THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

La grande ricchezza nascosta nei musei italiani

Potrebbe essere chiusa negli scantinati dei musei italiani una delle più grandi ed ovvie opportunità di rilancio di un’economia, che nessuno sembra più essere in grado di far ripartire. Quello delle grandi gallerie d’arte è un caso che diceche stiamo buttando via pezzi di futuro, non tanto per mancanza di risorse economiche, ma per il monopolio che uno Stato senza idee pretende di esercitare sulla gestione di beni che appartengono a tutti.

C’èqualcosa di profondamente paradossale nella grande depressione che l’Italia attraversa ormai da due decadi. Se l’Italia si è praticamente fermata dalla metà degli anni novanta, il mondo sta vivendo- anche se tra qualche incertezza – il periodo di crescita più straordinario che la Storia ricordi. Peraltro, il settore industriale il cui fatturato sta crescendo di più – il 6% all’anno negli ultimi vent’anni –è proprio quello nel quale l’Italia ha un vantaggio competitivo in grado di resisterepersino all’incuria di governi e amministratori. L’emersione in Asia e Sud America di classi medie costituite da centinaia di milioni di individui, ha determinato, infatti,un colossale spostamento di consumi dai beni di prima necessità a quelli che hanno un forte contenuto creativo. L’Italia sarebbe dovuta tornare o rimanere al centro del mondo ed, invece, siamo sempre più periferici, irrilevanti, quasi inconsapevoli di cosa ci gira attorno. Come nel caso dei musei.

L’approfondimento che l’Economist ha dedicato ai musei qualche settimana fa racconta di una vera e propria esplosione che non tocca, però, il Paese con il patrimonio artistico più importante del mondo.

Il numero delle gallerie d’arte e quello dei visitatori staesplodendo. Vent’anni fanel mondo si contavano 22.000 musei, oggi ce ne sono 55.000. Nel 2013, negli Stati Uniti le gallerie hanno venduto 850 milioni di biglietti più di tutti gli sport professionistici e i parchi a tema messi insieme. Sia il Louvre che il BritishMuseum – i due più grandi musei del mondo – hanno fatto segnare il proprio record storico lo scorso anno arrivando ad accogliere rispettivamente dieci e sette milioni di turisti. Una delle spiegazioni del successo del museo di Londra è stata l’esibizione su Pompei ed Ercolano, visitata da un milione di persone, più dei turisti che si sono spinti fino in Italia a vedere di persona i siti archeologici più famosi del mondo.

Per la Cina, poi, costruire musei è diventato un segno di discontinuità politica, la rispostapiù ambiziosa alla rivoluzione culturale e ad anni di comunismo che cancellarono quasi per intero il patrimonio di una delle culture più sofisticate e antiche del mondo: solo l’anno scorso sono stati costruiti nella Repubblica popolare un numero di musei pari a quello complessivamente esistente in Italia, con il risultato che molte gallerie sono vuote. Cosa simile succede nei Paesi del Golfo che inseguono il sogno di creare tra le dune musei e università di livello internazionale. Ciò crea opportunità importanti: il Louvre ha ottenuto più di 500 milioni di dollari solo per aver concesso il diritto di associare il suo nome al museo di Abu Dhabi, al quale se ne aggiungono altri 700 per il prestito di circa duecento opere, l’organizzazione di quattro mostre all’anno e consulenza. In Italia, invece, metà delle opere d’arte sono chiuse negli scantinati, mentre i ministri e i Presidenti della Repubblica continuano ad affannarsi da anni a lamentare che non abbiamo abbastanza soldi per la cultura.Stiamo sprecando un’opportunità chiarissima e la ragione di tanta inerzia sta in un miscela micidiale tra presunzione e immobilismo.

Siamo al primo posto con quarantacinque siti nella classifica mondiale dei monumenti protetti dall’UNESCO e sono di origine italiane circa un terzo delle opere d’arte esposte nei cento musei più importanti del mondo. Tuttavia anche da questa classifica l’Italia scompare: per trovarne uno italiano bisogna scendere al ventitreesimo posto, dove si collocano gli Uffizi con meno di due milioni di visitatori.

Non ci sono più soldi per la cultura. Ma è anche vero che – mentre tutti sottoscrivono accorati appelli – è la composizione della spesa pubblica ad essere sbagliata: investiamo in beni culturali venti volte meno di quello che spendiamo per le nostre forze armate e – a parità di vincoli europei – tre volte meno della Spagna, che con un patrimonio artistico inferiore a quello italiano riesce a contare quasi il doppio (55 milioni) di visitatori nei propri musei. E, soprattutto, siamo soffocati da un’istituzione – le soprintendenze definite da Matteo Renzi medioevali – che stronca qualsiasi possibile contributo di idee e risorse finanziarie che venga da ciò che non è Stato, laddove ad esempio negli Stati Uniti il denaro pubblico vale meno di un quarto delle entrate che consentono il funzionamento di quasi diciottomila gallerie. Il risultato è che non riusciamo neppure ad immaginare di poter estrarre dai beni culturali che ci appartengono ciò che riescono a fare i Francesi che pure sulla necessità di preservare il proprio patrimonio costruiscono parte dell’identità nazionale.

Eppure basterebbe poco. Selezionare, valutare e premiare sistematicamente chiunque gestisca una risorsa così strategica sulla base della capacità di generare valore che poi, nel caso delle opere d’arte, coincide con quella di aumentarne la fruizione. Aprire la gestione dei musei alle fondazioni che consentono al BritishMuseum di aver reso da tempo l’ingresso gratuito a tutti. Rendere possibile che le opere d’arte italiane diventino un’occasione di marketing e il simbolo itinerante di un cambiamento radicale di approccio alla considerazione che abbiamo di noi stessi. Del resto è dai musei – come insegnano le storie di Bilbao e di Berlino – che sono spesso ripartite città e comunità che potevano contare su una grande tradizione.

Sono questi i progetti concretissimi ed immediatamente comprensibili, che dovrebbero entrare subito nel programma di chi voglia, davvero, provare a spezzare l’inerzia di una società che ha bisogno di ricominciare ad avere fiducia e nozione delle proprie capacità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 Febbraio

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