ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

INSEGNARE STORIA

Editoriale da www.santalessandro.org
Sabato 7 novembre 2021
Giovanni Cominelli

Per evitare malinconiche farse, chi insegna Storia?

L’assalto di Forza nuova, mista con No-vax, alla sede nazionale della CGIL a Roma, l’allegra ovazione “Duce! Duce!” di un gruppo di studenti dell’Istituto Aeronautico “A. Locatelli” di Bergamo rivolta al proprio preside, il corteo allucinato a Novara di No-Green Pass, vestiti con il pigiama a righe dei deportati nel campi di sterminio e legati insieme dal filo spinato… che cos’hanno in comune? Si tratta del ritorno del ”fascismo eterno”, temuto da Umberto Eco? Qualcosa di profondo sta certamente accadendo nella società, che ci ostiniamo a definire “civile”, ma non si tratta della riemersione del fascismo sotterraneo. E’ qualcosa di peggio: è l’ignoranza attiva/cancellazione della storia e la sua riduzione a una malinconica farsa. La stessa un’aria di famiglia della “cancel culture”, con le imbrattature o abbattimento di statue e lapidi… Se la storia è una catena di oppressioni e una lunga una scia di sangue, ben documentata da geroglifici, pergamene, incunaboli, monumenti, lapidi e statue… che siano distrutti, affinché non abbruttiscano il nostro luminoso presente! Meglio nascondere da dove veniamo, tanto per apparire migliori a noi stessi. Perciò, man a mano il tempo presente scivola alle spalle, non merita più il nostro sguardo, occorre lasciarlo fluire nella pattumiera della Storia.
Eppure, esistere senza coscienza storica implica una grave amputazione ontologica della persona, genera una sua bassa collocazione rispetto alla storia del mondo, sottoproduce l’impoverimento del cervello sociale, l’inaridimento delle relazioni calde tra le generazioni, l’esplosione di pulsioni identitarie quale reazione al nulla di radici. Una società e un Paese senza coscienza storica ci restituiscono ad un universo primitivo e animale. Si deve constatare che simili tendenze non riguardano affatto il mondo intero. Sono una particolare patologia dell’Occidente, forse un segnale ennesimo del suo spengleriano Untergang, del suo tramonto. Eppure, il presente è denso, perché è gravido di futuro e di… passato. Un presente senza passato è come una nave senza ancora. L’Io diviene instabile, leggero, insicuro di sé, free floating sulla Realtà.
Il fatto è che la coscienza storica non è ereditaria, deve essere costruita.
Chi la edifica, oggi?
A livello di famiglie, di comunità locali, di territori la coscienza di essere anelli di una tradizione è sempre stata il prodotto “naturale” della vita sociale. Si trattava di una forma elementare di coscienza storica, generata e tramandata per via orale. I limiti sono evidenti: non si tratta di coscienza storica in senso proprio, ma piuttosto di coscienza di clan e di villaggio. Dunque coscienza storica povera, consapevolezza del presente debolissima. Ecco perché é capitato alla generazione dei miei nonni di andare in guerra, senza avere la più vaga idea del perché e persino del dove. Si sono semplicemente trovati “su quel lungo treno che andava al confine…”. E poi, già alla terza generazione i legami si allentano, la memoria si perde. I processi di urbanizzazione, di mobilità migratoria, di riduzione dei nuclei familiari hanno spezzato ulteriormente il meccanismo di trasmissione della memoria.
Tocca dunque alla scuola. E qui entriamo in una valle di lacrime.
Intanto, ben lungi dall’intraprendere la strada delle competenze-chiave – sono quattro le aree definite a suo tempo dal Ministro Fioroni: Lingua e linguaggi, Storia, Matematica, Scienze – la scuola italiana continua imperterrita a perdersi in un pulviscolo di discipline. A ciascuna spetta qualche ora. Convergono in questa impostazione l’enciclopedismo illuministico-positivistico di lunga durata e la politica di dilatazione dell’impiego pubblico dei laureati. Il risultato è che le ore di insegnamento settimanali della Storia, per limitarci alla Scuola secondaria di secondo grado, sono 3 nel Liceo classico, 2 in tutti gli altri Licei. I programmi si trasformano, a questo punto, in dolorosi letti di Procuste, in primo luogo per i docenti. Fino agli anni ’60, la narrazione raggiungeva a malapena la soglia del 1945, oggi si arriva a quella del ’68. Quando i ragazzi escono dai Licei, sanno moltissimo dei Sumeri, nulla della storia della Repubblica, nulla del presente. La loro visione del presente è poverissima. Eppure è sulla base di questa che fanno le loro scelte socio-politiche, che decidono del proprio futuro e di quello del Paese. C’è da stupirsi, se possono gridare allegramente “Duce! Duce!” o sfilare travestiti da Ebrei, con tanto di stella di Davide, senza rendersi conto di essere dei marziani su questo pianeta?
Da almeno vent’anni è arrivata dal Ministero dell’Istruzione l’indicazione che l’ultimo anno delle Superiori debba essere dedicato al ‘900. Ma, in ogni caso, supposto che si riesca ad attraversare in 66 ore annuali un paio di guerre mondiali calde e un paio di guerre fredde, i primi vent’anni del Terzo millennio sono esclusi dalla narrazione. Eppure, dal punto di vista dell’educazione alla politica sono i più importanti. E’ in base alla loro interpretazione che i diciottenni fanno la scelta dei propri rappresentanti in Parlamento e, molto indirettamente, dei Governi. Saprebbero quale Faraone votare, ma non quale Presidente del Consiglio.
Perché non parlare degli eventi della seconda metà del ‘900, perché non dei primi vent’anni del Terzo millennio?
Per tre ragioni. La prima, più immediata, è la pressione burocratico-amministrativa del sistema delle interrogazioni e degli esami finali. Il tempo è poco, le materie sono tante, le Commissioni d’esame burocraticamente esigenti. I docenti sono braccati tutto l’anno dai Programmi come dalle Erinni. Ora, vi si è aggiunta l’Educazione civica. Dovrebbe essere la risultante del concorso di tutte le discipline, che, invece, sono latitanti. Finisce per sottrarre tempo all’insegnamento di Storia.
C’è, secondariamente, una ragione pedagogico-didattica. La polemica contro “il nozionismo” in nome della “Critical Theory” ha preso l’abbrivio nel ’68 per fondatissime ragioni. Ma ora ha toccato l’estremo opposto e sta producendo il suo contrario, facendo prendere un po’ troppo alla lettera il noto apoftegma di Nietzsche: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Perciò, fatti pochi, interpretazioni molte. L’esercizio della critica viene facile, mentre conoscere gli eventi, metterli in fila cronologicamente è più faticoso e, talora, noioso. Ma le date sono la spina dorsale della storia, visto che si svolge nel… tempo!. Così l’insegnamento/apprendimento della storia si riduce spesso a piacevole conversazione, supportata da mezzi tecnico-mediatici sempre più raffinati. Solo che un sapere storico-critico senza fondamenti evenemenziali si riduce alle manifestazioni narcisistiche dell’Io, che esondano dai social-media. Oggi lo si chiamerebbe bla-bla-bla.
La terza ragione: sottoporre alla fatica, allo stress, all’ansia gli studenti è diventato pericoloso, al cospetto dei loro genitori, la cui presenza è diventata invasiva e ossessiva. La loro presenza – a norma dei Decreti Delegati del 1974 – avrebbe dovuto aprire la scuola al mondo. In realtà, si sta rivelando soffocante e paralizzante. Per due aspetti. Il primo: desiderano buoni voti per i propri pargoli, ma con la minor fatica possibile. Un voto mediocre o negativo può provocare ansie, stress, crisi di panico. Il secondo: tendono ad esercitare un controllo ideologico sugli insegnanti. Con quale mezzo? Attraverso il Preside, il quale, dovendo scegliere se difendere la libertà di insegnamento del docente o le pretese di controllo dei genitori, si schiera prevalentemente dalla parte di questi. Non sia mai che costoro ricorrano all’avvocato o al politico amico, ansioso di provare la propria esistenza con una bella interpellanza parlamentare, o al giornalista alla ricerca della notizia-bomba! Resta poi sempre l’ultima risorsa: quella del TAR. Il terreno della storia contemporanea è, da questo punto di vista, assai scivoloso. Perciò meglio stare alla larga! Chi ne esce con la ossa rotte sono in primo luogo gli insegnanti. Ma è evidente che ciò che resta incompiuto è la coscienza storica e civile dei ragazzi, che si avviano verso la vita collettiva con un zaino troppo leggero. Ciò che esce sfibrato è lo spirito pubblico del Paese.

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