MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Libia, ora Haftar gioca la carta della “guerra santa”

Non è più una guerra civile. Non è più una guerra per procura. Ora quella in Libia è diventata una “guerra santa” contro l’invasore ottomano. Parola dell’uomo forte della Cirenaica, il maresciallo generale Khalifa Haftar. E in una “guerra santa” non c’è spazio per tour diplomatici. Della ventilata missione di alcuni ministri degli Esteri europei, tra i quali Luigi Di Maio, a Tripoli e Bengasi non si hanno più notizie certe. Anche perché in una “guerra santa” non c’è spazio per tregue, compromessi, mediazioni. L’unica “diplomazia” che viene praticata è quella delle armi.

La battaglia per Tripoli di Khalifa Haftar diventa una “guerra santa” per difendere la Libia da una preannunciata invasione turca. Ieri un raid aereo delle forze del generale contro l’Accademia militare di Tripoli ha causato almeno 28 morti e quasi 20 feriti fra i miliziani-cadetti.  “Ci sono morti ovunque e molti feriti” ha raccontato uno dei soccorritori ancora al lavoro per estrarre i corpi da sotto le macerie.  Le forze del generale hanno però sostenuto di aver preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l’Accademia che si preparava a partecipare ai combattimenti in corso e di averne uccisi almeno 70. Sulla responsabilità dell’incursione non ci sono però certezze perché il generale Khalifa Haftar ha smentito di essere stato il mandante della rappresaglia. La precisazione è arrivata dopo che nella mattinata del 5 gennaio un portavoce del generale, Khaled Al-Mahjoob, aveva rivendicato, in una dichiarazione ad Alhurra TV, la responsabilità dell’attacco aereo sulla scuola militare di Tripoli. “I cadetti di quel college sono miliziani”. Ma la rivendicazione sarebbe poi stata smentita dallo stesso portavoce e bollata come una “fake news”. La rivendicazione sarebbe coerente con le ricostruzioni fatte circolare sui siti vicino al generale Haftar, secondo cui nell’Accademia di polizia erano concentrati alcuni dei miliziani siriani che il governo turco avrebbe spostato in Libia per farli combattere dalla parte di Sarraj. Quindi non cadetti di polizia, ma combattenti per il Governo di Accordo Nazionale.

Nei giorni scorsi l’uomo forte della Cirenaica aveva lanciato una chiamata alle armi a tutti i libici perché imbraccino i fucili in risposta a un eventuale intervento militare turco. Noi accettiamo la sfida e dichiariamo la jihad e una chiamata alle armi”, ha detto durante un discorso trasmesso in tv, invitando “uomini e donne, soldati e civili, a difendere la nostra terra e il nostro onore”. Haftar ha insultato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dandogli dello “stupido sultano”, e accusato Ankara di essere intenzionata a “riprendere il controllo della Libia”, che è stata una provincia dell’Impero Ottomano fino alla conquista coloniale italiana nel 1911. Storia, geopolitica, petrolio, ricostruzione: è il mix di ragioni che spingono Erdogan ha mettere le mani sulla Libia. Durante il regno Ottomano, i turchi colonizzarono e dominarono la vita politica della regione, e la composizione etnica della Libia cambiò sostanzialmente con la migrazione dei turchi dall’Anatolia, con la determinazione di una nuova entità etnica locale, i “Kouloughlis”, una popolazione con sangue misto turco e maghrebino. Nel 2011, anno della caduta di Gheddafi, i cittadini turchi residenti in Libia erano circa 25.000. Fredde in precedenza, le relazioni tra Ankara e Libia si rafforzarono quando, a seguito dell’embargo militare decretato dagli Usa alla Turchia per l’intervento a Cipro nel 1974, fu la Libia a garantire all’aviazione turca i pezzi di ricambio per i caccia di fabbricazione statunitense in dotazione. D’allora, l’incidenza turca in Libia è cresciuta esponenzialmente. Quando l’allora primo ministro e attuale presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdoğan, nel settembre 2011 fece visita a Tripoli, ricevette un’accoglienza da star da parte dei libici. Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due Paesi hanno inoltre deciso di dar vita, entro il 2020, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia. Non basta.  La crisi siriana ha fortemente indebolito le rotte del petrolio da Arabia Saudita, Iran, Iraq e stati del Golfo. E questo ha portato Ankara a puntare decisamente, nella “battaglia del petrolio”, al sud del Mediterraneo e dunque alla Libia. Mentre altri patteggiavano sotto traccia con milizie o andavano alla ricerca, in terra libica, di improbabili uomini forti a cui affidare il ruolo di gendarme del Mediterraneo, la Turchia ha sviluppato una penetrazione a trecentosessanta gradi, dalla cultura all’alimentazione.  I turchi hanno aperto a pioggia ristoranti e negozi, mentre diciannove miliardi di dollari sono stati investiti nel campo delle costruzioni attraverso la Turkey Contractors’ Association. Quel che è certo è che ora Erdoğan giocherà qualche asso nella manica per ribadire la presenza necessaria di Ankara sul tavolo libico. E questa carta potrà essere, inevitabilmente, quella dei Fratelli musulmani. Una carta fondamentale, condivisa dalla Turchia e dal Qatar, alleati in Medio Oriente e anche nella partita libica. Una linea che porta allo scontro frontale con l’Egitto. Per i militari egiziani, il pericolo dei Fratelli musulmani – al potere prima del golpe del 3 luglio 2013 – è ancora forte e una Libia in mano a forze a loro vicine è una minaccia ancora maggiore di un conflitto in territorio libico. Piuttosto che assistere all’affermarsi di un governo ostile a Tripoli, al-Sisi punterebbe decisamente al dissolvimento della Libia come stato unitario e alla creazione di uno “stato-protettorato” della Cirenaica, governato attraverso il fedele Haftar.

Qunanto all’Italia, in attesa di potere rimettere piede sul suolo libico, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, volerà l’8 gennaio al Cairo, dove è stato invitato dal collega egiziano Same Shoukry a partecipare a una riunione sulla Libia insieme ai rappresentanti di Grecia, Cipro e Francia. Al telefono con il ministro egiziano, Di Maio ha ribadito che “occorre moderazione per evitare un ulteriore deterioramento della situazione e riavviare il dialogo tra le parti”. Peccato che l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi sia uno dei Paesi sostenitori del generale Haftar. Il titolare della Farnesina ha poi aggiunto che “l’Italia sostiene fermamente il processo di Berlino, unica via per risolvere pacificamente la crisi ed evitare la destabilizzazione del Paese e altre sofferenze alla popolazione libica”. Di Maio ha chiesto di incontrare anche i colleghi di Tunisia e Algeria. Dopo l’incontro al Cairo, dunque, sarà a Tunisi e ad Algeri il 9 e il 10 per rimettere la Libia al centro dello scacchiere estero italiano nel Mediterraneo.  Un ambizioso proposito che ha un limite non da poco: nella partita libica l’Italia è ormai stata relegata a bordo campo. I players sono altri e stanno ad Ankara, al Cairo, a Riyadh, in Qatar, negli Emirati arabi e, andando oltre gli attori regionali, a Mosca. A Tripoli milizie e ambienti politici vicini alla Turchia stanno lanciando manifestazioni e contestazioni anti-italiane e anti-europee. Gli slogan dicono che “è tardi, non ci avete difeso per tempo, adesso è inutile che veniate a Tripoli”. Più che un invito, è un avvertimento. L’italico cerchiobottismo, soprattutto se praticato da dilettanti allo sbaraglio, non paga. Pensarsi furbi è un peccato di presunzione in generale, ma quando si maneggiano dossier esplosivi come è quello libico, è una prova di irresponsabilità che può costare cara, molto cara.

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