LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Rocco Scotellaro

Avvenire ricorda la figura di Rocco Scotellaro, a sessanta anni dalla morte (e Oscar Iarussi lo fa nel suo blog su Reset https://www.reset.it/blog/rocco-e-i-suoi-fratelli-scotellaro-nostro-contemporaneo); Fausto Bertinotti, sull’ultimo numero di Alternative per il socialismo, chiama nuovamente tutti all’impegno diretto, intellettuali compresi; MicroMega di qualche mese fa dedicava  una serie di riflessioni d’autore a “L’intellettuale e l’impegno”. Il centenario della nascita di Albert Camus ha certamente stimolato una nuova ondata di riflessioni sulla figura dell’intellettuale engagé, del resto sempre piuttosto di moda, ma probabilmente non si tratta solo di moda, di ricorrenze, di mercato; quando nelle strade la tensione sale, quando le città sono quasi militarizzate per arginare la protesta sociale, la domanda di impegno e di riflessione su cosa quest’ultimo sia e significhi non può non tornare a farsi centrale, e a scavare come un rovello.

La fine dell’intellettuale ‘vate’, del maitre à panser, dell’intellettuale pubblico tradizionale al servizio di un progetto organico e di un novello Principe, è stata dichiarata più volte, non da ultimo da Pierpaolo Antonello nel suo Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea (Mimesis 2012), a tutto vantaggio di una intellettualità diffusa, che coincide con il ‘prendere sul serio il proprio ruolo’, di una ‘nomenklatura di massa’, di una investitura di un ruolo intellettuale e critico proprio di ciascuno nei diversi settori della vita produttiva e culturale, e non solo di sacerdoti del sapere ben piantati dentro qualche Chiesa. Ad alcuni, però, ‘fare bene il proprio lavoro’ non basta, e appare anzi una retorica che nasconde una ‘razionalizzazione del disimpegno’ (Flores D’Arcais). Così torna a dipanarsi l’intero, solito spettro di forme dell’impegno, senza che tra le pieghe di una o l’altra definizione sia sempre facile scorgere il confine tra narcisismo dell’intellettuale e genuina esigenza di presenza consapevole nel mondo: dare voce a chi non ne ha, provare la sofferenza degli oppressi, impegnarsi in specifici ‘progetti’, campagne ad hoc, dire la verità al potere, farsi concittadino tra cittadini di una repubblica democratica, moralmente coinvolti e radicati eppure capaci di dire no: da Socrate a Foucault, da Rorty a Said, da Gramsci a Walzer, da Sartre a Camus, formule e stagioni della critica e dell’impegno tornano a riempire la scena; e il narcisismo degli intellettuali non basta a spiegare l’ennesima ondata di dibattito e riflessione.

La domanda me la rivolgono giorni fa i miei studenti, molti di loro sì, impegnati. Non più forse a cambiare il mondo, a fare la rivoluzione, ma almeno a non vedere sprecate risorse pubbliche, a vedere implementato il diritto allo studio, e anche a riflettere sulle forme che il dominio assume oggi. Come fare a impegnarci? Naturalmente non ho la risposta, ma ne ho una mia, provvisoria quanto meno. Impegno e critica sono un’operazione complessa e duplice, intellettuale e pratica, di cui non è depositaria una classe sacerdotale ma che richiede la fatica del pensiero, aperta a tutti purché la si voglia sostenere; richiedono da un lato una capacità di refraiming, di spostare e ricontestualizzare domande, bisogni, ‘parole d’ordine’; cambiare i termini della discussione, aprire nuove piste, gettare luce nuova e diversa sulle questioni; dall’altra richiedono la capacità di tessere legami di solidarietà, spezzare la logica dell’interesse contro interesse, utile contro utile; imparare a fare insieme, fianco a fianco, coltivando pratiche comuni. Cosa sta logorando di più questo Paese se non una cultura che mette da venti anni generazione contro generazione, lavoratore contro lavoratore, cittadini contro cittadini? E cosa si è intorpidita di più se non la capacità di spezzare il recinto dei diktat di un pensiero che fissa i limiti del pensabile tacciando tutto il resto di incompatibilità con le ‘richieste’ degli imperativi ora dell’Europa, ora delle agenzie di rating, ora degli stereotipi culturali di una parte o dell’altra?

Forse di modelli esemplari di impegno questo Paese ne ha già, e forse ‘basta’ riscoprirli. Figure capaci di spostare il famigliare, di mettere il mondo in questione, come anche di condividere legami e prassi. Siamo certi che figure come Rocco Scotellaro non abbiano un tratto esemplare ‘solo’ perché non esiste più la Basilicata o la Lucania tramontate del secondo dopoguerra? E se da ripensare ci fosse la capacità di stare nel contesto, prendere parte alle lotte come intellettuali radicati, ma al tempo stesso quella di forzare ad esempio la propria parte a saper maturare un rapporto organico con il senso comune, cercando al suo interno potenziali di emancipazione anziché crogiolarsi in auto-assolutorie, autoreferenziali e poco autoriflessive visioni illuministiche? Da Gramsci a Gramsci, dall’intellettuale organico al moderno Principe a quello diffuso organico ad un sociale frammentato ma bisognoso del lavoro di cucitura della solidarietà, la tradizione di pensiero e engagement italiana non cessa di nutrire, almeno potenzialmente, la nostra riflessione e la nostra azione.

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