La crisi, i migranti, i diritti ancora fragili in un’Italia complicata

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La crisi economica, con le politiche di austerità che sono seguite, mette sotto pressione i diritti. Li porta a un livello di estrema tensione e li stressa, mentre la recessione colpisce in modo più forte gli strati sociali più deboli e con loro i migranti, perché dotati di meno risorse e meno reti di protezione. Ma non di meno capacità di reagire, se è vero che la disoccupazione colpisce di più i lavoratori stranieri ma allo stesso tempo sono loro che continuano ad aprire imprese, mostrando così inedite forme di resistenza alla crisi stessa. Tutto questo in un’Italia dove i diritti sono ancora fragili.

C’è uno studio, il Rapporto sui diritti globali (dal titolo “Dopo la crisi, la crisi”) realizzato da Associazione SocietàInformazione e promosso dalla Cgil, che spende parole molto dure nei confronti dell’impatto della crisi economica globale, che «ha messo sotto pressione i diritti umani e la democrazia, in Europa come nel mondo», e delle politiche fiscali ed economiche adottate. In questo contesto, i migranti rappresentano «un’altra delle pagine nere dei diritti nel nostro tempo». Il Rapporto (che spazia dal lavoro al welfare, dalla politica internazionale ai diritti umani) esprime la tesi che in un contesto di «deserto dei diritti», massacrati dalle politiche di austerità, quelle che vengono attuate siano «strategie di guerra contro i migranti», che non vengono riconosciuti come titolari di diritti ma solo di concessioni che di volta in volta possono essere sospese. «L’ideologia securitaria con cui, in Italia e nel mondo, si sono prevalentemente affrontate le questioni sollevate dai migranti, ha partorito delle vere e proprie strategie di guerra contro i loro diritti, a partire dal diritto alla vita e alla sicurezza», si legge nello studio, per il quale i migranti sono di fatto tollerati e sfruttati come forza lavoro ma vengono rifiutati come portatori di diritti, culture e progetti. «Nell’epoca in cui cultura e diritti sono tagliati alle fasce sociali garantite, le culture e i diritti dei migranti sono strangolati prima ancora di poter esalare il più debole dei respiri».

La crisi economica stressa dunque i gruppi sociali più deboli e fra questi, giocoforza, i migranti. Ma in Italia la situazione è abbastanza particolare e niente affatto univoca: gli stranieri per certi versi sono più colpiti dalla recessione ma allo stesso tempo reagiscono meglio degli italiani. Lo spiega Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato: «Ormai da tre, quattro, cinque anni, si riduce il numero complessivo di stranieri presenti in Italia. Questo a seguito di due fenomeni: è minore il flusso di stranieri in entrata e cresce il numero degli stranieri che decidono di lasciare il nostro paese. Contemporaneamente si registrano però anche fenomeni contraddittori. Nel 2013 c’è un dato assai significativo: è cresciuto il numero di stranieri occupati, quasi 100 mila in più rispetto al 2012. Abbiamo un quadro notevolmente mosso, non semplice da decifrare: certamente crescono le difficoltà complessive per lo straniero presente in Italia, ma la sua tendenza a trovare nelle pieghe del mercato del lavoro e nei sottosistemi di questo mercato un’opportunità di occupazione è certamente indubbia. Così come è indubbio che continui a essere molto consistente e a crescere il numero di ditte autonome con titolare straniero. Mentre – spiega Manconi – le piccole ditte autonome con titolare italiano conoscono una vita difficile e cresce il numero di quelle che chiudono, il numero delle ditte con titolare straniero continua a essere significativo, e seppure conosce una flessione, è una flessione inferiore alla flessione conosciuta dalle stesse ditte con titolare italiano».

Questo dato è confermato di fatto dall’ultimo Rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa: nel 2013 si contavano quasi mezzo milione di imprese condotte da persone nate all’estero, pari all’8,2 % del totale, ma mentre nel 2012 le imprese italiane sono diminuite di 50 mila unità, quelle straniere sono aumentate di 18 mila. Allo stesso tempo, gli stranieri rispetto al 2007 perdono nove punti di tasso di occupazione contro i tre degli italiani. «L’impresa straniera resiste alla crisi», affermano i relatori della Fondazione.

Situazione fluida, dunque, in un contesto di fragilità dei diritti ma anche di minore livello di aggressività nei confronti degli stranieri rispetto a quanto accade in altri paesi europei. Sostiene Manconi: «Quella frase “volevamo braccia, sono arrivati uomini” è il non detto che si trova nell’inconscio di molti italiani. Trovarsi a temere la concorrenza con gli stranieri, al di là del fatto che sia vera o mera fantasia, che sia vera o sia semplicemente una paranoia, induce ad avere un’idea estremamente strumentale: “abbiamo bisogno di loro perché la raccolta dei pomodori non può essere fatta dai nostri figli che hanno studiato, perché negli altoforni non possono andare i nostri figli, perché a mungere le vacche in Padania non vanno i nostri figli, però che cosa pretendono, però non possono essere padroni a casa nostra”. Questi sono sentimenti, umori, pulsioni, e tutto ciò sicuramente si traduce in una grande difficoltà all’ottenimento di diritti adeguati in Italia, in una carenza gravissima della legge sul diritto d’asilo, in una legge sulla cittadinanza ormai superata. Dall’altra parte però starei molto attento a definire l’Italia un paese che respinge gli immigrati o che nega loro diritti. L’Italia è un paese dove i diritti sono ancora fragili, sono difficili da essere ottenuti e difficili da essere affermati. Siamo in una situazione con luci e ombre, molto contraddittoria, molto complessa, ma non diversamente da quella di altri paesi europei. L’Italia rispetto alla Germania o alla Francia o all’Inghilterra è un paese dove il livello di integrazione degli stranieri è basso, ma è basso anche il livello di aggressività aperta contro gli stranieri. Negli altri paesi il livello di integrazione, per una parte significativa degli stranieri, è sicuramente maggiore ma in quegli stessi paesi la mobilitazione xenofoba o direttamente razzista è maggiore».

In questo contesto, il presidente della Commissione diritti umani del Senato spiega anche i recenti conflitti che hanno coinvolto immigrati e “autoctoni” nelle periferie romane, come gli scontri a Corcolle divampati intorno ai bus. «Gli episodi delle scorse settimane sono estremamente simili a quelli delle periferie romane o milanesi di 25 anni fa. Le tensioni, la convivenza difficile, la diffidenza e l’ostilità si manifestano laddove sono gli strati sociali italiani più deboli a dover patire l’impatto più pesante con l’immigrazione straniera. A ciò si aggiunge che questa tensione si manifesta in aree del paese dove il sistema dei servizi è più precario e più problematico». Il conflitto avviene intorno agli spazi e al sistema dei trasporti, spiega Manconi: «Mentre è possibile che non via sia concorrenza per il posto di lavoro fra italiani e stranieri, è certo che vi è concorrenza per gli spazi: i luoghi di ritrovo, le abitazioni, i mezzi di trasporto. L’unica cosa da cui guardarsi è di classificare tutto ciò con una parola semplice ma particolarmente equivoca che è la parola razzismo. Questa non va banalizzata. Non bisogna utilizzare il termine razzismo quando è possibile utilizzare il termine xenofobia, che più puntualmente definisce questi episodi».

E l’informazione? Stretta fra “emergenza immigrazione” e denunce di razzismo, il modo con cui i media trattano l’argomento di sicuro segna il passo. Gli sforzi perché venga usato un linguaggio più proprio non mancano ma, secondo Luigi Manconi, il segno di una sostanziale sconfitta sta nella persistenza dell’uso di una parola che non è affatto scomparsa dal linguaggio giornalistico: “clandestino”. Su questo il senatore è netto: «La mia fiducia nel cambiamento della qualità dell’informazione è ridotta al lumicino. Da almeno tre anni io e le persone che lavorano con me cerchiamo di mettere al bando la parola “clandestino” perché la riteniamo una parola giuridicamente infondata, socialmente impropria e culturalmente perversa. Una cattiva parola che produce fatti cattivi. “Clandestino” è la parola che meglio esprime l’abisso cognitivo del giornalismo italiano come parte della cultura nazionale. Quando questa parola ha un qualche rapporto con la realtà si riferisce a un irregolare, cioè a qualcuno responsabile al più di un illecito amministrativo. Con questo termine noi definiamo l’immigrato come qualcuno che attenta alla nostra vita, si nasconde nell’ombra, si occulta nelle pieghe della società, mentre nei fatti è la persona più esposta e più visibile che ci sia. Chiamiamo “clandestino” chi sbarca a Lampedusa sotto i riflettori della polizia e sotto le luci delle telecamere. La parola “clandestino” si ritrova imperturbabile sui mezzi di comunicazione di destra, di centro, di sinistra e di estrema sinistra. E questo è il segno più grave di una sconfitta avvenuta».

Vai a www.resetdoc.org

Titolo: Rapporto sui diritti globali 2014. Dopo la crisi, la crisi

Autore: A cura di Associazione SocietàInformazione

Editore: Ediesse

Pagine: 1095

Prezzo:

Anno di pubblicazione: 2014



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