THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Corruzione e finanziamento della politica: la leva della trasparenza

“Quando entrate e spese sono circondate dal segreto circa la loro provenienza e destinazione, la corruzione diventa impuntita”. Pochi lo sanno ma fu Don Luigi Sturzo – il politico italiano che ha incarnato l’idea stessa dell’esistenza di una moralità della politica – il primo a proporre nel 1958 di introdurre in Italia un finanziamento pubblico ai partiti. Quel disegno di legge costituiva, del resto, la risposta della politica italiana al primo grande episodio di corruzione che l’Italia abbia conosciuto: un istituto che gestiva la riscossione delle tasse sui consumi fu sospettato di aver pagato quasi tutti i Partiti per vincere l’appalto. Sturzo che era anche un liberale (cattolico) contrario ad una presenza eccessiva dello Stato, con realismo immaginò che un antidoto alla corruzione potesse essere, appunto, far pagare ai contribuenti il costo della politica, eliminando la cosa che riteneva in assoluto più pericolosa: la mancanza di trasparenza.

A distanza di mezzo secolo, la politica italiana, nonostante varie riforme del finanziamento del suo costo, sembraessere diventata l’esatto contrario di quello che era l’aspirazione del prete dell’appello agli uomini liberi e forti. E, di nuovo, siamo come di fronte ad una domanda drammatica: come faccio a salvare l’Italia dal male oscuro che la sta facendo diventare un deserto produttivo e civile? Con quali meccanismi selezionare persone che siano non solo per bene, ma soprattutto sufficientemente competenti da avere quella voglia di cambiare il mondo che è il migliore antidoto al degrado?

In effetti, la sensazione è che ci ritroviamo oggi a dover combattere un problema che si è rilevato più complicato e le cui conseguenze sono peggiori di quanto non si potesse teorizzare negli anni sessanta.

La corruzione da episodica, è diventata una maledizione alla quale sembra non sfuggire più alcun grande investimento e amministrazione. La mafia che, pure doveva essere stata sconfitta nei suoi territori, ha cambiato forme e sembra aver conquistato, persino, la Capitale. Il finanziamento pubblico ai partiti – introdotto dopo le prime proposte nel 1975 da un altro politico onesto come Flaminio Piccoli – ha portato nelle casse dei partiti quasi 3 miliardi di Euro solo negli ultimi vent’anni. Nonostante il fatto che esso sia stato abolito due volte: la prima con un referendum nel 1993 subito prima, appunto, che esso venisse reintrodotto sotto forma di rimborsi costosissimi; la seconda nel Febbraio di quest’anno, quando il governo Letta ha portato a compimento l’iter della Legge che elimina nel tempo qualsiasi forma di trasferimento diretto di risorse dallo Stato ai partiti e lo sostituisce con donazioni e trasferimenti di tasse volontari.

E, tuttavia, il dato di fondo è che, nonostante gli appelli accorati del Presidente della Repubblica sul potenziale eversivo dell’antipolitica, i cittadini italiani continuano a pensare che la politica non abbia praticamente valore. In un articolo del Febbraio scorso,Perotti avanzava la stima prudenziale che un milione e cinquecentomila italiani (almeno gli iscritti ai partiti) avrebbero trasferito alla politica venti milioni di euro; la realtà è che, invece, pur costando il due per mille nulla ai contribuenti, solo duecentomila di essi hanno scelto di dirottare sui partiti le tasse destinate allo Stato. Il risultato – 300.000 euro – è talmente misero da far prevedere fallimenti a catena tra chi, comunque, detiene ancora il potere.

Che fare?È immaginabile di voler mettere in discussione una legge approvata solo dieci mesi fa? Fu giusta la decisione del governo Letta, approvata anche dall’attuale ministro per le riforme istituzionali Maria Elena Boschi, di trasformare il Paese con i più generosi e opachi finanziamenti elettorali (secondo il rapporto sul finanziamento dei partiti prodotto dal consiglio d’Europa) nell’unico (insieme agli Stati Uniti) tra le grandi democrazie occidentali senza trasferimenti diretti dallo Stato ai partiti?

Intanto, c’è da rilevare che il collegamento tra finanziamento dei partiti e corruzione – almeno nelle forme che essa assume nel racconto che ne fanno gli episodi degli ultimi mesi – non è diretto o esclusivo.

Infatti, la corruzione, non è più – come ancora tuonava in un Parlamento silenzioso Bettino Craxi qualche giorno prima del lancio di monetine più famoso della storia d’Italia – dovuta solo alla necessità di finanziare il costo delle campagne elettorali: molti di coloro che hanno abusato delle istituzioni più di recente lo hanno fatto per pagarsi vacanze improbabili e squallide storie d’amore. In secondo luogo, c’è da dire che se è vero che non tutta la corruzione finanzia i partiti, è, altrettanto vero che non tutta la corruzione viene dai partiti: parte consistente del fenomeno è imputabile a dirigenti dell’amministrazione pubblica che in un’altra epoca avremmo giustamente definito “infedeli”: verso l’impegno di servire chi paga il loro stipendio.

Della legge sul finanziamento va, senz’altro, salvata un’intuizione che non possiamo più mettere in discussione: a decidere sono i cittadini. Ciòè giusto perché –lo stesso Don Sturzo ne converrebbe – se anche essi si sbagliassero nel ritenere che il sostegno dei partiti politici vale trecentomila euro all’anno, sarebbero loro stessi a pagarne le conseguenze e ad imparare (visto che la democrazia è apprendimento) dall’errore.

Semmai, come sostiene Pellegrino Capaldo, andrebbero elevati i benefici fiscali per le persone fisiche e limitare (come succede in Francia) le donazioni da parte delle imprese. E, forse, ancora più importante, dovremmo immaginare forme di finanziamento del costo dell’innovazione dell’offerta politica nel suo complesso. Innovazione che diventa, tanto più urgente, quanto più appare – ad esempio, attraverso l’astensione che non po’ più essere considerato un fenomeno sul quale versare qualche lacrima nei talk show – che essa è, nella sua interezza e per motivi strutturali, non più capace di rappresentare i cittadini. Un’idea è che il due per mille e le donazioni possano essere destinati anche a partiti che non sono attualmente presenti in Parlamento (esigenza che verrebbe rafforzata da leggi fortemente maggioritarie come quella attualmente in discussione al Parlamento); al cofinanziamento di movimenti nuovi (ad esempio, quelli che promuovono impegni su temi specifici); a fondazioni che promuovono l’impegno politico ma che non si schierano; alla sperimentazione di nuove forme di democrazia.

Vale, dunque, il caso di insistere su questa strada – difficile ma senza alternative perché l’ipotesi di tornare ai partiti del novecento non esiste- di costruire con i cittadini un rapporto fiduciario che non può essere imposto per decreto. E, tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente se il nuovo finanziamento della politica non lo vediamo come uno dei vertici di un triangolo di politiche indispensabili per sconfiggere la corruzione: una modifica delle norme che introducano forme di “pentitismo” che accelerino la rottamazione di una classe dirigente rimasta pietrificata troppo a lungo dai ricatti incrociati; una riforma dell’amministrazione pubblica che attraverso la trasparenza e un sistema di premi e punizioni renda possibile intervenire sulla fisiologia della cattiva prestazione prima che essa diventi patologia corruttiva.

In fin dei conti, c’è una sola cosa che è rimasta uguale dalla prima discussione al Senato sulla corruzione nel 1958: a preoccupare non è tanto che la politica costa ma che tale costo sia coperto da chi non è mai stato elettocon mezzi che rimangono segreti. È questo il veleno che porta i cittadini a non concepirsi più come tali e l’illegalità ad espandersi come un gas nello spazio che dovrebbe essere occupato dalle istituzioni.

Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 22 Dicembre

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