ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

POLITICA, CHIESA, INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

Rispetto alla tragedie del momento, la vicenda veronese del Vescovo che licenzia un insegnante di religione, perché ha criticato la presa di posizione elettorale, sfortunata quanto agli esiti, del suo “superiore” è ed appare certamente quale episodio minore.
Ma la sua dimensione “local” condensa significati nazionali.
Uno suona antico e sempre attuale: un Vescovo che si schiera in campagna elettorale per una parte politica. Da sempre la Chiesa e i suoi rappresentanti ai vari livelli prendono posizione, esplicita o per vie sotterranee, nelle campagne elettorali, locali o nazionali. Una volta solo per la DC. Adesso per partiti dell’intero arco politico. Scandalizzarsene è pura ipocrisia. La Chiesa è una comunità civile, basata su valori, che chiede legittimamente alla politica di rappresentare e di difendere. Ovviamente, l’entrata nell’agone politico la espone alla lotta politica, compresa quella fratricida, interna alla comunità stessa, e può mettere a rischio la dimensione pastorale. Come è accaduto appunto nel caso veronese.
Il secondo riguarda le lamentele da parte cattolica sulla democrazia interna della Chiesa. Inutile lamentarsi della sua mancanza. La Chiesa non è organizzata secondo i principi delle democrazie liberali. L’assolutismo, si sa, è nato con il Concilio di Trento, dopo la sconfitta del conciliarismo di Costanza; Jean Bodin e di Luigi XIV lo hanno solo applicato sul terreno laico. Se l’autorità nasce da Dio e chi la esercita lo fa in nome di Dio, prendere o lasciare. Si possono fare battaglie all’interno della Chiesa per una maggiore partecipazione dei laici, in particolare delle donne, fino al sacerdozio delle donne; ma tutto ciò non è battaglia per la democrazia, è “solo” per la maggiore partecipazione. Si tratta di due cose diverse.

Il terzo ci interessa di più: riguarda la natura e il futuro dell’insegnamento della religione cattolica, IRC nel linguaggio burocratico-ministeriale. L’insegnante di religione, pagato dallo Stato, viene scelto dal Vescovo e può essere licenziato dal Vescovo. Tutto ciò è perfettamente legale e legittimo, in base al Concordato del 1984. Nato in un contesto storico in cui la religione cattolica era la religione di Stato — così che l’insegnante di religione era, in quanto prete, funzionario della Chiesa e, in quanto insegnante, funzionario dello Stato – l’IRC ha perso con il Concordato del 1984 l’aureola della religione di Stato, ma ha mantenuto tutti i privilegi amministrativi e organizzativi del regime precedente.
Di qui l’insorgenza di proteste ricorrenti del mondo laico e di settori cattolici per la revisione/abolizione del Concordato e, comunque, della serie di privilegi che esso continua a riservare alla Chiesa. Se ne può discutere, anche a lungo.

Qui conta, però e da subito, un punto fondamentale: l’IRC si sta dimostrando – da qualche decennio a questa parte – un fallimento sia dal punto di vista dello sviluppo del senso religioso – con sbocco eventuale verso la fede – sia dal punto di vista della formazione dell’uomo e del cittadino. Lo conferma un paio di ricerche, una commissionata dieci anni fa dalla Conferenza episcopale lombarda al Centro di Ateneo per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento dell’Università degli Studi di Bergamo, e una condotta due anni fa dall’IPRASE trentino, per le quali nessuno ha fornito dati ulteriori migliori.
I questionari della prima ricerca interpellavano gli studenti su quattro nuclei tematici: biblico, teologico-dogmatico, cristologico, ecclesiologico. I risultati sono negativamente eclatanti. Il primo: gli studenti che hanno una buona conoscenza della religione cattolica sono compresi in un range tra il 20% e il 40%. Il secondo: ignoranza crassa della Bibbia. Terzo: l’indice di performance è superiore nelle scuole statali rispetto a quelle paritarie. Quarto: imparano di religione più fuori che dentro la scuola. Ma dai programmi televisivi non impara nessuno. Da ultimo: man mano si sale di età, decresce rapidamente l’interesse verso l’Irc. Ed è quanto conferma la più recente ricerca dell’IPRASE.

Ci si aspetterebbe, a questo punto, una riflessione severa da parte della CEI, della politica e della cultura italiana. La sua mancanza è il sintomo del degrado culturale del Paese, cui la classe dirigente laica ed ecclesiastica assiste senza batter ciglio.
Vero è che in ambiente pedaqogico cattolico sono emerse due ipotesi, di cui la prima è largamente prevalente. Essa prevede la scolarizzazione integrale dell’Irc, individuando oggetti di conoscenza non catechetici e non teologici. Questa strada porta ad integrare l’Irc nelle altre discipline, facendone un punto di intersezione. L’altra ipotesi, minoritaria e del tutto irrealistica, propende verso la trasformazione dell’IRC in catechesi pura e semplice.
Finora, tuttavia, la Cei ha sempre rinviato il riesame dell’assetto istituzionale e culturale dell’Irc. Una delle ragioni? Il Concordato assegna ai Vescovi il potere di scegliere gli insegnanti di religione. Al Sud le numerosissime sedi vescovili non vogliono perdere il potere di assegnare posti di lavoro. Perciò si mantiene l’IRC così com’è. Un alibi spesso proposto è che, comunque, dati MPI alla mano, la frequenza soprattutto nei primi anni è ancora molto alta e che le famiglie restano favorevoli. Favorevoli a cosa? Molti genitori sperano che l’insegnante di religione sopperisca alla propria diserzione educativa sul piano dei valori e della formazione del carattere dei loro figli.

Ed è qui che il silenzio della CEI incrocia quello ancor più greve della politica e della cultura italiane. Se la domanda religiosa è una costante antropologica, cui le varie fedi hanno dato, nel corso della storia, risposte diverse e spesso reciprocamente in competizione sanguinosa, una società che voglia riprodurre se stessa nel tempo, si deve porre il problema di garantire l’approccio al fenomeno religioso come “fenomeno umano”. Domanda religiosa”, “senso religioso” sono i nomi diversi della stessa costante antropologica: l’esperienza di una dipendenza, di un’incompletezza, di un trascendimento dell’orizzonte presente, di una domanda sul proprio destino. L’insegnamento della religione, IRC compreso, deve esplorare questa fenomenologia storica quale momento essenziale di formazione umana e civile integrale e di identità personale.

L’attuale “ora di religione” non lo fa, semplicemente. Uno dei peggiori effetti è l’ignoranza abissale del Vecchio e del Nuovo Testamento. Poiché la religione cristiana è il pilastro principale della storia e dell’identità europea, ai ragazzi e agli adulti mancano gli strumenti per orientare praticamente la propria collocazione individuale e collettiva nella storia presente e i suoi conflitti. Nell’epoca della globalizzazione, dei conflitti tra sunniti/sciiti, dell’appoggio ortodosso alla guerra di Putin, del ritorno di persecuzioni sanguinose contro i cristiani, di un persistente antisemitismo, l’Irc cosiffatto è sostanzialmente inutile.
E con ciò il discorso si allarga all’intero curriculum culturale della scuola italiana. Un curriculum che non è in grado di fornire e riprodurre di generazione in generazione i saperi fondamentali – Lingua e linguaggi, Storia, Matematica, Scienze – è la causa fondamentale del declino economico-sociale, civile e spirituale del Paese. A ripeterlo si appare in preda a un tic inarrestabile. Ma il tic del silenzio è anche peggiore.

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