DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

“Sono tornato in Cile dopo 20 anni e ho trovato un paese nuovo”

SANTIAGO. Sono tornato in Cile dopo venti anni. Ho trovato un paese profondamente cambiato, orgoglioso dei passi in avanti compiuti dal punto di vista democratico (lo testimonia un bellissimo museo della memoria che con sobrietà e senza retorica documenta le atrocità della dittatura di Pinochet). Un paese consapevole dei cambiamenti necessari dal punto di vista economico e sociale, ben diverso da come viene dipinto da inamovibili cliché populisti, specie da chi non è disposto ad accettare che una delle economie più liberali al mondo abbia comunque reso possibile – grazie agli accorti interventi dei governi di centro-sinistra della Concertación (1990 e il 2009) che hanno evitato fughe in avanti non mature sul piano politico – un palpabile miglioramento delle condizioni generali del paese.

Il modello liberista dei Chicago boys ereditato da Pinochet è stato progressivamente corretto dalla solida alleanza tra socialisti e democristiani, che ha così consolidato le premesse per garantire diritti sociali attesi e ora richiesti dalla maggioranza dei cileni. Quei diritti (salute, istruzione, pensioni) per i quali si è impegnata nella recente campagna elettorale la socialista Michelle Bachelet a nome dell’ampia coalizione (socialisti, democristiani, radicali, e, per la prima volta, comunisti) che ha stravinto le elezioni.

Ma vediamo per punti.

Il PIL cileno è cresciuto, dal 2010 in avanti, del 5.8 circa ogni anno. Il miglior risultato dell’America latina. Oggi il Cile è il primo nella classifica dei paesi latinoamericani in base all’Indice dello Sviluppo Umano calcolato dalle Nazioni Unite. La disoccupazione è sotto il 7% e migliaia di stranieri entrano nel paese attratti da nuove possibilità di lavoro. Soprattutto peruviani e boliviani per i lavori manuali; ma anche europei, in particolare spagnoli, per le attività professionali di medio e alto livello. La povertà, che era del 40% con Pinochet, è stata ridotta al 13% grazie, spiega Jose Antonio Viera-Gallo – uno dei protagonisti della vita politica cilena dopo Pinochet (è stato tra l’altro il primo Presidente del Congresso dopo la svolta democratica e ministro della Presidenza con la Bachelet) – “all’effetto congiunto della forte crescita e delle politiche sociali del centrosinistra”

Il boom cileno è stato favorito – sostiene ancora Viera-Gallo – da due fattori: “l’apertura ai mercati internazionali (UE, USA, Cina, Russia …) realizzata dai governi di centrosinistra; l’acquisto massiccio di rame (di cui il Cile resta il primo produttore mondiale) dalla Cina che assorbe circa la metà della produzione globale del minerale e che ha consentito gli alti prezzi degli ultimi anni”. Punto di forza ma anche punto di potenziale debolezza per via del peso globale del rame (superiore al 40%) nelle esportazioni cilene. Numerosi osservatori ritengono probabile un ridimensionamento della crescita cinese e quindi una riduzione delle importazioni di rame nei prossimi anni. Un problema serio che dovrebbe spingere il nuovo governo ad avviare una politica di diversificazione produttiva con lo sviluppo della piccola e media impresa nell’industria e nei servizi.

In Cile è palpabile quanto siano ampie le attese per la seconda presidenza Bachelet. Vasti settori popolari e giovanili attendono con impazienza l’avvio a soluzione di questioni sociali primarie – salute, pensioni, istruzione – tuttora in buona parte affidati al reddito delle famiglie. La vera sfida per le forze che tornano al governo dopo i quattro anni di presidenza di destra, sta proprio qui. Si tratta di sperimentare un passaggio non traumatico della “settima economia più libera del mondo”, secondo la classifica della Heritage Foundation, a un modello di sviluppo dove lo Stato interviene per ridurre le disuguaglianze sociali. “Il reddito medio del 10% dei cileni più ricchi è tuttora pari a 14 volte di quello del 10% più poveri” – mi spiega Josè Antonio Viera – Gallo – “e con l’attuale sistema tributario la disuguaglianza relativa di reddito è la stessa prima e dopo le tasse”. L’interrogativo è cruciale: riuscirà il nuovo governo Bachelet a consolidare la politica fiscale per cui si è impegnata in campagna elettorale senza suscitare la sempre possibile reazione negativa delle forze del mercato? Un successo in questo campo,senza dubbio, sarebbe un risultato di grande rilievo per tutto il continente.

In Cile ho avvertito che le grandi domande sociali sono accompagnate da un sentimento diffuso di ottimismo. Si respira un clima positivo non solo tra le forze politiche di centrosinistra, ma anche nei settori più dinamici della borghesia imprenditrice. Ne ho parlato con alcuni esponenti del mondo degli affari. La risposta è prudente ma esprime apertura al nuovo governo. “Siamo consapevoli che il nostro sistema fiscale vada corretto nella direzione di una maggiore equità” mi dice un noto rappresentante dell’establishment imprenditoriale. “Crediamo che la Bachelet sia in grado di farlo con moderazione e con il sostegno di forze politiche e sociali di diverso orientamento”. Posizione maggioritaria o minoritaria? Difficile dirlo anche se si avverte, nella destra cilena, una posizione attendista e comunque non ostile al dialogo.

Le sfide che attendono il governo che sta per nascere sono dunque importanti.
Pesa in particolare sul futuro politico un’antica questione irrisolta della realtà cilena: la protesta crescente dei mapuches, gli indios che non hanno mai accettato la conquista e la colonizzazione spagnola e che reclamano con forza propri diritti e più terre. Si tratta di una ferita “dolorosa e senza facili soluzioni”, sostiene Viera-Gallo che ha seguito in prima persona il problema del gruppo tribale (un popolo di circa un milione di persone che non si riconosce nello Stato cileno) quando era ministro della presidenza Bachelet. E aggiunge: “Oggi i mapuche hanno una nuova leadership, sofisticata e preparata, formata da studenti e intellettuali con forti collegamenti internazionali. Lo scontro sta diventando sempre più aspro e richiede un intervento urgente e di notevole complessità”. La questione indigena appare come un aspetto emblematico della necessaria opera d’inclusione politica e sociale che più in generale attende il governo progressista di Michelle Bachelet.

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