Tunisia, la metamorfosi di Ennahda
è la fine dell’Islam politico?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Addio Islam politico. D’ora in poi il partito tunisino di Ennahda sarà una democrazia musulmana. Almeno così lo ha ribattezzato il suo leader Rashid Ghannouchi, alla vigilia dell’ultimo congresso del partito tenutosi finalmente lo scorso maggio sulla spiaggia di Hammamet. Sette le misure votate, da quelle sul funzionamento del partito a quelle economiche. A marcare la storia di questo decimo Congresso è stata l’adozione di una mozione secondo la quale l’attività politica di Ennahda sarà separata da quella religiosa che è stata alla base della nascita di questo movimento, per decenni costretto alla clandestinità.

Questa mozione ha attirato l’attenzione di analisti a diverse latitudini. Mentre alcuni hanno parlato della fine dell’Islam politico in Tunisia, per i più pragmatici si tratterebbe piuttosto di una manovra retorica volta a facilitare le preoccupazioni occidentali mentre Ennahda persegue il suo obiettivo di lungo periodo di creare uno stato islamico. Una lettura più attenta delle dichiarazioni di Ghannouchi svela in realtà un quadro più complesso. Anche se la distinzione tra funzioni religiose e politiche è una mossa significativa, scrivere necrologi per l’Islam politico tunisino sembra quindi prematuro.

In un’intervista rilasciata alla vigilia del Congresso al quotidiano francese Le Monde, Ghannouchi ha affermato che Ennahda “sta lasciando l’Islam politico per entrare nella democrazia musulmana. Ennahda è un partito civile democratico i cui punti di riferimento sono i valori di civiltà moderne musulmane”. Davanti ai delegati riuniti a Hammamet, Ghannouchi ha descritto Ennahda come “partito democratico nazionale dedito alla riforma che sulla base di un riferimento nazionale attinge ai valori dell’Islam.” Dietro questo cambiamento di terminologia si cela in primis una questione di marchio. Come ricordato da Ghannouchi nell’intervista a Le Monde, gruppi violenti e terroristici come Al-Qaeda e l’autoproclamatosi “stato islamico” hanno più volte invocato l’islam politico per giustificare azioni negative. Definendo i membri del suo partito, musulmani democratici, Ghannouchi vuole quindi distinguersi da queste altre identità estremiste che da tempo rischiano di fare deragliare il percorso democratico della Tunisia del post-Ben Alì. Dallo scoppio della rivoluzione del 2011, quasi seimila tunisini hanno infatti lasciato il Paese per unirsi a gruppi jihadisti in Iraq, Libia e Siria. Durante il suo governo 2011-2013, Ennahda incassò critiche da più fronti da quanti l’accusarono di affrontare l’estremismo domestico con lassismo. Il rebranding in corso mira quindi a convincere in primis l’elettorato nazionale che Ennahda ha adottato una posizione ferma contro l’estremismo.

Fuori dai confini di casa, Ghannouchi vuole inviare un messaggio chiaro anche ai suoi partner occidentali: tra Ennahda e i responsabili degli attacchi terroristici di Bruxelles o Parigi non solo non c’è alcuna relazione, ma non scorre neanche buon sangue.

La decisione di sconfessare il termine “Islam politico” riflette anche un argomento concettuale che rimanda alla nascita e alla ragion d’essere di Ennahda. Secondo la ricostruzione di Ghannouchi, l’Islam politico emerse in risposta a due tendenze regionali che si sono per anni nutrite a vicenda: dittatura e laicità. Dopo che la rivoluzione tunisina ha eliminato la prima e ha liberato Ennahda dalla clandestinità, l’Islam politico non avrebbe più ragione di esistere all’interno del Paese. Quello che serve ora è un partito democratico dedito alla riforma, qualcosa di simile a una organizzazione per i diritti civili. In quest’ottica andrebbe interpretata anche la sharia, legge islamica, il cui obiettivo non è secondo Ghannouchi la creazione di uno “stato islamico”, ma il raggiungimento della giustizia sociale.

Questo processo necessita in primis di una riforma del partito che, dopo la sconfitta elettorale del 2014, ha trascorso gli ultimi due anni a riflettere sul suo futuro. Il Congresso tenutosi e a maggio è arrivato dopo anni di convulse discussioni interne che si sono concentrate soprattutto su parole come  politica e proselitismo.  Alla fine, anche se i delegati al Congresso si sono opposti alla fasl (separazione), hanno approvato il termine takhassus (specializzazione), secondo il quale all’interno del Movimento, chi è specialista di politica, si occupa di questa e non di religione. E viceversa. Nei fatti, i leader Ennahda non potranno più predicare nelle moschee o rivestire posizioni di leadership in associazioni religiose. Come ha spiegato Ghannouchi, “l’arena politica non è dentro le moschee”.

Anche gli argomenti al centro dell’agenda politica non saranno religiosi, ma riguarderanno le questioni che più stanno a cuore ai cittadini: corruzione, disoccupazione, economia, ecc. Con le elezioni locali del 2017 alle porte e le politiche nel 2019, Ghannouchi sa che deve ampliare la sua base e per farlo deve dare risposta ai problemi quotidiani della gente.

Anche se è ancora presto per capire come, materialmente, Ennahda risponderà alla nuova impostazione indicata da Ghannouchi, quello che è certo è che si è ormai aperto un dibattito che avrà ampi riverberi. Anche se molti analisti tendono a tracciare analogie tra Ennahda e l’Akp turco di inizio secolo, il vero modello a cui guarda Ghannouchi sembra piuttosto quello marocchino, dove un partito islamista legifera in parlamento, ma lascia le attività prettamente religiose alla sua organizzazione sorella attiva nella società civile. Solo il tempo indicherà quale sarà il sentiero tunisino, ma sin da ora si può scommettere che il dibattito interno ad Ennahda toccherà anche altre questioni calde, in primis la relazione tra religione e vita pubblica. Fino ad ora Ghannouchi ha criticato quanti hanno cercato di escludere la religione dalla vita pubblica, ma il dibattito che è in evoluzione, influenzerà non solo il futuro democratico tunisino, ma anche quello degli altri movimenti dell’Islam politico sparsi nella regione.

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