LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

M.R. lascia o raddoppia

Per una «fenomenologia di Matteo Renzi» bisognerà attendere. È difficile infatti sviscerare una carriera che, almeno sulla scena nazionale, è evidente non da molto tempo. Persino Umberto Eco, indagando il fenomeno Mike Bongiorno nel Diario minimo (1961), scrisse di un personaggio già celebre. A un programma di Mike, La ruota della fortuna, il diciannovenne Renzi partecipò nel 1994 per alcune puntate, aggiudicandosi un discreto bottino in gettoni d’oro. Il sindaco di Firenze, ritenuto un «Berluschino» dai detrattori, grazie a quell’esperienza deve aver appreso o forgiato i tempi e i modi del porgersi in Tv. È un «nativo analogico» il cui eloquio si fonda sul paragone, l’esempio e una maieutica semplificata al massimo; perciò non di rado risulta efficace. «Abbiamo qualcosa di più importante di cui occuparci rispetto al destino della Cancellieri: è il destino dell’Italia», ha detto Renzi giorni fa, ospite del programma di Fazio su Raitre, chiedendo le dimissioni del ministro della Giustizia per le sue telefonate imbarazzanti in favore dei Ligresti. Ironia e retorica renziane, di sfuggita, giungono dritte allo scopo, senza le volute/involute dei politici di vecchia scuola.

«Renzi è un democristiano», lo bollano quei democratici (in italiano, democrats con tanto di plurale aborrito da Eco) giunti nel Pd percorrendo le vie post-comuniste. Vero, tuttavia non ha alcunché della tradizione oratoria scudocrociata. Egli non riserva le immaginifiche metafore morotee, tipo le «convergenze parallele» con un che tra Bodini e Beckett, invero profetiche (Dc e Pci si sono incontrati giusto nel Pd, pur con un amalgama stentato). Né Renzi ha lo stile curiale di molti dorotei e, tanto meno, il sarcasmo diabolico seppur papalino-trasteverino di Andreotti.

Matteo piè veloce parla altrettanto rapido, troppo. Deve contenersi per non «mitragliare» parole come il giovane Mentana. «Renzi è ignorante, è un falso santone», lo ha stilettato poco fa Massimo D’Alema, campione di un’altra famiglia politica ed erede di un’alta tradizione machiavelliana. L’ex presidente del Consiglio, uno dei due premier di sinistra-sinistra nella storia repubblicana (prima di lui solo Craxi), dà l’impressione di volersi comportare come fece Togliatti nei confronti di un estimatore troppo espansivo. A Matteo direbbe volentieri: «Compagno, dammi pure del lei». E ha ricordato in Tv: «Io le elezioni le ho vinte, vedremo lui». D’Alema fu il primo bersaglio della irruente «rottamazione» proposta da Renzi alla vigilia delle «primarie» del centrosinistra, che si conclusero un anno fa con la vittoria di Bersani. «Ho perso», dichiarò Renzi. Punto. Un’inedita chiarezza che conquistò parecchi di coloro i quali non lo avevano votato. Il fair play «da spogliatoio» gioca oggi in suo favore. Il «rottamatore» ha sicuramente letto meno saggi di D’Alema e scritto meno libri di Veltroni, però padroneggia e pratica una dimensione essenziale della comunicazione di massa che, nella stagione «berlusconiana» ancora in atto, è assai prossima alla pubblicità. A far breccia è la parola-chiave (in italiano, password), è il concetto accessibile a chicchessia, è l’allegoria poco alata, è il modus operandi della televisione.

D’altro canto, Renzi si è affidato a un’agenzia di baldanzosi comunicatori baresi per coniare lo slogan «cambia verso» e lanciare una campagna «virale» sui social network (subito parodiati, ergo di successo – sostengono taluni). Renzi colmerebbe così il suo deficit «digitale». Certo, il Nostro dalla sua ha soprattutto la gioventù con il Segno rosso del coraggio (Cuperlo ci perdonerà), per dirla col titolo di un romanzo di Stephen Crane centrato sulla paura del protagonista, una recluta nella Guerra civile americana. Ecco, la paura non traspare abbastanza in Renzi. Speriamo invece che ne abbia, che magari dorma poco al pensiero di farsi fagocitare o ipotecare dai maggiorenti del Pd solo ieri strenui avversari, oggi suoi alleati.

Il politologo napoletano Mauro Calise, testimone della parabola di Bassolino, intervistato da Alessandro Lanni per la rivista Reset.it, osserva: «Se lo fanno fuori, se cercano di mandarlo in fuorigioco, Renzi si faccia da parte, non si faccia in quattro. È giovane, la notte della repubblica sarà lunga. Il futuro – come direbbe Weber – tornerà a bussare alla sua porta». E in un libro fresco di stampa per Laterza (Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader), Calise non si fa turbare dalla «personalizzazione» della politica, bensì dal fatto che a leadership forti o presunte tali non corrispondano partiti saldi e tutt’altro che «personali».  Può darsi allora che la sfida di Renzi si configuri di nuovo sotto il segno di Mike: una sorta di Rischiatutto o, meglio, di Lascia o raddoppia? La vera posta in gioco riguarda la fiducia dei cittadini che sempre meno coincidono con gli elettori (vedi il test lucano: affluenza crollata al 47 per cento). Su quel terreno la comunicazione di sintesi non basta e qualche analisi in più non guasta.

Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 20 novembre 2013

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