Requiem per la Lega

Cominciamo dalla fine, Berghem, 10 Aprile 2012, ore 21,00: che non è la fine della Lega (in Italia non finisce mai nulla, persino il comunismo continua a vegetare), ma la fine della favola di una “Lega dura e pura”. Il è morto quando si è capito che l’ictus era stato probabilmente provocato da uso eccessivo di Viagra in un motel del Bosinate (mi baso su una affermazione di Pietro Citati). Sull’oggetto dell’incornatura vi sono da parte dell’interessata denegazioni pubbliche, ma il Viagra non è mai stato messo in dubbio, neppure nel racconto di Leonardo Facco, nel libro Umberto Magno (Aliberti). Nella malattia, il vecchio leader ha dimostrato una notevole capacità di resistenza di cui gli va dato umanamente atto. Rimane che, invece di fare allora (rimessosi parzialmente dagli esiti devastanti dell’ictus dell’ 11 marzo 2004) una ritirata dignitosa verso una carica più onoraria e santificante, Bossi, per volontà sua o della dirigenza della Lega – o più probabilmente della famiglia e di un cerchio ristretto di parenti e fedeli, che non volevano cedere il potere nel partito al sempre incombente Maroni – ha puntato su un delfinato famigliare senza mollare lo scettro e spingendo avanti l’improbabile Renzo. Quella cerchia si trasformò poi (anche, pare, per le inclinazioni esoteriche della signora Bossi, la prof. Manuela Marrone) nel famoso Cerchio Magico, in effetti un cappio o una garrota via via sempre più stretta attorno al collo del vecchio leader menomato. Il regista di questa fase, chiunque sia stato, forse lo stesso Bossi, ha scelto la via mediatica della pietà per la sofferenza, cercando di ricalcare la performance di Woytila.

Icona dello sberleffo

Si può dire che fosse una scelta inevitabile, per “garantire la continuità”, come dicono sempre i despoti, anche quando gran parte dei seguaci è proprio questa continuità che vorrebbero interrompere. O forse questa scelta era effettivamente inevitabile per tenere insieme un partito che “senza Bossi dura sei mesi” (Monica Brizzi a Formigli in Piazzapulita del 12 Aprile; lei è durata poco più di sei ore). Ma è stata una scelta estremamente costosa: forse alcuni militanti si commuovono, ma molti elettori o potenziali elettori e investitori di fondi in questo paese, non sono certo attratti dal farfuglìo su una cicca sbausciata di toscano. E la lucidità è mancata: quando Bossi ha pensato di dare un viatico affettuoso al figlio chiamandolo “Trota” gli ha dato una mazzata mediatica che, coniugata con un volto che difficilmente potremmo classificare tra quelli che sprizzano intelligenza, ha trasformato il povero (si fa perdire) Renzo in una icona mediatica da World League dello sberleffo. E’ peggio di quel personaggio di Cerami che ha chiamato il povero figlio deforme Omfalo, senza rendersi conto che Omphale in francese è un nome femminile. L’infilarlo alla Regione a 12mila al mese, ovviamente giubilando qualcuno che per la Lega “si era fatto il culo”, come direbbe Bossi, è stato più di un errore clamoroso: uno sberleffo per tutta quella base che per anni è stata gasata con il valore del “farsi il culo”. E non ha certo giovato sapere che noi tutti gli pagavamo le tasse universitarie in una università straniera (ma dove? 100mila euro! Ma neppure Harvard costa tanto. E la Monica Brizzi che dichiara a Formigli che all’estero il Trota “prende dei bei trenta”. Ma dove? I trenta si danno solo in Italia; buffalmacchi!).

Bossi sapeva o no? E’ irrilevante, ma certo che sapeva. Ve li immaginate i pranzi di casa a Gemonio? Di cosa parlavano, di calcio? Di donne? Marco Alfieri ha scritto un pezzo straordinario su (“Il romanzone padano”, 10 aprile 2012, uno dei pochi veramente illuminanti, nella cataratta di scemenze che abbiamo letto in questi giorni) in cui spiega la psicologia della famiglia bosìna, che non ha molto chiaro il confine tra il peculio famigliare e quello dell’impresa o del partito, se glielo hanno malcapitatamente affidato. “Chi liquida l’avventura di Bossi and Co. ad affare di fondi neri e tribunali significa che non è mai stato a Varese. Non conosce l’odore della campagna urbanizzata del Nord, la religione della famiglia-impresa così diffusa da queste parti”, scrive Alfieri. “La roba è lì per chi la prende” diceva il vecchio Ferruzzi, e s’è visto. Comunque quando si è scoperchiato il coperchio dei traffici della famiglia Bossi, tra via Bellerio e Gemonio, e ha portato a galla il pullulare verminoso di furti e furtarelli, dazioni, fotocopie e ricatti, di figli, segretarie, autisti e guardaspalle, è venuto meno anche il della Lega, sostenuto dal Viagra mediatico della bufala di un capo geniale persino nella sofferenza, e la favola di una lega “dura e pura” si è catastroficamente dissolta.

E’ emersa anche una Lega reale fatta sì da persone che “si fanno il culo” e si ritengono fondamentalmente oneste, ma che poi in realtà hanno visto i loro stili di vita e i loro modi di fare e di dire, riflessi nello specchio deformato della piccineria micragnosa di uno che non ha mai lavorato, che ha truffato più volte sulla sua laurea e che la canottiera ce l’ha anche in testa e che, al momento buono, invece di dare due calci in culo al figlio, la prima volta che ha sgarrato (come ha detto un leghista doc a Bergamo) lo ha coperto senza ritegno e che invece di comandare in casa risultava essere in preda delle stoltezze di figli scapestrati, delle manie della moglie e delle mene della badante. Hanno capito che il dito alzato di Bossi, alla fin fine, era proprio rivolto a quanti gli hanno dato fiducia. Ma allora come mai tanti occhi umidi, tanti “fino alla morte!”, nella grottesca Valpurga di Bergamo? Scrive Gianotta ne I vangeli Apocrifi, che quando Gesù morì in croce i suoi seguaci si dispersero perché la promessa del regno dei cieli in terra si era rivelata fallace, ma i pochi rimasti sotto la guida del fratello del Nazareno, si riorganizzarono attorno al mito della resurrezione. “Denial is an incredibly strong force” mi ha sussurrato mestamente un giorno Jerry Bruner, riflettendo onestamente sulle proprie reazioni psicologiche a un grave lutto che l’aveva colpito. Maroni, e men che meno Salvini o altri centurioni, sono astronomicamente lontani dalla cultura e dall’onestà intellettuale di un Bruner, ma hanno capito furbescamente che occorre negare fino in fondo, che in un partito-uomo come la Lega, non si può toccare il leader (un po’ come MacArthur,consigliato dal team di antropologi americani di “study of culture at a distance”, aveva salvato Hiro Hito) e che le cerimonie di catarsi e resurrezione sono un potente denialdella verità, come sapeva benissimo Giuseppe Stalin.

Quante facce di bronzo

Probabilmente né Salvini né altri in quel partito hanno sufficiente cultura storica, non dico per capire, ma neppure per sospettare che la sera di Bergamo è stata una vera e propria purga stalinista, con un Grande Accusatore in perfetto stile Molotoviano, le folle ebbre di indignazione, le dimissioni opportunistiche e ipocrite, la confessione pubblica del vecchio capobranco uscente, e l’ovvio capro espiatorio, guarda caso, una donna, la nera Rosy Mauro. Non si è accorta quella folla, che mentre Maroni continuava a ripetere “non faremo la caccia alle streghe”, si si stava già simbolicamente bruciando la Strega The Witch, e ovviamente anche The Bitch). E Salvini, che è un vero campione mondiale chutzpah, ma in milanese si direbbe in un altro modo, ha avuto il coraggio di ripetere il mantra che nella Lega “chi fa errori paga”.

La Rosi Mauro sì, ma il figlio del capo no; Monica Brizzi che ha letteralmente fatto carte false per fare eleggere il figlio del capo sì (guarda caso un’altra donna), ma il Trota, beneficiario di queste attività, forse anche illegali, non si tocca. La regola nella Lega, caro Salvini, è esattamente quella che c’è dovunque: “chi sbaglia paga, purché non sia figlio di capi”. E fa bene la Mauro a resistere sulla poltrona al Senato, non perché se la meriti, si è già rivelata una imbarazzante presenza, ma perché cosa è cambiato dal momento in cui è stata messa lì? E continua a non cambiare nulla perché la Rosy continua ad andare a casa dei Bossi (La Stampa 14 Aprile). E tutti, con una faccia di bronzo da prima linea, per usare ununderstatement, giù a celebrare le dimissioni di Bossi e del Trota, che sono invece delle furbate, come quei giochi che si facevano da bambini con le palle di fango in cui il più svelto a tirare giù la testa faceva arrivare il fango in faccia a quelli dietro. E anche se non ho nessuna speranza che mai un Salvini possa arrivare a leggerlo, suggerirei un testo del 1911 (in it. 1912), di tal Roberto Michels (libro per inciso che dovrebbe essere obbligatorio per chiunque intenda fare politica) dove si può leggere un pezzo assolutamente illuminante sulle dimissioni e il loro uso opportunistico in politica. E’ proprio il caso di dire un libro scritto “in quo toto continetur”, in cui era già stato detto tutto, ma questi riscoprono furbescamente l’ombrello e i commentatori l’ombrello se lo fanno tranquillamente altanizzare. Ma molti nella base della Lega hanno già detto chiaro e tondo che non la bevono più, e staremo a vedere cosa dicono gli elettori.

Il “sostegno” dei media

Ma il sostegno più importante a Bossi e alla Lega viene dai media, che si bevono e ritrasmettono tutte le rappresentazioni favolistiche dal radicamento sul territorio, all’onesta specchiata, all’amore per il lavoro di un leader che non ha mai lavorato in vita sua, al federalismo che non c’è, all’antipolitica che ha sfornato una massa di dirigenti politicanti come non si era vista da quel dì. E non c’è da stupirsi perché tra le tantissime cose che si possono dire di Bossi e del suo movimento politico una mi sembra incontestabile: Bossi e la Lega sono un fenomeno eminentemente mediatico, come Berlusconi e altri fenomeni politici del contemporaneo. Se quegli stessi commentatori che oggi fanno i superciliosi scandalizzati, avessero relegato Bossi e le sue fanfaronate in quarta o quinta pagina dove meritavano di stare per adempiere al dovere di informare, il fenomeno Bossi non avrebbe contribuito alla devastazione del civismo e del buongusto che il berlusconismo ha inferto a questo paese in vent’anni di egemonia culturale e mediatica prima ancora che politica.

Oggi non bastano iniezioni massicce di Gerovital come quelle dell’instancabile Sallusti che pompa il bombardino del complotto. La prova? Tre procure che indagano contemporaneamente, non si era mai visto. Ma se questi hanno fatto pasticci persino in Tanzania che prova è? La corruzione italiana, di cui la Lega fa ormai parte integrante, è come il petrolio in Arabia Saudita, basta che infili un dito nella sabbia e zampilla fango nero. Capisco che il Bossi e il suo entourage possano essere un boccone molto prelibato per i commentatori, soprattutto della ampia tribù dei terzini, che hanno sempre mostrato per il Leghismo un interesse positivo, ma soprattutto che hanno sempre lavorato ai fianchi la magistratura con le critiche al “giustizialismo”. E a questo proposito credo che gli ultimi eventi, da Lusi a Belsito, debbano indurre qualsiasi persona di comune buon senso a ringraziare i magistrati perché senza di loro negli ultimi anni i cittadini italiani sarebbero stati munti e derubati da un ceto politico rapace e criminoso senza poterne essere informati. Possiamo deprecare le disfunzioni della magistratura e gli eccessi o gli errori di questo o quel magistrato, ma se non ci fosse stata una magistratura indipendente il marciume della Lega non sarebbe venuto fuori.

Del resto la prova provata è data dalla semplice osservazione che le inchieste sul segretario amministrativo Belsito sono state avviate dalle denunce di militanti della Lega e che il controllo interno in questo partito era nullo se persino Castelli, ex ministro della Giustizia e alto dirigente della Lega non riesce a farsi dare i dati del bilancio da Belsito e deve avviare una “inchiesta personale privata”. Come ex-ministro della Giustizia non aveva forse il dovere di denunciare lui Belsito? Vedete dunque che le porcherie e le soperchierie vengono scoperchiate solo dai magistrati, senza i quali probabilmente stando alle inclinazioni di alcuni militanti forse qualche “traditore, buffone” già penderebbe con un cappio al collo.

Sul piano delle singole persone non vi è dubbio che esiste un popolo leghista fatto di quello che una volta si sarebbe chiamato popolino, cioè di una classe media diffusa di artigiani, piccoli imprenditori, commercianti, professionisti, impiegati, anche pubblici, persone in genere che vivono (abbastanza bene) del proprio lavoro, non sono molto dedite alla cultura astratta e vivono in contesti poco inclini al solidarismo, e più pratici della sgomitatura che delle grandi visioni. Una cultura tipicamente particolar-familistica che vede come il fumo negli occhi i sindacati e gli impiegati pubblici, e quindi le imposte che li mantengono. E’ una cultura patriarcale e paternalistica facilmente preda di tendenze autoritaristiche, anche se poi si strombetta una ideologia autonomistica, che dalla libertà della Padania passa facilmente alla difesa del campanile. Un imprenditore del mio paese, sponda orientale del Lago Maggiore (se guardo fuori mentre scrivo, a 4 chilometri o poco più dall’altra parte del lago, vedo le case di Gemonio), molto buon conoscitore delle cose dal luogo e della base politica vera (democristiana e legata alla Chiesa, che il Cota ha ampiamente saccheggiato durante le elezioni) si è dichiarato “sorpreso” delle vicende bossiane perché gli esponenti della Lega che conosce sono persone oneste. Peraltro proprio qualche settimana fa mi aveva raccontato indignato di una somma di 300mila euro per la difesa del dialetto bosìno.

Una questione di dialetto

Qui si parla l’ossolano (altro dialetto lombardo orientale) ed è difficile far capire ai non lombardi che il bosìno è in genere oggetto di dileggio e riferito a mezzi montanari incolti, ma un po’ cialtroni. Sbruffone (baùsciamilanese) in bosino si dice pataveérta e gli ossolani dicono “Busitt, busiard, fals e bastard” dei loro dirimpettai che li guardavano attraverso le feritoie dei forti austriaci di Laveno, che ci sono ancora. Non so cosa dicono i bosìni degli ossolani o dei novaresi della piana, ma certamente qualcosa di altrettanto offensivo perché è tipico di questi localismi prendersela innanzitutto con i vicini. Parlare di “scuola bosìna” in Lombardia è un ossimoro mica da ridere, e il Renzo Bossi dovrà studiare una bella paccata di inglese prima di liberarsi del nomignolo di “trota” che si accompagna a una faccia che i miei conterranei ritengono lombrosianamente bosina come poche.

Se il merito di un leader politico è solo quello di creare consenso, occorre riconoscere che Bossi questo merito ce l’ha in sommo grado, occhi umidi e grida scalmanate di “Bossi Bossi” (ma anche ormai qualche fischio) e i “fino alla morte” a Bergamo confermano questa caratteristica specifica, obnubilante per la democrazia, di un partito dispotico che cerca di nobilitarsi chiamandosi “leninista”, qui non siamo nel leninismo, ma nella forma dinastica di Kim-il-Sung: rappresentanza del Nord, certo, ma del Nord Corea.

La vera offesa alla democrazia, e ne abbiamo visto tutti gli effetti devastanti nel clanismo di Gemonio, sta proprio in questa fiducia illimitata che il popolo leghista ripone nel suo capo e che sfida ogni controllo e ogni critica e che, come ha ripetutamente spiegato Amartya Sen (ma anche qui sono voci che nella cultura leghista non entrano, probabilmente considererebbero Sen un “negher”) non è neppure efficiente, perché il capo avvolto nella coperta del culto della personalità, cucitagli addosso dai sicofanti della sua corte, non sente più le voci del suo popolo e il giornalista che osa far domande viene bruscamente ridiretto a “parlare con i compagni”. Si parla di “base” leghista e mai termine fu più appropriato perché questi militanti sono proprio lì a far da base per il monumento di una persona. Possono anche gridare e starnazzare ogni tanto, ma chi prende i soldi e le decisioni è solo uno, con i suoi famigli. Togli il monumento e la “base” non sa più cosa deve fare. Per questo sono lì tutti a tenerlo in piedi, anche Maroni che volentieri gli staccherebbe un orecchio a morsi, deve far finta di baciarlo, il Bossi. Ma ovviamente il monumento si è arrugginito e infracichito , alquanto: è come la grande statua di ferro di Kamehameha il grande re delle Hawaii (ritenuto responsabile della morte di Cook), fusa dallo scultore americano Thomas Gould a Firenze, e affondata durante il trasporto in mare.

Gli Hawaiani ne ordinarono una seconda che sta a Honolulu sull’isola di Ohau, ma dopo molti decenni la statua originale venne ripescata dal fondo del mare in condizioni che si possono immaginare e posta nel villaggio natale di Kameameha, a Kapa’Au nel distretto di Koala di Big Island, dove di recente per due anni il grande restauratore Glenn Wharton, la rimette pazientemente in sesto con la partecipazione degli abitanti che la ricoprono di post-it e santini trasformandola in un oggetto di culto. Forse dovremmo fare così anche noi, togliamo le plumbee statue di quella buffonata di Alberto da Giussano, che non è mai esistito, ed erigiamone una a Bossi, che se la merita, dove i militanti possano appendere i loro ex voto. E credo che la statua sarebbe la sola cosa cui Bossi può ragionevolmente aspirare perché al di là delle belle parole, “restiamo uniti”, dopo le vicende del clan di Gemonio, a Bergamo è cominciata la disunione, come sempre avviene quando un sistema si disgrega.

Durerà la Lega? La Lega “dura e pura” di Bossi è già finita, affondata nel fango e nel ridicolo. E se alcuni militanti fanno finta di niente i dirigenti lo sanno bene ed è già cominciato il balletto dei riposizionamenti. Il “leghismo”, invece, (meglio già pensare a le Leghe) ha sicuramente una militanza abbastanza diffusa che lo choc di Gemonio ha attivato, e oggi può contare anche su una rete di posti di potere e quindi di capacità di scambio: tanto che è già partita la partita dei lunghi coltelli per dividersi il bottino. Ma la vera forza della Lega era il patto di ferro tra Berlusconi e Bossi, un patto basato su un sincero sentimento di amicizia oltre che su un calcolo razionale elettorale, che diede vita vita a un’altra di quelle inseparabili coppie dello sberleffo, come Gianni e Pinotto o Stanlio e Olio. Bossi aveva realizzato con grande successo il progetto craxiano: con non molti voti di più di quelli del PSI di Craxi, si era legato a Berlusconi in modo determinante e aveva cominciato a mungere il paese, facendo ingoiare ai propri seguaci l’odiato Berlusconi (fino a una certa data a Gemonio, patria del Bossi, sul muro della cartiera Soffrici-Binda, un bel 100metri di muro, proprio di fronte al semaforo del bivio da Laveno, c’era scritto “Berlusconi terrone “) con la carota del federalismo. E’ stato uno dei colpi politici meglio riusciti del lungo XX secolo.

Questo sistema è crollato e sta ancora andando a pezzi sotto i nostri occhi: Berlusconi, Tremonti, il Bagaglino, Sgarbi, Emilio Fede, la Santanché, persino Alberoni sul Corriere, e pezzi più sostanziosi come Bertolaso, Anemone, Brancher, Geronzi, Scajola e ora Bossi, il figlio, Reguzzoni, Rosi Mauro, Vicepresidente del Senato, Monica Brizzi, Assessore regionale, il Formigoni che governa con una maggioranza che sembra l’elenco degli invitati a cena a San Vittore l’elenco è lungo e si allunga. Senza questo blocco storico la Lega è destinata a rimanere uno dei vari partiti di protesta populistica, ma sarà obbligata a contendere il terreno questo terreno a Grillini, IDV, SEL e altri partitini, senza molte possibilità di ricostruire grandi blocchi maggioritari se non in alcune ristrette aree.
E’ molto probabile che senza un Bossi a tenerle assieme le diverse anime, anche regionali, della Lega si dividano e, oggi, pare che Bossi stesso faccia un passo ulteriore verso la secessione dei Gemoniesi (La Stampa, 15 Aprile), decisione che affosserebbe definitivamente ogni velleità o “vocazione” maggioritaria di qualsiasi brandello della Lega. Gli slogan sembrano ancora forti, ma nella serata di Bergamo si è sentito un bel po’ di “whistling in the dark”. Borghezio che grida siamo qui perché vogliamo una “Lega con i coglioni che faccia il culo alle merde di Roma” suona forte, ma fa solo pena dopo anni di governo a Roma in posti chiave come il Ministero degli Interni, della Giustizia, delle Riforme, della Semplificazione burocratica, da cui sono nati solo guai, anche nei settori preferiti dalla Lega come le risorse ai comuni o il controllo dell’immigrazione. Anche il linguaggio, salvo quello di Borghezio, che è ripetitivo come quello di una bambola rotta, ha perso lo smalto populista di un tempo. Ascoltando uno come Andrea Gibelli (Rai 2 “L’ultima parola”, coordinato da Luigi Paragone, Venerdì 13 Aprile 2012) ti rendi conto che il politichese di DC e PCI era al confronto una forma letteraria raffinata: il politichese di Gibelli è un pastrocchio incomprensibile di qualcuno che, oltre a poche e confuse idee, ha a disposizione un dizionario estremamente limitato.

Maroni come D’Alema

Forse la Lega continuerà a essere il giocattolo dei media nei suoi aspetti pittoreschi: sono gli uomini dei media ad averne bisogno e ne abbiamo avuto un esempio davvero ai margini del plausibile con l’intervista alla Signora Ida Mauri mostrata a In Onda e osannata, con l’assist esterno di Sallusti, come uno scoop comparabile a una intervista a Greta Garbo sul letto di morte. Poche battute da una qualsiasi signora bosìna che dice le prevedibili banalità su “ quel bravo fioeu”, dell’Umberto (o scarrafone è bello a mamma soia) con le raccomandazioni che ogni vecchia madre fa al figlio di mettersi tranquillo, fatte passare come lo statement politico del guruJames Carville di Our Brand is Crisis (2005).

Certamente ancora per un po’ i media giocheranno sul grottesco di un partito che, partendo dalla antipolitica è arrivato a un politichese surreale; che volendo la democrazia dal basso ha praticamente dato vita a una teocrazia; che predicando il rinnovamento ha rispolverato tutto il ciarpame ottocentesco possibile, compreso il dialetto bosìno: che celebra l’ampolla del dio Po o il matrimonio celtico, ma poi va a messa la domenica a Varese; che disprezza i sindacati, ma poi se ne inventa uno finto; che odia gli immigrati, ma affronta senza battere ciglio l’ignominia di intestare a dei poveracci extracomunitari i telefoni segreti dei suoi capi (La Stampa,14 Aprile 2012, p.9) e che, come ha icasticamente detto un militante intervistato al volo, “a furia di gridare “Roma Ladrona!” hanno imparato a rubare anche loro”.

Difficilmente, credo, questa Lega potrà incantare molti elettori vecchi e nuovi. Il sogno di Maroni di una Lega “primo partito del Nord” è basato sul calcolo opportunistico che ha tenuto la Lega fuori dall’appoggio al Governo Monti, puntando a interpretare gli inevitabili scontenti di questa fase, ma dubito che riuscirà a scaldare molto gli animi e comunque si troverà molti competitori per il voto di quest’area, a partire da Grillo, compreso il più temibile di tutti, l’astensione. Maroni è un po’ come D’Alema nel PD (con cui tra l’altro condivide il nomignolo, l’uno “baffino” e lui “baffetto”) molto abile nella politica politicante e nelle frecciatine a mezza bocca, ma scarsamente magnetico per la simpatia: è abbastanza difficile che riesca a trascinare le piazze, con quella faccettina da bosìno furbacchione.

Si è detto che la mancanza di un partito come la Lega farà venire meno la rappresentanza politica di un ceto sociale importante, o e persino di tutto il Nord, ma questa è più che altro una invenzione dei molti intellettuali e sociologi, veri o finti, che a volta a volta si sono commossi per la Lega o hanno cercato di influenzarla, a partire da Miglio che si è beccato l’appellativo di “scorreggia nello spazio”, anche se poi qualcuno l’ha recuperato nel Pantheon perché qualche nome bisogna pure avercelo. Ma nell’universo “bosino” o “brembano” o “brianzeou” dei vari Bossi e boss leghisti, gli intellettuali sono proprio solo questo, e non vengono neppure onorati degli stivali di Mussolini, ma solo perché i tempi sono cambiati e gli stivali non si portano più.

Il punto fondamentale è che la Lega, al suo popolino (nonostante tutto sempre minoritario, salvo aree ben circoscritte) che l’ha votata, non ha offerto affatto rappresentanza ma solo rappresentazione mediatica. Il progetto reale che avrebbe dovuto rappresentare il Nord, cioè il federalismo fiscale era già fallito, morto e sepolto con le leggi fatte mentre la Lega era ancora al governo. Ma lo spettacolo che veniva rappresentato era Calderoli che bruciava inesistenti provvedimenti, e noi pagavamo anche i soldi per il fuoco. Il vero genio mediatico del berlusconismo non è stato Silvio, ma Umberto: non possiamo negare che sia stata una bella gara al Guinness della stronzata, ma Bossi è stato più creativo perché si poteva permettere di essere più volgare, più sfrontato, più oltraggioso, di un Berlusconi, che un poco doveva sacrificare ai vestiti di Caraceni (finto) e al “mi consenta” di prammatica.

E Bossi ha giocato tutto sulla sfrontatezza da istrionesco sbruffone, disponibile a qualsiasi affermazione o gestaccio oltraggiosi, pur di richiamare l’attenzione, impersonando senza vergogna e con grande talento quel tipo che a Milano si chiama balabiott e in bosìno pataaveérta, il fanfarone inverecondo. Ma né dall’uno né dall’altro di costoro il mitico Nord ha ricevuto alcunché, se non una rappresentazione volgare e falsata di una regione favolistica chiamata Padania, che c’è solo quanto a inquinamento atmosferico. E buona parte del successo della Lega, nonostante le pretese contrarie, è dovuta alla circostanza che, per una ragione o per l’altra, o per opportunismo come i berlusconiani, o per gli affaretti come per i ciellini, o per elucubrazioni astute come per i dalemini, o per generico preteso anticonformisto come è avvenuto per non pochi intellettuali, ma sopratutto per legioni di addetti allo spettacolo mediatico, molti, moltissimi, invece di ribellarsi sempre e comunque alla volgarità populistica, hanno ridacchiato, e si sono mescolati alla platea sghignazzante o plaudente pensando che tanto “’a nuttata” sarebbe passata. E’ passata sì, ma il buio è rimasto.

 

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