THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

ISIS: i conti in tasca della multinazionale del terrore e gli errori dell’Occidente

isis-cubs-4

Chi finanzia la campagna globale del terrore che sembra aver paralizzato l’Occidente? Possono essere sufficienti all’ISIS il milione e mezzo di dollari che, secondo il Financial Times, ogni giorno ricava dalla vendita del petrolio estratto dai giacimenti siriani e da quelli di Mosul, per fronteggiare Paesi capaci di spendere cento milioni di dollari su un singolo caccia di ultima generazione? Da dove arrivano le armi che sono indispensabili non solo per difendere i confini e colpire i civili in territorio nemico, ma anche per difendere i pozzi dai quali dipende la sopravvivenza del non Stato islamico? E, soprattutto, com’è possibile che – dopo quasi due anni di un conflitto che qualcuno avvicina alla terza guerra mondiale – nessuno abbia, più modestamente, pensato di sigillare il califfato nei suoi “confini”, utilizzando una frazione piccola del potenziale distruttivo degli aerei che sorvolano la Siria per distruggere qualche centinaio di camion che trasportano greggio ai nemici dell’ISIS rimasti senza carburante?

È, forse, sbagliato chiamare guerra (o addirittura guerra mondiale) questo conflitto asimmetrico che oppone il non Stato Islamico dell’Iraq e del Levante contro il resto del mondo. E, tuttavia, se cadessimo nell’errore attribuirgli i caratteri dei conflitti che spaccarono i continenti facendo centinaia di milioni di morti facendo un grosso favore ai terroristi, l’Occidente la starebbe probabilmente perdendo questa “guerra”. Per un motivo assai semplice: non conosciamo il nostro nemico, forse non conosciamo neppure noi stessi e ciò – dice il famoso libro sull’ “arte della guerra” che da duemila e cinquecento anni ispira i generali di tutto il mondo – aumenta di molto la possibilità di essere sconfitti.

In realtà – dopo aver sprecato torrenti di parole – noi, ancora, non conosciamo cosa davvero è l’ISIS. Non abbiamo, ancora, capito – né nelle agenzie di intelligence e tantomeno come opinioni pubbliche – come è possibile che un non Stato che secondo le stime della CIA conta circa trentuno mila combattenti – un esercito più piccolo di quello che può schierare la pacifica Estonia – possa essere diventato il nostro peggiore incubo.

I conti del conflitto, quelli senza i quali non si cantano messe e neppure si fanno guerre sante, in effetti, non tornano. O, forse, come mi suggeriva un professore di economia dell’Università del Cairo, abituato alle contabilità dei Suk mediorientali dove si commercia dai Kalashnikov al petrolio, non possono tornare.

I rapporti più completi sui bilanci dell’ISIS (incluso quello dell’americana RAND) dicono che, di gran lunga, l’entrata più importante sono quelle che vengono dai pozzi che i terroristi neri hanno considerato obiettivo immediato sin dall’inizio. È considerato un miracolo logistico che riescono ad estrarre e a trasportare il greggio oltre il fronte sotto le bombe; ed è un paradosso – uno dei tanti che caratterizzando le guerre moderne – che lo vendono ai loro stessi nemici che ne hanno bisogno per mettere benzina ai tank che il giorno dopo vengono lanciati contro il califfato. Trentamila barili sembrano però davvero pochi (meno di quello che produce la Basilicata) per poter controllare un territorio che ospita sei milioni di abitanti e provare ad espanderlo. Marginali rispetto ai bisogni dell’apocalisse appaiono, inoltre, gli introiti delle opere d’arte (che i fanatici preferiscono distruggere) e dei ricatti degli ostaggi (che i terroristi spesso decapitano). Per quanto riguarda le armi, poi, è fantasiosa l’idea di predatori che, come in un medioevo romantico, provvedono al proprio fabbisogno militare rubando kalashnikov e elicotteri lasciati dal nemico che si arrende. Una campagna come quella lanciata dall’ISIS ha bisogno di campi di addestramento, di manutenzione, di batterie anti aeree sofisticate che non sembrano, assolutamente, alla portata di alcune decine o anche centinaia di migliaia di tagliagole lanciati alla conquista del mondo.

Ha ragione Hillary Clinton quando afferma che l’ISIS è, in parte, la conseguenza di scelte sbagliate dello stesso Occidente e una parte del mistero dell’ISIS non può che essere nei comportamenti non lineari di alcuni degli alleati storici di Europa e Stati Uniti.

Se nessuno ha mai dimostrato che Arabia Saudita e Qatar abbiano finanziato direttamente il nemico che i propri jet stanno bombardando, è quasi certo che le charities dei Paesi del Golfo abbiano contribuito allo start up dell’ISIS. Del resto, il Paese nel quale milioni di peregrini si recano ogni anno per rendere omaggio alla Mecca è, ancora, quello che più di qualsiasi altro si avvicina alla realizzazione terrena dell’ideale degli integralisti: una monarchia assoluta dove i ladri sono puniti con l’amputazione della mano come nei territori conquistati in Siria e la decapitazione è punizione contemplata dallo Stato.

Meno plausibile è far quadrare i conti del terrore, provando a introdurre, come vorrebbe Putin, nell’equazione l’aiuto che verrebbe dalla Turchia. Sul piano antropologico, Erdogan assomiglia di più ai satrapi come Assad o Hussein che non a questi giovani con la barba e pochi dubbi.

Seguendo, poi, la scia che lasciano inesorabilmente i soldi, rimane l’ipotesi più banale e scandalosa: quella che a finanziare questa e mille altre tensioni, sia – mai in maniera trasparente – l’unico settore produttivo che ne trae un diretto vantaggio: ai margini della cronaca di queste settimane c’è il rilancio dei programma di acquisto di F35 e di protezione dei sommergibili nucleari che vale alcune decine di miliardi di sterline e che è anche in risposta agli eventi di Parigi. Anche se è evidente che voler rispondere ai terroristi con i caccia di ultima generazione equivale a voler sterminare una zanzara con un bazooka.

Infine c’è un ultimo paradosso: i numeri dicono che stiamo ingigantendo l’ISIS e i suoi alleati proprio mentre essi stanno perdendo l’aria che li ha gonfiati. Un anno e mezzo fa, quando la Jihad conquistava Mosul, un barile di greggio veniva scambiato alla borsa di Londra a circa 105 dollari; oggi siamo poco al di sopra dei 40. Ciò dovrebbe segnare l’inizio della fine non solo dei terroristi, ma anche di molti dei protagonisti che – nel Medio Oriente – oscillano tra alleanze opposte solo per fare soldi.

In questo contesto, un blocco che impedisse preventivamente l’arrivo anche solo di un bullone agli Stati (e ai non Stati) “canaglia” costerebbe molto di meno di una Guerra postuma. Ma all’Occidente, aldilà delle dichiarazioni retoriche, manca una strategia e, soprattutto, una vera coalizione delle volontà per uscire dalla paralisi e voltare pagina. La sfida è che per riuscirci dovrebbe, innanzitutto, fare i conti con un modello di sviluppo che è superato dalle tecnologie e dalla storia, ma protetto da interessi e da un’inerzia che fa parte dell’Occidente stesso.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 Dicembre

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *