fa il capolavoro di Steven Spielberg, Schindler’s List (la lista dei milleduecento ebrei salvati). Altri sono militi ignoti della resistenza alla barbarie, come il pastore avventista Daniele Cupertino, originario di Gravina in Puglia.

«Giusto fra le nazioni» è, appunto, il non-ebreo che abbia agito eroicamente – mettendo a rischio se stesso – per sottrarre anche soltanto un ebreo alla Shoah, il genocidio hitleriano. Perché, come ricorda il Talmud, «chi salva una vita, salva l’universo intero». Quindi, come dire?, «l’era tutto giusto, tutto da rifare». Sebbene il fiorentino Bartali (1914-2000) non avesse mai sbandierato questa generosa attività di staffetta, durante una gloriosa carriera che neppure la Seconda guerra mondiale riuscì a bloccare. Professionista dal 1934 al 1954, egli vinse tra l’altro tre Giri d’Italia e due Tour de France, l’ultimo nel luglio 1948. Quello oltralpino fu il trionfo che, secondo una vulgata storica, stemperò gli animi all’indomani dell’attentato al leader comunista Palmiro Togliatti (c’è chi sostiene che Alcide De Gasperi in persona chiamò Bartali per spronarlo all’uopo). Ma evidentemente non rimarrà come la sua unica grande impresa extra-sportiva.

Gino Bartali e Fausto Coppi furono carissimi nemici, eppure l’immagine dei due che si passano una borraccia d’acqua mentre scalano una tappa del Tour del 1952 è nella leggenda. La fotografia vale da icona sempreverde di un’Italia pugnace e altruista, essa sì ormai sbiadita. Curzio Malaparte scrisse nel 1949 che nelle vene del «campionissimo» Coppi scorreva la benzina della modernità, mentre c’era il sangue in quelle di un Bartali più antico, più contadino, più tradizionalista, più cattolico (e democristiano) del grande rivale. Aveva ragione e torto, Malaparte. Perché il sanguigno Gino, ricorda la motivazione dello Yad Vashem, «fece parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della città, cardinale Elia Angelo Dalla Costa. Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione di ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Jugoslavia». Bartali agì come «corriere della rete», nascondendo falsi documenti e carte nella sua bicicletta e trasportandoli attraverso le città, con la scusa di allenarsi. Già il presidente Ciampi nel 2005 gli aveva conferito, postuma, la Medaglia d’oro al merito civile in virtù della «collaborazione con una struttura clandestina che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana, riuscendo a salvare circa ottocento cittadini ebrei».

Adesso il nome di Bartali si aggiungerà agli altri nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme, per onorare un campione anche nell’umiltà del bene. Il bene fatto senza vantarsene e persino celandolo. «Quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita», per dirla con Paolo Conte, avevano beffato le SS. È una lezione per i tanti narcisi che nell’Italia di oggi parlano troppo e non agiscono, al massimo macchinano. Di biciclette libere e veloci, solo il ricordo, una pallida ombra.

(articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 24 settembre 2013)

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