Quello che la chiesa dovrebbe imparare dalle donne

I recenti scandali sulla pedofilia che hanno colpito sacerdoti cattolici e i loro vertici hanno indicato la necessità di porre al centro del dibattito pubblico – oltre che all’ordine del giorno nei dibattimenti giudiziari – una questione che era stata finora nascosta e sottaciuta come apparentemente «privata». Il problema si è invece rivelato eminentemente collettivo, se non altro a nome delle vittime. La violenza sessuale provoca infatti ferite indelebili non solo nel corpo, ma soprattutto nell’anima: si prolungano nel tempo e ledono per sempre l’identità e l’autostima. La dolorosa vicenda della pedofilia riporta quindi alla luce due rimossi della Chiesa cattolica, che nel recente dibattito non sono stati appieno trattati: l’importanza della sessualità e la centralità della donna.|

Tali «dimenticanze» hanno contribuito a mostrare ancor più certi limiti della struttura patriarcale e alcune colpevoli connivenze su cui si fondano gerarchie ecclesiastiche e che hanno determinato la sua attuale crisi sistemica. La Chiesa non è certamente inconsapevole di tali difficoltà, tant’è che in modo più o meno velato alcuni giornali e blog cattolici hanno cominciato a trattare tali temi spinosi.

Nel ricordare la festa della donna, lo scorso 11 marzo l’«Osservatore Romano» ha pubblicato un contributo di Lucetta Scaraffia su Donne e uomini nella Chiesa di oggi. Una collaborazione antica e nuova. In tale intervento, Scaraffia si chiede se, «nelle dolorose e vergognose situazioni in cui vengono alla luce molestie e abusi sessuali da parte di ecclesiastici su giovani a loro affidati, possiamo ipotizzare che una maggiore presenza femminile non subordinata avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti». A tale quesito, l’autrice sembra rispondere positivamente, riconoscendo che «la partecipazione (femminile), che pure si è significativamente ampliata, si è mantenuta quasi sempre al di fuori delle sfere decisionali e degli ambiti di elaborazione culturale». Tuttavia, la necessità di una maggiore apertura alla partecipazione femminile «non è solo un problema di giustizia sociale, di pari opportunità», ma di una più condivisa concezione del rapporto fra uomini e donne.

Al proposito, Scaraffia porta due esempi: da una parte menziona l’enciclica Mulieris dignitatem, dove «Giovanni Paolo II ha ricordato come alle donne debbano venire attribuiti ruoli di eguale importanza», mentre dall’altra riferisce l’esperienza di Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo ordine missionario che alla fine dell’Ottocento creò una congregazione di missionarie perché convinto che «le religiose erano più tenaci e si inserivano più facilmente nelle culture diverse» e che la loro presenza avrebbe aiutato i missionari «a mantenere un comportamento corretto, e soprattutto avrebbe loro impedito di infrangere il voto di castità».
Scaraffia ha indubbiamente il merito di introdurre tali questioni nel dibattito cattolico, utilizzando l’organo ufficiale della Santa Sede. Tuttavia, la sua proposta risulta essere poco soddisfacente, a partire dalle mancate voci delle dirette interessate, dovendo ricorrere a interpretazioni, seppur autorevoli, di un papa e di un missionario. Ma a parte ciò, quello che non è convincente è l’impostazione generale dell’autrice. Infatti, Scaraffia sostiene che il beneficio di una maggiore presenza delle donne sarebbe dovuto a ciò che di meglio sanno essere e fare, sulla base di una loro presunta «natura». Ma siamo sicuri che le donne sono sempre maggiormente caste e meno soggette a tentazioni, oppure ci possono essere variabili culturali?

Nelle attuali società multiculturali, sempre più differenziate in stili di vita, valori e identità, tali affermazioni sono difficilmente generalizzabili a livello psico-sociale e antropologico. Scaraffia sembra inoltre fondare le proprie tesi su argomenti utilitaristici (se ci fossero le donne ci sarebbero meno danni) ed essenzialistici (sarebbe meglio perché le donne sono più etiche e altruistiche), senza però cogliere ciò che farebbe davvero la differenza nelle dinamiche ecclesiastiche. Sebbene non si tratti solo di giustizia redistributiva o di quote, come del resto afferma la stessa Scaraffia, tuttavia alla fine l’autrice sembra contraddirsi, ricorrendo a una soluzione quantitativa (più presenza femminile perché è meglio). In tal modo, lascia però completamente irrisolta la questione su come si possa di fatto costruire una diversa qualità nella cooperazione fra uomini e donne, nel pieno dispiegamento delle loro capacità e volontà. Il vero motivo che impedisce una «presenza femminile non subordinata», ovvero una «parità» fra uomini e donne, è infatti il mancato riconoscimento del valore della reciproca sessualità. Solo a partire dallo scioglimento di tale nodo ci potrà essere una diversa, più libera e più equa rappresentazione di uomini e donne nell’arena pubblica e nella vita privata, reciprocamente coinvolti con pari dignità nella gestione dei compiti assunti, compresi quelli religiosi.

La questione principale non riguarda infatti solo pari responsabilità nella gestione della Chiesa, condivisione della consacrazione o amministrazione dei sacramenti. Riguarda piuttosto quel «fondamento» che determina la singolarità di uomini e donne: il pieno dispiegamento della corporeità e l’accettazione della sessualità come componente imprescindibile dell’essere umano. Per tal motivo, la tragedia della pedofilia non va confusa con la tematica dell’omosessualità nella Chiesa.
Se la sessualità non viene menzionata nell’intervento di Scaraffia, tale problematica viene affrontata con chiarezza in altri luoghi del dibattito cattolico. Si vedano ad esempio alcune note pubblicate sul blog «Il Landino» (www.landino.it), un sito creato da sostenitori del cattolicesimo sociale, che prende il nome da una sala del monastero di Camaldoli, dove sono soliti riunirsi. Rispondendo in parte alle tesi di Scaraffia, in un intervento dal titolo Se nella Chiesa il carisma della donna è ancora il silenzio pubblicato il 17 marzo 2010, Teresa Bartolomei sottolinea come il proibizionismo e la «rimozione paternalistica, “sessista” della Chiesa ipotechi il senso autenticamente umano della morale sessuale cristiana». L’etica sessuale, procreativa e familiare, scrive Bartolonei, «predicata dalla Chiesa resta così radicata in un sistema culturale e in una struttura di potere sociale oltrepassati in un’epoca come la nostra, in cui le domande sulla vita buona vengono formulate unicamente nell’orizzonte categoriale dell’autenticità e dell’autonomia personale». Pertanto, «non si può insegnare oggi ai nostri figli la bellezza e la fecondità esistenziale della castità, se questa viene loro presentata come mortificazione delle pulsioni corporee». Ed è proprio nel mutato quadro delle identità individuali/ collettive e delle concezioni della vita buona che va ripensata la castità, senza mortificazioni: «quello di cui ha bisogno la Chiesa non sono celibi che fanno a meno delle donne, non sono vergini che rinunciano alla sessualità, ma sono uomini e donne che, fianco a fianco, si mettono in gioco nella loro dualità come interdipendenza del diverso, come incontro necessario tra i due volti dell’umanità. Il carisma della donna dentro la Chiesa non è il silenzio», conclude Bartolonei. Solo trattando apertamente tali questioni, la Chiesa potrà affrontare adeguatamente non solo i propri scandali (sessuali e finanziari), bensì il proprio futuro.

In effetti, la Chiesa ha perpetuato il patriarcato attraverso la  adicalizzazione della tradizionale dicotomia fra pubblico e privato, al di fuori e all’interno della Chiesa. Si guardi tanto al controllo della sessualità femminile nelle politiche familiari, quanto al modo in cui l’importante ruolo sociale svolto dalle suore in diversi paesi del mondo viene svilito a semplici faccende domestiche, assumendo i connotati di un lavoro privato e nascosto, a cui viene negato quel valore che gli consentirebbe di essere riconosciuto appieno nell’ambito decisionale della politica gerarchica.
Del resto, l’errata concezione della dicotomia fra pubblico e privato è stata alla base dell’omertà sugli abusi sessuali (ridotti a panni sporchi da lavare in casa), mentre la sua critica è stata il baricentro di quella che è forse considerabile come la maggiore rivoluzione (ancora in corso) del Novecento: il movimento delle donne con la conseguente rivendicazione di diritti e doveri individuali e collettivi. Le donne non hanno infatti solo chiesto l’ottenimento della piena cittadinanza e la parità negli ambiti lavorativi. Hanno piuttosto richiesto il riconoscimento in toto della loro corporeità, identità inter-soggettiva e sessualità, ridotta a non semplice veicolo per fini procreativi. Le donne hanno cioè preteso di «avere voce in capitolo».
Nel recente dibattito, le parole più ricorrenti sono state invece: silenzio e omertà. C’è infatti chi parla, ma non è sentito; chi sa ma non parla. Ci sono le voci delle vittime e delle donne che non sono ascoltate; ci sono le rimozioni di chi ha udito ma non ha denunciato. Assieme alle voci, i corpi vengono negati.

Eppure, l’immagine e la realtà del corpo fisico e sofferente hanno una centralità nella tradizione cristiana. Nella sua missione e passione, Gesù Cristo racchiude e rappresenta in sé la natura tanto maschile, quanto femminile. Nel corso dei secoli, tale corpo è stato invece trasfigurato in un soma unicamente maschile o in un corpus mysticum che rappresentava il potere politico divino sulla terra. San Paolo, soldato romano abituato a strategie di conquista, dà alla Chiesa quell’ordine organizzativo, quell’impianto razionalistico e quella struttura precettistica senza i quali il potente ma impalpabile messaggio cristiano d’amore universale non avrebbe mai potuto avere futuro. E in tale organizzazione originaria vi sono tutti i limiti e i pregiudizi che indurranno nel corso del tempo la Chiesa ad assumere un’interpretazione mono-sessuale ed esclusivistica del proprio cammino. «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia» (San Paolo, Nuovo Testamento, Lettere di San Paolo, Prima Lettera a Timoteo).

L’attuale crisi può trasformarsi nell’occasione per una rinascita, a patto che la Chiesa sappia rimuovere i propri tabù, riconoscere le proprie colpe e ricominciare con ruoli e responsabilità condivise fra uomini e donne. Il suo potere è stato di fatto costruito su un’anomalia, non ravvisabile nel resto dell’universo. «Uomo, sai essere giusto? È una donna che te lo domanda: non vorrai toglierle questo diritto. Dimmi, chi ti ha dato il sovrano potere di opprimere il mio sesso? La tua forza? Le tue capacità? Osserva il creatore nella sua saggezza […]; arrenditi all’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, scava e distingui se puoi, i sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque tu li troverai confusi e cooperanti nell’insieme armonioso di questo capolavoro immortale. Soltanto l’uomo ha fatto di questa eccezione un principio. (Olympe De Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, 1791). Sono le parole di colei che qualche anno dopo sarà ghigliottinata durante il Terrore robespierriano, non solo perché girondina, ma perché credeva nella pari dignità delle donne, ovvero in un’idea che sembrava essere troppo rivoluzionaria per gli stessi rivoluzionari illuministi. La sua domanda radicale sull’anomalia del dominio patriarcale è per noi ancora motivo di riflessione e di azione. Proprio perché, a oltre due secoli dalla sua formulazione, non ha ancora ottenuto una piena e convincente risposta.

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