Russia, Bielorussia, Turchia.
Dove e quando servono le sanzioni Ue?

Francesco Giumelli ha raccolto e catalogato 26 anni di sanzioni. Lezioni e riflessioni

Bielorussia, Russia, Turchia. Ma, perché no, la stessa Cina, con il suo colossale sistema di repressione di una minoranza. E che dire dell’Egitto o del Myanmar? La chiamata alle armi delle sanzioni come strumento per “punire” regimi che si macchiano di misfatti politici imperdonabili per i valori fondanti dell’Europa si è fatta irresistibile per l’Ue. Ma i casi, a dispetto delle apparenze, non sono affatto tutti uguali. Cambiano, di volta in volta, la gravità dei “peccati” commessi, la loro oggettiva attribuzione, ma anche lo scenario geopolitico, la profondità delle relazioni bilaterali. E gli scopi di politica estera da ottenere, naturalmente. Come capire dunque quando determinate sanzioni funzionano, e quando sono poco più che uno specchietto per le allodole? E possibilmente, quali adottare rispetto a ciascun diverso scenario?

A lavorare sul tema, tornato alla ribalta con la “lunga crisi” bielorussa alle porte d’Europa (tre mesi di proteste incessanti dalle elezioni fraudolente), sono molti studiosi. Uno di essi, Francesco Giumelli dell’Università di Groningen, proprio pochi mesi fa ha pubblicato insieme ai colleghi Fabian Hoffmann e Anna Książczaková il frutto di un lungo lavoro di studio e catalogazione. Raccogliendo i dati dell’ultimo quarto di secolo, i tre ricercatori hanno costruito il primo database strutturato di tutte le sanzioni internazionali adottate dall’Ue dal 1994, dopo che il Trattato di Maastricht ha “generato” tale strumento, ad oggi. Recensendo ben 85 episodi sanzionatori, classificabili in sei diverse tipologie.

Prof. Giumelli, primo interrogativo fondamentale tanto per i policy-makers quanto per l’opinione pubblica: ci sono delle lezioni che si possono trarre dalla disamina storica su quali sanzioni hanno maggior efficacia, e quando?

Il tema è interessante e molto dibattuto, ma per rispondere adeguatamente vanno innanzitutto chiariti i termini della questione. La prima domanda, che non ci facciamo spesso quando parliamo di sanzioni ma da cui invece dovremmo partire, è che cosa sia esattamente l’efficacia, e soprattutto per chi essa vada intesa. Quando parecchi anni fa ho iniziato a lavorare sul tema l’opinione dominante nella letteratura era che le sanzioni non funzionavano. L’idea di fondo era che le sanzioni venissero poste con l’obiettivo di far cambiare il comportamento dell’attore-bersaglio. Sotto questo punto di vista, è chiaro che ben poche sanzioni da sole raggiungono il loro scopo, specie di fronte a Paesi grandi e “ambiziosi”. Ma poiché sono ciononostante usate di continuo, è evidente che a giustificarne l’adozione devono esserci altre ragioni. Ad esempio, a volte le sanzioni aumentano il costo di una politica. Se io voglio impedire all’Iran di costruire una bomba nucleare, ciò che posso fare è rendergliela più costosa. A quel punto quel regime potrà scegliere di continuare a farlo, ma a un prezzo decisamente più alto – dunque i trade off con altre opzioni di politica varieranno. Avere una bomba nucleare, ma essere rimasti nel frattempo senza un esercito e un apparato logistico in grado di metterla a frutto, per capirci, non è una grande idea. In altri casi, entra in gioco ancora un’altra dimensione, per così dire, “esterna”, legata a precisi segnali da mandare di tipo normativo. Pensiamo alle sanzioni contro la proliferazione di armi di distruzione di massa: non sono solo importanti perché ci sono attori che quelle norme le stanno violando, ma anche e soprattutto perché ci sono altri Paesi che guardano e vogliono capire se quella norma si può violare oppure no. Vale lo stesso principio che spiega i limiti di velocità in autostrada: installare un autovelox naturalmente non impedisce alle macchine di andare oltre quei limiti, però manda un segnale piuttosto chiaro a tutti quelli che sanno che se andassero più veloci pagherebbero una multa salata. Per valutare con cognizione di causa l’efficacia delle sanzioni, quindi, bisogna capire cosa davvero si propongono di fare – cambiare il comportamento, rendere certe opzioni più costose, mandare segnali sull’importanza di una norma.

In altri casi, però, il segnale che si vuole mandare pare più interno che esterno: come a rassicurare la propria opinione pubblica che “si sta facendo qualcosa”. Non è così?

Francesco Giumelli è professore associato di Relazioni Internazionali all’Università di Groningen (NL)

Senza dubbio. Basti pensare al caso delle sanzioni americane contro Cuba. Pochi lo sanno, ma quelle più dure adottate dagli Stati Uniti contro l’isola a sono state imposte nel 1996. Ben dopo la fine della guerra fredda! Come si spiega? Con la politica interna naturalmente. A ridosso di un’elezione cruciale, la minoranza cubana negli Usa aveva aumentato sempre più la pressione per richiedere una compensazione dei beni lasciati dalla generazione che era fuggita da Cuba all’epoca della rivoluzione. Ma una dinamica simile ha giustificato le stesse sanzioni europee alla Russia, quelle più pervasive in vigore dal 2014. In quel caso il “misfatto” internazionale fu l’annessione della Crimea, in marzo, ma la vera goccia a far traboccare politicamente il vaso fu l’abbattimento, pochi mesi dopo, del volo MH17 della Malaysia Airlines nell’est dell’Ucraina. Di fronte a un bilancio tragico di quasi 300 suoi cittadini rimasti uccisi, la maggior parte dei quali olandesi, l’Ue non poteva non fare niente: era indispensabile una reazione verso il Paese considerato probabile responsabile. Anche in questi casi, insomma, il giudizio di efficacia va rapportato al risultato che si voleva ottenere.

Sei anni dopo, un’altra goccia sembra aver fatto ri-traboccare il vaso della “intolleranza” europea per la disinvoltura dei metodi russi, questa volta nei confronti di un oppositore interno. I tempi non sono stati esattamente fulminei, ma a metà ottobre l’Ue ha infine deciso di “punire” Mosca per l’avvelenamento di Alexei Navalny imponendo sanzioni contro sei uomini del Cremlino e il suo centro di ricerca di chimica organica. Peccato l’opinione pubblica sia volubile, e sembri nel frattempo aver già scordato il caso. Sono azioni davvero efficaci per colpire i responsabili, o mosse per coronare la promessa di una reazione all’altezza dello scandalo?

Certo, il punto è sempre questo. Qual è il vero obiettivo? Non certo cambiare un comportamento, in questo caso, considerato che l’avvelenamento ormai è stato perpetrato. La vera domanda dunque qui è: questo è sufficiente per fare in modo che in futuro la Russia stessa o altri Stati non rifacciano certe cose? L’efficacia in questo caso è una scommessa sul futuro, non sul passato. Ma se da un lato c’è il problema del rispetto della norma – si possono uccidere persone con questa metodologia? – dall’altro c’è quello della responsabilità oggettiva: la Russia è colpevole in quanto Stato oppure no? Sul piano giuridico, è un nodo altrettanto importante. E non è un caso che per aggirarlo la soluzione sia ormai sempre più spesso trovata in questi regimi sanzionatori “orizzontali”: non colpiscono uno Stato – la Russia – ma singoli individui. In questo modo l’Ue sceglie di mantenere un basso profilo sul piano diplomatico, di modo da non creare ulteriori difficoltà nelle relazioni bilaterali, soprattutto economiche, soddisfando al contempo l’esigenza di mandare un segnale normativo chiaro secondo il quale non è ammissibile avvelenare dissidenti arbitrariamente. O per lo meno, questa è la scommessa.

Circostanza fortuita o meno, nelle stesse settimane l’Europa si è trovata a dover gestire anche la “patata bollente” bielorussa, dove in gioco c’è ancora di più: il destino di un’intera nazione. Anche qui, dopo un lungo balletto, l’Ue ha infine approvato il congelamento dei beni e dei visti di espatrio per 40 alti funzionari di Minsk, con la minaccia di estenderli allo stesso Lukashenko. Per i bielorussi che da tre mesi scendono in piazza per chiedere libertà e democrazia, cambia qualcosa?

Brutalmente, no. Nel senso che certo quelle persone – poniamo, responsabili di qualche dipartimento al ministero dell’Interno – non usano il loro bancomat per comprare gli strumenti con cui contengono o reprimono le proteste. L’incentivo che si può creare, anzi, è semmai esattamente opposto. Sanzionando queste persone, tipicamente già molto legate al regime, per il quale fanno il bello e il cattivo tempo, quello che faccio in definitiva è renderli ancor più dipendenti, dunque più leali, al regime – che diventa l’unica fonte del loro introito. Non sarebbe una novità. In alcuni casi di sanzioni internazionali nel passato si è addirittura osservato il paradosso per cui alcuni uomini chiave di un certo regime facevano sapere esplicitamente di voler essere sanzionati, perché non esserlo significava non essere visti come abbastanza fedeli al Capo, col rischio di essere fatti fuori.

Armi spuntate, dunque. Ce ne sono di più affilate nell’arsenale dell’Ue per essere davvero, direbbero gli americani, un game-changer?

Di silver bullet, risponderebbe a sua volta un americano, non ce ne sono: non c’è una misura che cambierebbe tutto, e che magari non si adotta perché questo o quell’altro Paese in particolare è contrario. Il problema è complesso e richiede dunque come tutti quelli di questo tipo un set di strumenti – senza scordare al contempo che non tutto dipende dall’Unione europea. Chi si è occupato di Bielorussia sa che una tipica caratteristica di quel regime è sempre stata quella di giocare fra i due mondi: Lukashenko ha sempre trattato ad un tavolo con gli europei di modo da poter negoziare con carte migliori coi russi, e viceversa. Che fare quindi per favorire “il bielorusso della strada”? Escludiamo l’opzione militare – non si può invadere la Bielorussia perché ci sono delle proteste di piazza, sia perché non avremmo gli strumenti, sia perché la soluzione sarebbe quasi certamente peggiore del problema stesso. Quel che si può fare è mettere in campo tutta una serie di strumenti diplomatici per avere un’interazione costante con le élite e l’apparato statale della Bielorussia. È quello che si fa da anni, per continuare ad avere informazioni e canali di pressione, ed è una delle ragioni per le quali spesso il leader non viene sanzionato. Ci sono poi gli strumenti economici: l’abile controllo dei rubinetti di fondi che inviamo nel Paese che, vale la pena ricordarlo, ha profondi legami commerciali con molti Stati Ue. Resta il fatto che, in un angolo di mondo ad alta tensione geopolitica e con un altro grande attore influente, la Bielorussia è un problema complesso, e dobbiamo accettare che ci sono dei limiti a ciò che l’Ue può fare.

Il piccolo Cipro si è impuntato sull’idea che le sanzioni alla Bielorussia potessero essere adottate solo se lo fossero state anche quelle contro la Turchia, ed è stato per questo poco meno che ridicolizzato. Ma è un fatto che Erdogan è ormai dittatore intransigente almeno quanto Lukashenko – eppure in quella relazione siamo ancora più timidi e impauriti. Non sarà che la “passione” dell’Ue per le sanzioni nasce in fondo da una mancanza di coraggio in politica estera? Ha davvero senso utilizzare strumenti di pressione “soft” di fronte a dei dittatori senza scrupoli?

La risposta è sì. Se noi ci troviamo oggi a utilizzare questo tipo di strumenti è perché l’esperienza ci dice che quando si impongono sanzioni agli Stati stessi o ai dittatori, poi le conseguenze non le pagano loro. Se io imponessi sanzioni a tutta la Bielorussia, l’ultimo che morirebbe di fame sarebbe certamente Lukashenko. E quindi se noi vogliamo veramente aiutare il bielorusso della strada, sicuramente non bisogna imporre sanzioni a tutti, perché questi sarebbe il primo a pagarne le conseguenze. Questa è stata la lezione numero 1 imparata negli anni ‘90. Dopo l’invasione del Kuwait si sanzionò l’Iraq: l’unico a non saltare un pasto fu Saddam, al contrario dei suoi oppositori politici. E lo stesso leitmotiv si è ripetuto in tanti altri regimi – dalla Jugoslavia ad Haiti. Ecco perché adottare misure più radicali e invasive ci può far sentire bene guardandoci allo specchio, ma poi alla prova dei fatti rischia di danneggiare proprio quelli che noi diciamo di voler difendere.

Tutto chiaro, se non fosse che sono alcuni tra gli stessi intellettuali turchi in esilio a dire esplicitamente: Erdogan ha costruito un regime ormai a tutti gli effetti totalitario, non si fermerà davanti a nulla, e chi non agisce di conseguenza pecca di appeasement. Conclusione: l’Ue dovrebbe rompere le relazioni con la Turchia.

Capisco perfettamente il ragionamento, ma si torna con questo alla domanda di partenza: strumenti efficaci per chi? il problema è la libertà o non avere da mangiare? Perché ogni scelta è al fondo un trade off. Certo, potremmo chiudere i rapporti con la Turchia e smettere di commerciare con essa, ma che conseguenze avrebbe? Ci sarebbero sicuramente dei benefici, ma anche tanti problemi. Chiudendo ogni canale di comunicazione non saprei più cosa succede, non sarei più in grado di controllare alcunché. E l’esperienza di altri scenari ci suggerisce che il problema non è mai un singolo leader, ma un intero sistema di relazioni. Reagire insomma è importante, ma bisogna stare attenti a pensare che una soluzione apparentemente più facile sia anche quella migliore.

 

Foto: John Thys / AFP

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