Patriottismo, se nella Russia di Putin
nasce un nuovo paradigma culturale

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Come si evince dalla lettura della stampa russa, il patriottismo è diventato una chiave di lettura fondamentale per comprendere la politica estera della Federazione Russa. È interessante prendere in considerazione le diverse analisi che sono state fatte del fenomeno, da quelle più conservatrici a quelle più critiche verso il regime. In cosa consiste il patriottismo russo? Secondo Andrej Il’nitskij – politologo e membro del partito di Putin “Russia Unita” – in Russia sta nascendo un “patriottismo democratico”. Si tratta di un’ideologia peculiare che partendo dalla negazione di ciò che il paese non è – né un governo ‘fascista’ come quello di Kiev, né un ‘liberalismo plutocratico’ sul modello occidentale – tutela i valori tradizionali dello Stato. Il patriottismo russo è “democratico” – in quanto sostenuto dalla maggioranza del paese, ma anche “creativo” – perché svincolato dagli impedimenti tipici dell’ideologia liberale. I suoi pilastri sono rappresentati dal sistema educativo, dall’esercito, dai media e dall’intellighenzia russa.

Il “patriottismo democratico” è un modello profondamente diverso da quello europeo. Sergej Karaganov – membro del Consiglio di politica estera e di difesa e Preside della Scuola di “Economia globale e affari internazionali” della National Research University – Higher School of Economics di Mosca – sottolinea che mentre in Europa si sta assistendo al progressivo superamento dello Stato-Nazione, in Russia i cittadini hanno preferito virare verso un sistema semi-autoritario di “democrazia controllata”, in cui la difesa patriottica dell’unicità russa costituisce la ricetta principale per sopravvivere alle influenze esterne. Oleg Orlov, attivista per i diritti umani del Centro “Memorial” afferma invece che il patriottismo contemporaneo si inserisce perfettamente nella tradizionale oscillazione russa tra soggiorni brevi in direzione della libertà e periodi di schiavitù e di potere arbitrario molto più lunghi. In quest’ottica, l’ideologia patriottica è funzionale a ribadire che il paese appartiene ancora alla cerchia delle “grandi potenze”. Purtroppo però il prezzo da pagare diventa sempre più alto in termini di riduzione della democrazia e di rispetto dei diritti umani.

Su Eco di Mosca Vladimir Ryzhkov – membro del partito PRP-Parnass, lo stesso del defunto Boris Nemtsov – offre un’interpretazione dualistica del patriottismo russo. In Russia esistono infatti due modelli contrapposti: quello autoritario e quello liberale. Il primo sostiene sul piano interno la politica del governo, mobilitandosi intorno al capo di stato – come dimostrano i recenti sondaggi – attraverso una vera e propria forma di sacralizzazione del potere e una feroce opposizione a ogni tipo di critica del regime. Sul piano esterno difende invece l’idea della “grande Russia” e fa costantemente appello al passato imperiale e di “superpotenza” del paese. Il patriottismo liberale auspica al contrario uno sviluppo equo e sostenibile della Russia, una politica estera di pace, basata sul mantenimento di buone relazioni con tutti i partner, lo Stato di diritto, il taglio alle spese militari e l’aumento degli investimenti nella sanità, nella ricerca, il decentramento politico e la tolleranza culturale.

Patriottismo e politica estera: il fronte europeo

Nell’ultimo anno il patriottismo ha giocato un ruolo fondamentale nella definizione delle strategie di politica estera della Federazione Russa. L’inasprimento delle relazioni con l’Occidente ha infatti alimentato l’immagine della “fortezza assediata” e il Cremlino ha cercato di compattare l’opinione pubblica anche attraverso la creazione dei cosiddetti “calunniatori della Russia”. Questi nemici tanto esterni (USA-UE) quanto interni (opposizione liberale, Organizzazioni non governative) devono essere combattuti poiché mettono in pericolo la sopravvivenza dello Stato e dei suoi valori tradizionali.

Seguendo i media russi è possibile analizzare gli eventi degli ultimi mesi osservando tre differenti scenari: europeo, asiatico e mediorientale.

La politica estera europea della Russia ha ruotato in queste ultime settimane intorno a due temi principali: la situazione in Ucraina e la decisione di recedere dal Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa. Nel mese di marzo è andato in onda il documentario “Crimea: way back home”realizzato sotto stretta supervisione di Putin per celebrare l’anniversario del “ritorno a casa” della Crimea. Esso può essere considerato come il vero e proprio “manifesto” della politica estera del Cremlino. Putin ha affrontato infatti una serie di tematiche importanti, dalle ragioni dell’intervento della Russia in Ucraina, ai rapporti con l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Il presidente ha sottolineato più volte come l’intervento russo sia stato espressamente voluto dalla popolazione russofona della penisola e che la Russia non ha fatto altro che rispettare il principio di autodeterminazione dei popoli. Il documentario ha suscitato reazioni disparate. Aleksander Prokhanov – famoso scrittore e capo-redattore del giornale conservatore di estrema destra “Zavtra” – ha sostenuto le scelte di Putin, dichiarando che la Russia aveva l’obbligo morale di intervenire. La Crimea è paragonata a un “sole eterno” che brilla come una stella miracolosa sul cielo della Russia, ispirando le elite nazionali alla lotta per la realizzazione del “miracolo russo”. Putin ha avuto il merito di evitare che la “nube tossica” delle manifestazioni di Euro Maidan potesse diffondersi nel paese e ha protetto la baia di Simferopoli dall’occupazione della flotta statunitense. Sulle pagine di Aktual’njie Kommentarii Rostislav Ishchenko – Presidente del Center for Systematic Analysis and Forecasting di Kiev – ha sostenuto la tesi che la guerra in Ucraina sia il frutto del confronto geopolitico tra gli Stati Uniti e la Federazione Russa. Putin è riuscito a ricostruire lo status di grande potenza della Russia, opponendosi all’egemonia statunitense. La Russia è riuscita a aumentare il numero di alleati a livello mondiale, rinsaldando i rapporti con il gruppo dei BRICS (pochi giorni fa Putin ha ratificato il trattato che istituisce un fondo da 100 miliardi di dollari a disposizione degli Stati aderenti), ma anche rafforzando i legami con i partner in America Latina, Asia e Africa del Nord. Secondo l’autore, Putin non è tuttavia un militarista. Egli desidera la pace, perché conscio che nel lungo termine essa condurrà al collasso non solo del regime di Kiev, ma anche del sistema militare finanziario internazionale dominato dagli Stati Uniti.

Sono state pubblicate anche analisi più critiche della politica estera del Cremlino. Elena Chernenko – editorialista della sezione internazionale del giornale russo “Kommersant”- ha ripercorso l’evoluzione della politica estera russa degli ultimi anni, sottolineando come il paese abbia tradito alcuni dei principi presenti nel Foreign Concept del 2013. L’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass hanno smentito la tradizionale opposizione del Cremlino verso il principio della “responsibility to protect”, così come del principio di “non ingerenza negli affari interni” di uno Stato sovrano. La domanda ora è se sia necessario rivedere strutturalmente le strategie di sicurezza nazionali. Andreij Lipski vice capo-redattore del celebre giornale di opposizione Novaja Gazeta – ha poi giudicato l’annessione della Crimea un errore strategico clamoroso da parte del Cremlino. A un anno di distanza la sicurezza nazionale è diminuita, mentre le sanzioni hanno messo a nudo le debolezze strutturali del sistema economico – sociale russo. Anche Aleksander Podrabinek – ex-dissidente e attivista di diritti umani nonché capo redattore della rivista “Prima”- ha criticato dalle pagine di Ezhednevnij Zhurnal l’annessione della Crimea attraverso un parallelismo storico con la politica di potenza dei secoli scorsi. La differenza è che ora ci si è resi conto che l’annessione di nuovi territori non è direttamente proporzionale alla crescita del benessere interno. Vasilij Zharkov – Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Alta Scuola di Scienze Economiche e Sociali di Mosca da molti annoverata tra le istituzioni più critiche verso il governo nazionale – ha infine messo a confronto la politica estera sovietica e russa, dicendo che il Cremlino oggi ha davvero poco da offrire sulla scena internazionale. La Russia è diventata una potenza revisionista, pronta a minacciare i suoi vicini con l’uso della forza e riluttante a rispettare le regole dell’ordine mondiale. Il paese gode di pochi amici (Bielorussia, Kazakhztan e Corea del Nord) mentre i cittadini si stanno rassegnando a vivere in una società dominata dall’ingiustizia e dalla disuguaglianza.

Più equilibrata l’analisi di Fedor Lukjanov – Presidente del Presidium del Consiglio di politica estera e di difesa e capo redattore del magazine Russia in Global Affairs. L’esperto di politica estera ha commentato il classico incontro con la stampa di Putin (una specie di “State of the Union”), notando come si possa osservare un cambio di rotta da parte del Presidente, il quale sta cercando di passare da una fase di duro confronto ad una di “convivenza pacifica” con l’Occidente. Questo non significa un riavvicinamento delle posizioni, quanto piuttosto un riconoscimento del fatto che né l’Occidente, né il Cremlino possono avere completamente la meglio sull’altro. Entrambi gli schieramenti devono perciò collaborare il più possibile per minimizzare i rischi di escalation e intensificare il dialogo, partendo da specifiche tematiche come ad esempio la questione iraniana. Analogamente Michajl Rostovskij – commentatore del quotidiano “Moskovskij Komsomolets” (MK) famoso per il modo provocatorio con cui affronta le diverse tematiche della vita politico-sociale della Russia – si è augurato che gli accordi di Ginevra sul nucleare iraniano conducano a un maggiore pragmatismo in politica estera e ad un riavvicinamento almeno su alcune questioni chiave di sicurezza internazionale. Un po’ disillusa invece l’analisi di Pavel Koshkin – vice direttore del magazine di stampo filo-governativo Russia beyond the Headlines. Utilizzando l’immagine del famoso incontro sul fiume Elba tra soldati sovietici e statunitensi l’autore si è chiesto quando USA e Russia torneranno a “stringersi la mano”.

La decisione del Cremlino di recedere dal Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa (CFE) è stata oggetto di critica da parte di Aleksander Mineev – corrispondente da Bruxelles di Novaja Gazeta. L’autore ha sottolineato che la partecipazione di Mosca al Trattato era ormai qualcosa di puramente simbolico. L’accordo impediva infatti al paese di usare la forza militare per affermare il suo dominio territoriale in Europa dell’Est. Recedere dal Trattato non fa che confermare il nuovo clima di “guerra fredda” con l’Occidente. Reazioni dure sono state infine provocate dalla proposta del presidente della commissione europea Jean Claude Juncker di creare un esercito europeo. Pavel Svjatenkov – politologo ed editorialista di diverse riviste di stampo conservatore – ha affermato su Izvestija che dietro questa iniziativa si nasconde la mano della NATO e degli Stati Uniti. Un esercito europeo rappresenterebbe una minaccia seria per la sicurezza pan-europea e potrebbe creare una situazione simile agli anni Trenta del secolo scorso, con una nuova potenzialmente sanguinosarivalità tra Russia e Germania, a vantaggio (di nuovo) del mondo anglosassone.

Virata a Est?

In molti si sono chiesti se il deteriorarsi della relazioni con l’Occidente possa spingere la Federazione Russa a orientarsi sempre più verso Est. Secondo Dmitri Trenin – storico e direttore del think tank Carnegie Moscow Centre – Putin sta cercando di rafforzare sempre più i legami con Pechino. Questo non significa che nel breve periodo si assisterà alla nascita di un nuovo blocco sino-russo. Tuttavia, appare sempre più evidente che l’epoca dell’integrazione della Russia post-sovietica con l’Occidente sia terminata. Ancora più esplicito il parere di Timofej Bordacev su Izvestija. Il Direttore della Facoltà di “Economia globale e affari internazionali” della National Research University Higher School of Economics di Mosca ed esperto del gruppo “Valdai” – un gruppo di 800 tra accademici ed esperti internazionali che si occupa di promuovere il ruolo della Russia nel mondo attraverso il dialogo con la comunità intellettuale internazionale – ha asserito entusiasticamente che il 2015 sarà l’anno dell’ “Eurasia”. L’entrata in vigore dell’Unione Euroasiatica il 1 Gennaio 2015 rappresenta il principale punto di partenza per la nascita di un nuovo polo basato su Cina e Russia. L’Eurasia gode infatti di una posizione geopolitica e geo-economica unica, dispone di vaste risorse naturali ed è attraversata da vie di trasporto sicure in grado di collegare l’Europa orientale al Sud-est asiatico. In questo contesto, l’Unione Euroasiatica e la nuova “cintura economica della via della seta”costituiscono due entità complementari. La prima fornisce infatti il quadro normativo per la creazione delle nuove infrastrutture di trasporto e logistica comuni, mentre la “cintura” può fare da impulso al commercio e agli investimenti diretti esteri. Cina e Russia devono quindi guidare l’opposizione verso l’egemonia politica, economica e militare statunitense ed è per questo che la nuova Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), è assolutamente complementare a quella dei BRICS. La virata a Est del paese rientra comunque nel tentativo di dare una nuova identità alla Russia post-Sovietica. Come ha spiegato Fedor Lukjanov, la Russia sta ancora cercando di definire i suoi confini, non tanto in senso politico e geografico, quanto piuttosto mentale. L’idea di “civiltà russa” o di “identità euroasiatica” e la stessa reazione agli eventi in Ucraina sono tasselli dello stesso percorso identitario. Un processo difficile, proprio perché il collasso dell’URSS ha portato alla perdita di territori che per decenni sono stati parte integrante del Lebensraum russo.

Lo scacchiere mediorientale e le questioni migratorie

Un certo spazio è stato dedicato anche agli eventi in Medio Oriente, in particolare alla crisi nello Yemen e alla tragedia dei migranti morti nel Mar Mediterraneo. Molti giornali e media conservatori hanno attaccato l’intervento saudita nel paese e allo stesso tempo hanno accusato la comunità internazionale di tacere di fronte a questa palese violazione della sovranità territoriale yemenita. Alexander Mercouris – avvocato specializzato in questioni russe e diritti umani – su Sputnik International (testata online in inglese interamente controllata dal governo e pertanto definita da più parti uno strumento di propaganda all’estero del regime di Putin) ha attaccato in particolare l’amministrazione Usa, rea di attuare una politica di “due pesi e due misure” verso la Federazione Russa e gli alleati dell’Arabia Saudita. Mentre da un lato è stata data carta bianca all’offensiva di Riadnello Yemen – così come nel caso del colpo di stato in Ucraina – aspre critiche sono state rivolte alla Russia per il “salvataggio” della Crimea e per l’intervento nel Donbass.

Relativamente al problema dei flussi migratori dal Nord Africa, Finian Cunningham – giornalista di diverse testate tra cui The Mirror, Irish Times e Independent – su Sputnik ha usato parole molto dure contro l’Europa, incapace di trovare una soluzione efficace a questo problema, in quanto causa dello stesso. I massicci flussi migratori non sono che il prodotto della politica neo-imperialista dell’Occidente che ha portato alla distruzione dell’Iraq, dell’Afghanistan, alla crisi in Siria e Libia e adesso alla guerra nello Yemen. Pertanto, anziché spendere miliardi di euro per aumentare il budget della NATO e occupare l’Africa per contrastare gli interessi cinesi nel continente, l’Europa dovrebbe incrementare gli aiuti umanitari verso questi paesi, magari cancellandone i debiti di modo da consentire a questi Stati di usare le poche risorse disponibili per puntare su uno sviluppo economico e sociale maggiormente sostenibile.

I 15 anni di Putin

Analizzare la politica estera offre degli spunti interessanti per comprendere il dibattito politico interno al paese. La Russia sembra infatti essere divisa in due macro categorie: i “patrioti” e i membri della cosiddetta “quinta colonna”, a cui avevamo fatto riferimento nella precedente analisi. I primi hanno salutato con entusiasmo il quindicesimo anniversario della salita al potere di Putin. L’evento è stato celebrato con un film intitolato “Il Presidente”. In molti hanno analizzato l’evoluzione del leader del Cremlino. Per esempio Michajl Zubov – corrispondente di MK – ha intervistato una serie di analisti con lo scopo di descrivere il modo in cui il leader russo sia cambiato nel corso di questi 15 anni. Ne è emersa un’immagine molto particolare, di un uomo che è riuscito con abili compromessi a rafforzare lo Stato, passando da un atteggiamento accondiscendente verso uno sempre più assertivo nei confronti dei partner occidentali- Questo è sfociato nell’intervento in Ucraina. In questo processo tre sono gli eventi che hanno favorito la svolta: il primo è statala rivoluzione in Libia e l’uccisione di Gheddafi, il secondo è coinciso con le proteste di massa nel 2011 e nel 2012; il terzo èla guerra in Ucraina. Il nuovo Putin non ha più paura dell’Occidente, di cui non si ha più bisogno e che si può minacciare e combattere in ogni momento.

Non sono ovviamente mancate voci critiche. Evgenij Gontmacher – economista e Vice direttore dell’Istituto di “Economia globale e affari internazionali” dell’Accademia Russa delle Scienze – su MK ha accusato Putin di aver “ucciso la perestrojka” di Gorbacev. La Russia di oggi manca di una visione del futuro mentre il cambiamento è opposto dallo stesso tipo di persone che negli anni Settanta e Ottanta hanno portato alla stagnazione dell’URSS, ponendo le basi per il suo collasso. Aleksej Maleshenko – esperto del Carnegie Moscow Centre – ha sottolineato che l’eccessivo sostegno popolare del Presidente – costantemente pompato dagli slogan patriottici – rischia di far cadere Putin nella trappola del “culto della personalità”, che ha contraddistinto il periodo di Breznev e Khruscev. Aleksander Baunov – ricercatore associato del Carnegie Moscow Centre e capo-redattore di Carnegie.ru – ha rimarcato che questo può avere delle conseguenze drammatiche per Mosca, soprattutto se il “Cesare” russo dovesse improvvisamente abbandonare la guida del Cremlino. Putin ha ormai creato un sistema autoritario e che è sempre più dipendente dalle sue decisioni personali.

Kirill Martynov – editorialista di Novaja Gazeta e Professore Associato della National Research University Higher School of Economics – ha invece analizzato il quindicennio di Putin al Cremlino, attraverso un paragone storico con Stalin. L’autore ha scritto che la Russia del XXI secolo non è che il frutto dello stalinismo. Non è un caso che gli ultimi sondaggi del Levada Centre mostrano un atteggiamento positivo della popolazione verso il periodo staliniano. La riabilitazione di Stalin si poggia su due pilastri: un sistema educativo che non consente letture critiche del passato perché bisogna parlare solo di gloria e vittorie; libri di testo parziali che tacciono sul periodo delle purghe e identificano Stalin con un periodo di grande avanguardia per il paese. Chiunque critichi questo sistema è considerato un traditore della Nazione.

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  1. confortante conoscere il paradigma del patriottismo russo (di cui si parla poco o niente da noi) e i versanti liberale e autoritario; ormai non si può più guardare da un’altra parte: l’attenzione del mondo si sposta verso l’asse Pechino/Mosca

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