Come salvare le primarie e rinnovare i partiti

Se la politica arriva a fare qualcosa di completamente contrario alla propria natura – darsi dei limiti, e addirittura ritirarsi dal terreno già occupato – vuol dire che persino essa si è resa conto di non essere capace di giocare il suo stesso gioco: è quello che è successo con il governo Monti e la clamorosa resa dei politici ai ‘tecnici’.

Per i partiti, che sono la forma attuale della politica istituzionalizzata, la situazione è drammatica: la fiducia in essi è al minimo storico (4% dei cittadini secondo l’ultimo sondaggio Demos), e la partecipazione ad essi (le iscrizioni) in crollo verticale. Il Pd, che è il partito con più iscritti, contando solo quelli veri o quasi, ne ha persi oltre il 25% solo dal 2009 al 2010 (da 830.000 a 620.000), ed è in calo ulteriore (tralasciamo ogni considerazione sul fatto che una qualsiasi azienda che perda oltre un quarto del suo mercato in un anno farebbe una seria riflessione sia sui suoi prodotti che sui suoi dirigenti). Ne aveva 770.000 solo il Pds nel ‘92, e 550.000 solo i Ds nel 2003. Mentre il solo Pci ne aveva oltre 2 milioni nel 1946, 2.250.000 nel ‘47, e poi è stato sempre in calo, a dimostrazione del fatto che si tratta di una tendenza lunga: che di recente ha tuttavia avuto delle accentuazioni drammatiche.

La cosa non riguarda solo il Pd. La Lega ne dichiarava nel 2010 130.000, Italia dei Valori 95.000, Sel 45.000. Il Pdl è impossibile da quantificare: all’inizio del 2011 ne dichiarava poche decine di migliaia, ammettendo, in regioni in cui è forte, come la Lombardia, di avere più eletti che tesserati; poi, miracolosamente, a fine ottobre, dopo aver moltiplicato pani, pesci e tessere, ne dichiarava, nell’anno in cui maggiormente è stato infangato e travolto dagli scandali, e in cui ha poi perso il governo, la bellezza di 1.200.000, praticamente in controtendenza con il mondo intero; e ora, congresso dopo congresso, denuncia dopo denuncia, mostra quanto la crescita di volume, come per certe carni e certi prosciutti, fosse dovuta più a iniezioni di estrogeni e di acqua che non a sostanza vera.

In totale, gli iscritti ai partiti (non tutti veri nemmeno altrove, e con differenze tra nord e sud – a favore del sud – quasi ovunque troppo macroscopiche per non essere sospette, poco legate al puro interesse e passione per la politica) sono una modesta minoranza, in calo continuo e inarrestabile. Mentre lo spazio della politica, fuori dai partiti, è cresciuto ampiamente: anche rubando il mestiere alla politica sul suo proprio terreno (si pensi, tra le altre cose, ai referendum). Non solo è vero, come si diceva ai tempi della scoperta dei movimenti, che non tutto il politico è partitico: ormai il grosso del politico non è (più) partitico. Peraltro, si tratta di una tendenza di tutto l’occidente, ed è dovuta a molte ragioni, legate anche allo sviluppo della società, alle tecnologie, alle forme diverse di stratificazione e conflitto sociale, e a tanto altro ancora.

Viceversa, nei partiti si fa sempre meno politica: organigrammi molti, strategie di collocamento personale anche, idee molte meno. Basta entrarci, in una sezione, o in un circolo, e tipicamente del Pd: il numero diminuisce, l’età media si innalza drammaticamente. Ciò che ci da’ un’altra informazione, che non è solo quantitativa, ma significataviamente qualitativa. Il Pd non solo perde iscritti. Ma quelli che perde sono soprattutto gli appartenenti alla ‘terza gamba’: quelli che non erano né Pci-Pds-Ds né Dc-Popolari-Margherita. Perde insomma i democratici puri, quelli che si sono iscritti al Pd perché credevano in un partito nuovo e diverso, e non avevano appartenenze e fedeltà (e inerzie di pensiero) precedenti: la parte più innovativa e dinamica, spesso più giovane, meglio inserita nelle professioni, più a contatto con il mercato, più internazionalizzata, più meritocratica anche, perché abituata a confrontarsi, nella globalizzazione, con la concorrenza di altri paesi più dinamici.

Senza di loro, il Pd può restare un partito forte, che mantiene un peso significativo negli equilibri politici del Paese, ma perde centralità elaborativa e propositiva, e non è (più) il perno di uno schieramento riformatore: anzi, sarà sempre più spesso un (necessario) soggetto conservatore. Per usare un esempio di immediata comprensibilità: come il sindacato.

La perdita di iscritti è in parte anche dovuta alla modalità di fare politica
, al tipo di riunioni, alla ritualità, al modo di affrontare gli argomenti (e agli argomenti stessi), alla lunghezza degli interventi, ecc. Il mondo è cambiato, si vive e lavora e usa il tempo in maniera diversa, ma le riunioni di partito non sono cambiate. Per forza non ci si va più. I partiti hanno cambiato nome: ma le loro pratiche sociali sono rimaste le stesse. E, purtroppo, i loro dirigenti anche. Con quale credibilità possono proporsi come attori del cambiamento?

Si illudono, peraltro, coloro che nel Pd gongolano perché tutti i sondaggi lo danno tuttora come primo partito. Intanto perché il primo partito è quello del non voto, in continua e rapidissima crescita. In secondo luogo perché quelle espresse sono le intenzioni di voto ad oggi: domani, dopo la fine del governo Monti, con un quadro politico completamente trasformato e terremotato, niente sarà più come prima, nemmeno l’offerta partitica. E terzo perché, se il Pd non ritrova – e ha poco tempo e poche occasioni, ancora – la spinta riformatrice e la capacità aggregativa, una parte delle intenzioni di voto cambieranno.

Le primarie come controtendenza

Nonostante tutto questo, il Pd è riuscito nel miracolo di attrarre e mobilitare elettorato al di là del voto. Ma non con l’iscrizione: con le primarie. Parliamone, dunque: perché sono centrali. Il Partito Democratico ha il merito storico di aver introdotto le primarie in Italia: un metodo nuovo, efficace (e per questo contrastato) di selezionare il ceto politico e la classe dirigente al di là delle alchimie partitiche e della cooptazione. E’ un merito del Pd e non di altri, né più a destra né più a sinistra. Ma ha il difetto di non aver ancora imparato a gestirle: che non significa controllarle, ma al contrario ritirarsi dalla scena, offrirsi solo come mezzo, e accettarne l’esito, fin dall’inizio della gara, non solo a risultato acquisito.
Quello che il Pd deve ancora capire infatti è che alle primarie non deve avere alcun candidato: né uno come a Palermo (per giunta insieme a Idv e Sel, corresponsabili del risultato), né due come a Genova, ma zero. Deve semplicemente accettare l’esito delle urne, quale esso sia: quello scelto sarà comunque il candidato più popolare, attrattivo e rappresentativo, e quello che avrà maggiori possibilità di sconfiggere il candidato avversario alle elezioni.

Tre regole per le primarie

Semmai, sarebbe utile trarre dalle ultime vicende qualche lezione, che potrebbe valere per le prossime primarie. Tutte: quelle per i candidati sindaci, ma anche quelle (che molti non vogliono) per decidere i candidati alle politiche, e i candidati consiglieri comunali e regionali. L’associazione CollegaMenti ha proposto alcune linee guida di regolamento per le primarie (leggibili su www.collega-menti.it), che ha inviato al segretario Bersani e agli eletti del Pd, basate su tre caposaldi.

Numero uno: si voti con il doppio turno, la modalità di voto più popolare (è quella che usiamo per le elezioni comunali) e che ha dimostrato di produrre la maggiore capacità di coinvolgimento e persino di entusiasmo per la politica. Questo consentirebbe di far partecipare chiunque abbia un minimo di consenso al primo turno, riducendo tuttavia la partita, al ballottaggio, ai due candidati migliori. Il massimo della democraticità e dell’efficacia insieme. E’ il sistema che è stato adottato anche per le primarie nazionali francesi, a imitazione del loro sistema elettorale, ed ha avuto un successo strepitoso. Naturalmente, al secondo turno potrebbero votare solo coloro che portino con sé la ricevuta che attesti il loro voto al primo turno, per evitare intrusioni e tentativi di orientamento del voto.

Numero due: primarie (davvero) aperte. Si voti senza regolamenti che cercano di chiudere la partecipazione ai prescelti dalle gerarchie di partito. Primarie aperte, libere, davvero contendibili. Che non rendano impossibile l’emergere di personalità forti ma marginali o marginalizzate, o semplicemente nuove e autenticamente di base, di chi si sente chiamato e pronto ad un ruolo, di contenuti innovativi, e rendono possibile solo la scelta eventuale tra candidati già predecisi al vertice, o che controllano meglio gli iscritti, le risorse, gli indirizzari… Così si riproduce il vecchio, non si immagina – e alla fine nemmeno si governa – il nuovo. Quindi, una quantità ragionevole di firme da raccogliere tra l’elettorato, apertura di tutti i canali di comunicazione di partito a tutti i candidati in maniera paritaria e neutrale, e un po’ più di fiducia nel popolo di centro sinistra: che del resto, in questi anni, ha dimostrato di azzeccarci, spesso, assai più dei suoi rappresentanti, sia quando ha scelto candidati esterni sia quando ha scelto candidati interni. E vinca il migliore.

Numero tre: si applichino, tra i partiti della coalizione, i requisiti di parità di genere. Evidentemente non si può pretendere che i candidati siano di entrambi i generi, anche se si può auspicarlo e favorire l’emergere di candidature femminili, in molti modi. Ma c’è qualcosa che si potrebbe fare, da subito, per favorire il processo di rappresentanza paritaria, o, come preferiamo chiamarla, una democrazia paritaria. Cominciare ad applicare all’interno del Pd, e chiedere di farlo agli altri partiti della coalizione, i requisiti di parità di genere, in tutte le elezioni di cariche interne, ma anche nelle primarie per eleggere i candidati in lista: quindi metà candidati donna, rigorosa alternanza di candidati e candidate nelle liste, e magari anche doppia preferenza. Cominci il Pd ad essere coerente al proprio interno: e i candidati donna si moltiplicheranno da soli. Ci sono già, hanno già le competenze, e la determinazione necessaria. Mancano solo gli spazi: apriamoli.

Primarie sempre e dovunque

Si facciano primarie per tutte le elezioni. Laddove c’è un candidato unico (segretario di partito, sindaco, presidente di regione, candidato primo ministro) per sceglierlo. Laddove si tratta di mettere candidati in lista (consiglio comunale, consiglio regionale, parlamento) per scegliere chi e in che ordine (rispettando le regole della democrazia paritaria).

In questo modo le primarie diverrebbero un formidabile meccanismo di rinnovamento e selezione delle classi dirigenti, e un servizio alla società e ai partiti stessi, che ne capitalizzerebbero il consenso, oggi, come si è visto, ridotto ai minimi storici. Del resto, per come stanno le cose oggi – non solo a causa di un nefasto sistema elettorale, che ha solo incancrenito un male antico – si selezionano gli amici degli amici, i fedeli alla linea anziché gli innovatori, i funzionari invece degli attori sociali, i sottomessi della cooptazione anziché i coraggiosi dell’autocandidatura, che hanno la virtù di metterci la faccia invece di nascondersi sotto quella del partito. E poi, diciamocelo chiaramente: non è che senza le primarie le cose siano andate meglio, per cui c’è da essere nostalgici del buon tempo andato.

Se poi si volesse essere davvero coraggiosi, e credere in un disegno esso stesso coraggioso e innovatore, perché non proporre questo metodo con una legge nazionale, valido per tutti i partiti? Il paese (inclusi gli iscritti ai partiti) è arcistufo delle oligarchie partitocratiche dominanti: chi lo proponesse ne canalizzerebbe il consenso e la simpatia.

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