Napolitano: governerà chi vince

 

La Repubblica: “Bersani e Monti, l’intesa non c’è. Napolitano: mio malgrado darò io l’incarico, decideranno le urne. Il premier non scioglie i dubbi sulla sua discesa in campo. Il capo dello Stato: finale troppo brusco di legislatura, imperdonabile il no alla riforma elettorale”. A centro pagina: “Imu, boom a sorpresa, incassati 24 miliardi”. In evidenza anche lo show di Benigni a RaiUno “tra Cavaliere e Costituzione”. “Torna Silvio, Signore pietà”.

 

Libero: “I soldi dell’Imu regalati all’Europa. I 24 miliardi incassati coprono quelli dati al fondo Salva Stati. Per questo la Merkel tifa Mario. E chi sbaglia a pagare la tassa…”. E poi: “Napolitano avverte il premier: stavolta governerà chi prende voti”.

La Stampa: “’Il prossimo premier sarà politico’. Napolitano: mio malgrado darò io l’incarico. E non a un tecnico”. “Il Capo dello Stato: finale di legislatura troppo brusco, il più grande fallimento è la mancata riforma della legge elettorale”. A centro pagina, con grande foto: “Concorsone, bocciati due aspiranti prof su tre”.

 

Il Corriere della Sera: “’Darò io l’incarico, sarà politico’. Napolitano: non bruciate la fiducia riconquistata. Il presidente deciderà sulla base dei voti. Bersani vede Monti: sta ancora riflettendo”. A centro pagina: “Un ingegnere italiano ostaggio in Siria di un gruppo di insorti”.

 

Il Fatto quotidiano: “Napolitano contro Monti: ‘Dopo il voto decido io’. Il Capo dello Stato difende l’operato del governo tecnico ma critica la ‘brusca accelerazione impressa dalle dimisissioni’ del premier. E annuncia: ‘Mio malgrado sarò io a dare il nuovo incarico’. E ancora: l’era dei tecnici è finita, ora tocca alla politica”. A centro pagina: “Ingroia in aspettativa, pronto a candidarsi”. Il 21 presenterà a Roma il manifesto “Io non ci sto”, con De Magistris e Orlando.

 

Il Giornale: “Mani sporche sulle elezioni. Vent’anni dopo Mani Pulite, i pm comunisti gettano la maschera: Ingroia, l’inquisitore di Berlusconi, si candida”.”Il Cavaliere: ‘Meno parlamentari e solo per due mandati’. Intanto La Russa lascia il Pdl”. In prima pagina un commento di Vittorio Feltri dal titolo: “Pannella sta morendo e gli italiani se ne fregano”.

 

Sul leader radicale in sciopero della fame e della sete da segnalare anche la prima del Corriere della Sera (“Marco Pannella e la sua coraggiosa battaglia”, Pierluigi Battista), Il Foglio (“Il corpo della democrazia. ‘Non smetto perché non posso smettere’”, di Stefano Di Michele), e La Stampa (“L’urlo disperato di Pannella per gli ultimi”, di Mattia Feltri)

Su L’Unità a centro pagina: “Pd, primarie per il 90 per cento dei candidati”.

Su Il Foglio, di spalla: “Obama aggiunge Kerry nel suo disegno realista e rétro per la sicurezza.

 

Napolitano-Monti

 

Il Presidente della Repubblica Napolitano ieri, ad una cerimonia di scambio di auguri natalizi al Quirinale, ha parlato della situazione politica pronunciando – come scrive Stefano Folli sul Sole 24 Ore – “un discorso complesso e ricco di significati”: “Mio malgrado mi trovo a dovere chiarire che su di me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò di assolvere nel novembre 2011”, ha ricordato Napolitano, spiegando che allora si giunse “a una soluzione fuori dall’ordinario, ma non senza precedenti, e certo nell’ambito costituzionale della democrazia parlamentare, quando mi studiai di evitare l’aprirsi in modo traumatico di un vuoto istituzionale e il precipitare verso elezioni anticipate in una fase critica e pericolosa per la posizione non solo finanziaria dell’Europa”.

Quella condizione non c’è più, riassume il Corriere della Sera, riferendo ancora le parole del Presidente. “Non c’è chi non veda come si stia per tornare ad una naturale riassunzione da parte delle forze politiche del proprio ruolo, sulla base del consenso che gli elettori accorderanno a ciascuna di esse. E sarà quella la base su cui poggeranno anche le valutazioni del Capo dello Stato”. Insomma, scrive il Corriere, sarà il Presidente in carica ad indicare chi formerà l’esecutivo tenendo conto del risultati elettorali. Poi è passato ad enumerare le mancate riforme, sebbene su alcune vi sia stata ampia discussione: per esempio, i costi della politica e il trattamento dei parlamentari, che “hanno formato oggetto di decisioni discutibili ma non trascurabili e da non svalutare, la cui eco è stata soverchiata dal clamoroso esplodere di indegni abusi di danaro pubblico commessi da numerosi eletti nei consigli regionali”. Ed è mancato anche, “sotto il profilo della moralità, una riqualificazione dei partiti politici, secondo le regole coerenti con il dettato costituzionale”. Napolitano ha poi parlato, stigmatizzandolo, del “fallimento della riforma elettorale”, su cui “sono prevalse le peggiori logiche conflittuali”. Il quirinalista del Corriere Marzio Breda evidenzia nella sua analisi che la decisione di restare e di dare l’incarico ha l’obiettivo di allontanare i sospetti di aver tifato per un “Monti bis”. “Con questa sortita – scrive Breda – il Presidente in un certo senso si vendica, spiazzandoli, di tutti coloro che hanno alimentati il sospetto che lavorasse per un bis del professore in veste di premier: no, al suo posto provvederà ad insediare il vincitore delle elezioni”.

Il consiglio a Monti, considerate tali premesse, secondo Breda si potrebbe tradurre in un richiamo a un supplemento di riflessione, a ponderare ogni variabile, prima di sciogliere la riserva sull’ingresso in politica. Napolitano avrebbe infatti preferito che il professore non vestisse i panni del competitor, nemmeno in via indiretta, come sponsorizzatore di una lista o federatore di un cartello di liste, nella prossima campagna elettorale: lo aveva nominato senatore a vita proprio perché sopra le parti. Insomma, “una riserva della Repubblica che, impegnandosi nella competizione politica, perderebbe il profilo della terzietà. Una risorsa per il Paese che avrebbe potuto essere richiamata in servizio anche quando la stagione dei tecnici sarà conclusa”.

La Repubblica focalizza l’attenzione sull’atteggiamento del segretario Pd Bersani, che davanti a sé non ha più un “premier ‘neutrale’ scelto per affrontare l’emergenza economica, ma un possibile sfidante alle elezioni di febbraio”, come scrive il quotidiano. E riassumendo lo stato d’animo di Bersani: “Se sarai in campo, eviterò loscontro frontale con te”, “nei limiti del possibile”. La Repubblica parla quindi di “gelo” tra Bersani e il Professore, dopo un incontro teso, ieri pomeriggio. “Lo stesso gelo si avverte ormai nei rapporti tra il Quirinale e Palazzo Chigi, testimoniato dalle parole di Napolitano”, aggiunge il quotidiano. Discorso che ieri “non a caso, ha suscitato entusiasmo a Largo del Nazareno”, dove è stato considerato “’un intervento molto significativo’”. Secondo il quotidiano, Monti avrebbe anche accennato all’offerta di un documento programmatico per la prossima legislatura, che vorrebbe scrivere sottolineando alcuni punti irrinunciabili: un vero e proprio manifesto, aperto a tutte le forze responsabili e non populiste, che esclude perciò Grillo, la lista Arancione e naturalmente Berlusconi. Ma l’idea di questa piattaforma non convince il Pd, visto che “rischia di spaccare il partito”, chiosa La Repubblica.

Il Giornale: “Anche Napolitano scarica Monti”, allorchè dice “tocca ai politici”.

E nell’analisi si scrive: “Certo, superMario può sempre vincere le elezioni, cosa altamente improbabile considerando le forze in campo. Oppure, può sperare in un pareggio e di rientrare come Cincinnato. O anche, può aspettare di essere indicato dai vincitori durante le consultazioni al Quirinale”.

 

La Stampa interpella i sondaggisti e riassume: “Per i sondaggisti una lista del Professore pescherebbe a sinistra”, “fino al 15 per cento dei voti. Poi dovrebbe allearsi”. Scrive il quotidiano: “Per bene che gli vada, Monti può aspirare ad essere un buon alleato, un forte gregario. Ma gli converrà cimentarsi nella pugna per un risultato di questo genere, quando è già senatore a vita e qualcuno gli ha fatto balenare fulgidi orizzonti?”. Ipr dice che una lista che si richiami a Monti non supererebbe il 4 per cento, con lui leader arriverebbe all’11. Renato Mannheimer dice che una lista senza di lui otterrebbe il 5 per cento, raggiungendo invece il 15 se si presentasse come candidato premier.

 

Ingroia

 

Nel suo discorso di ieri il Presidente Napolitano, come riferisce La Stampa, ha parlato anche della magistratura: “Ai magistrati di tutta Italia, da quella di Palermo dove quindici anni fa si concluso lo storico maxiprocesso, alle grandi città del nord, diciamo: andate avanti e fino in fondo con professionalità e rigore, nel rispetto delle regole e delle competenze, e nel rispetto dell’equilibrio dei poteri. Siamo così, limpidamente, al vostro fianco”. Il quotidiano parla di una “plateale” coincidenza, poiché cade nello stesso giorno in cui il giudice Antonio Ingroia ha annunciato di fatto il suo ingresso in politica, dal Guatemala, “il campione di quell’area politico giudiziaria che negli ultimi mesi si è distinta negli attacchi al Colle, ha chiesto al CSM l’aspettativa ‘per motivi elettorali’ . L’ha fatto pur precisando subito dopo di essersi mosso ‘a titolo cautelativo’”. Ha annunciato quindi che il 21 lancerà il suo manifesto “io ci sto”, incassando l’entusiasmo di Gino Strada, Luigi De Magistris, Antonio Di Pietro, Leoluca Orlando.

Secondo il Corriere della Sera Ingroia dal Guatemala ha tenuto molti contatti per convicere almeno una parte del cosiddetto Movimento Arancione di De Magistris a non disdegnare un ipotetico, futuro accordo con il Pd. Il Giornale: “Ingroia getta la maschera: mi candido”. Secondo il quotidiano il pm corre come premier degli Arancioni. Il suo programma in 10 punti, di cui è primo firmatario (seguono De Magistris e Orlando) ha già calamitato diversi spezzoni della sinistra radicale: da Paolo Ferrero di Rifondazione ai comunisti italiani di Diliberto, all’IDv di Di Pietro.Insomma, il “quarto polo”, che punta su stato laico, scuola pubblica, cacciata dei partiti dal Cda Rai.

Il direttore de Il Fatto Padellaro, in prima, firma un editoriale dal titolo “meglio magistrato che candidato”. Padellaro paventa, da parte di Ingroia, “un duplice errore”, poiché è uno sbaglio che “rischia di ripercuotersi sulle indagini di cui è stato protagonista”, e i magistrati che assieme a lui “hanno condotto la difficile indagine sulla trattativa tra lo Stato e la mafia si sentiranno più soli”, “proprio nel momento decisivo, mentre cioè le richieste di rinvio a giudizio stanno passando al vaglio severo del Gup e dopo la sentenza negativa della Consulta sulle telefonate di Napolitano”. Inoltre, tutto questo, per Padellaro, vien fatto “per correre con un movimento Arancione cui va tutta la nostra simpatia, ma che in competizione con i vasi di ferro rischia di non varcare la soglia di sbarramento, indispensabile per l’ingresso in Parlamento”.

Lo stesso Ingroia, nel suo “Diario dal Guatemala”, avverte: “Venerdì torno e vi dico tutto”. Spiega Ingroia: “Io non ho nessuna brama di seggi elettorali. In Guatemala sto bene in un lavoro che mi impegna molto. E non intendo indossare casacche di partito né colorare la mia toga di rosso o di arancione. Sono convinto, però, del fatto che in questo momento difficile e cruciale il nostro Paese ha bisogno di atti di coraggio e di responsabilità da parte dei non professionisti della politica. Che diano il contributo che possono”. Ingroia spiega anche che l’imminente chiusura del Csm per le festività natalizie e l’accelerazione verso le elezioni anticipate lo hanno indotto a fare una richiesta cautelativa di aspettativa “per motivi elettorali” che “non avrei avuto più il tempo di fare alla riapertura del Csm, una volta sciolta la mia riserva. Fino ad oggi non ho ancora deciso”.

 

Primarie Pd

 

Il governo ha peraltro deciso, con un decreto, il dimezzamento delle firme necessarie a presentare le liste: tenendo conto dell’anticipazione delle elezioni, sarà necessario raccogliere da un minimo di 750 a un massimo di 1250 firme in ognuna delle 26 circoscrizioni del territorio nazionale, come spiega L’Unità. Lo stesso quotidiano si occupa dei lavori della direzione nazionale Pd che, ieri, sono stati impegnati nella varo delle regole e delle deroghe per le candidature dei parlamentari, in vista delle primarie del 29 e 30 dicembre. Spiega il quotidiano: “Stavolta per andare in Parlamento si dovrà passare per i gazebo, dando la parola agli elettori e con la speranza, di molti big, che non siano i dirigenti locali a fare la parte del leone. Per questa volta, a parte una quota a disposizione del segretario in accordo con le segreterie regionali, toccherà a tutti, dai big agli sconosciuti, giocarsi la partita”. Dieci le richieste di deroga votate in blocco, senza cioè la discussione sui singoli nomi: Bindi, Finocchiaro, Agostini, Garavaglia, Merlo, Marini, Cesare Marini, Gianclaudio Bressa, Beppe Lumia e Beppe Fioroni. Di questi finiranno nel listino nazionale quasi sicuramente Rosy Bindi, Franco Marini ed Anna Finocchiaro. Potranno votare tutti gli elettori iscritti all’albo delle primarie del 25 novembre, gli iscritti al Pd del 2011 che rinnovano la tessera anche il giorno del voto, più i nuovi iscritti 2012 alla data del 30 novembre. Anche il sindaco di Firenze Renzi ha partecipato alla Direzione, esprimendo un deciso apprezzamento per la scelta: “Anche con questa legge elettorale sbagliata, allucinante, il Pd fa le primarie per eleggere i Parlamentari. Mi sembra un fatto molto molto positivo”. Dal fronte dei renziani, il senatore Pd Ichino fa sapere che non intende rientrare nel listino nazionale, e che si sottoporrà alle primarie, al pari di Salvatore Vassallo e Benedetto Zacchiroli.

Secondo La Repubblica il pacchetto di deroghe blindate, ovvero approvate in blocco e non dopo un dibattito caso per caso (ok a stragrande maggioranza, con tre contrari e tre astenuti) prevede però un compromesso: i derogati si sottopongono alle primarie per i parlamentari. Ma c’è una uscita di sicurezza, per scamparle: entrare a far parte della novantina di personalità che Bersani sceglierà. Di chi sarà ancora nella “quota nazionale” o “riservata” non si è discusso ieri, spiega La Repubblica, che raccoglie le parole di Migliavacca, coordinatore della segreteria: sarà il 10 per cento dei candidati. Il restante 90 per cento faranno le primarie. I parlamentari uscenti potranno evitare le firme per le candidature, mentre gli altri ne dovranno presentare un numero pari al 5 per cento degli elettori della Provincia (non meno di 50 e non più di 500).

 

Il Corriere della Sera: “Da Epifani a Gotor, i 120 ‘blindati’ che creano imbarazzi nel partito”. Tra i 120 “nominati” tra protetti del segretario, esponenti della società civile e capilista, potrebbero esservi l’ex leader della Cgil Epifani, Miguel Gotor, consigliere di Bersani, Carlo Galli, molti parlamentari anche di lungo corso verranno salvati e messi in quota anche per le loro competenze, ma è un peccato che altri loro colleghi, con una sola legislatura alle spalle, saranno fatti fuori perché non hanno un padrino politico”, come scrive il Corriere. Si citano i casi esemplari di Roberto Della Seta, Ermete Realacci, Francesco Ferrante, Stefano Ceccanti, Roberto Giachetti. Tutti esponenti Pd che non sono radicati sul territorio, e quindi non hanno possibilità di passare per le primarie con i voti dell’apparato o dei signori delle tessere. Alcuni di loro sono renziani, peraltro, e il quotidiano riferisce anche un sondaggio riservato secondo cui se nascessero delle “liste Renzi” in appoggio a Bersani e al Pd otterrebbero il 13 per cento.

 

Internazionale

 

I quotidiani continuano ad interessarsi e a seguire le vicende relative alla strage di Newtown, nel Connecticut. Se ne occupa, ad esempio, la Stampa: “NRA, la lobby delle armi sfida Obama”. Nel dicorso di Newtown il presidente ha promesso di “cambiare” l’approccio dell’America alle armi da fuoco, e la senatrice democratica Diane Feinstein prennuncia una proposta di legge per reintrodurre la messa al bando di 900 tipi di armi di assalto e dei caricatori con oltre 10 proiettili. Ma c’è l’opposizione della Nra, National Rifle Association, la più influente lobby di Washington. La forza della Nra, spiega La Stampa, sta nel sommare tre poteri: proiettili, dollari, giudici. I proiettili sono quelli che usano 4,3 milioni di iscritti e quel52 per cento di nuclei familiari che possiedono oltre 300 milioni di armi in America. E’ un network di gruppi ed associazioni presenti in tutti i 50 Stati, che ha i pilastri negli enti sportivi, a cominciare dal Comitato Olimpico, in oltre 1000 istruttori cui affida l’addestramento dei nuovi iscritti, e in organizzazioni del peso dei sindacati dell’auto UAW, che in un recente contratto hanno fatto dichiarare festivo il primo giorno della stagione di caccia. Fondata nel 1871 da veterani della guerra civile, con il vanto di aver avuto otto presidente nei ranghi, averi per oltre 240 milioni di dollari, e donazioni elettorali per dozzine di milioni ad ogni voto locale o nazionale, la lobby dei pro-gun condiziona Capitol Hill a colpi di numeri. Nella Camera dominata dai Repubblicani è in maggioranza, e al Senato su 100 sono in 31, incluso Harry Reid, capo dei Democratici. La Corte Suprema nel 2008 garantì alla Nra una storica vittoria: con 5 voti contro 4, la sentenza “Distretto di Columbia contro Heller” sancì il diritto personale e collettivo di possedere armi da fuoco, rifiutando di porvi limiti. Il diritto al porto d’armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione e i vertici Nra si sentono onnipotenti: quando nel 2011 Obama invitò alla Casa Bianca Wayne Lapierre, CEO di Nra, per discutere di controllo delle armi, la risposta fu: “Perché mai dovrei sedermi con gente come il ministro Holder e il segretario di Stato Hillary Clinton, che hanno passato la vita a tentare di distruggere il secondo emendamento?”. Tale è la sensazione di onnipotenza che la Nra ha reagito alla strage di NewTown con un silenzio totale, incluso l’oscuramento della pagina Facebook che vanta 7 milioni di “mi piace”.

 

Di fianco, il profilo psicologico della madre dell’omicida: Nancy Lanza era una “prepper”, una paranoica che si preparava al collasso della società accumulando armi e cibo nella sua splendida casa.

 

 

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