
La statua di Hafez al-Assad a Tartous, sulla costa mediterranea. Foto di Emanuele Valenti
“Sono arrivati all’improvviso e hanno cominciato a uccidere la gente in base a un’unica domanda: ‘Siete sunniti o alawiti?’ Se rispondevi alawita eri morto”. A nove mesi di distanza Samir, 68 anni, fa ancora fatica a raccontare quanto successo lo scorso marzo a Baniyas, una delle località sulla costa mediterranea della Siria dove sono state uccise centinaia di persone, quasi sempre membri della comunità alawita, fino a pochi mesi prima la comunità di riferimento della famiglia Assad. In tutta la regione le vittime sono state almeno 1.500.
Samir ha gli occhi lucidi. Il suo sguardo trasmette dolore. È più che sufficiente a raccontare il suo stato d’animo. Samir ci accoglie insieme a uno dei suoi due figli e ci confessa subito che quando parla dello scorso marzo ha spesso dei mancamenti: “Potrei anche svenire”. Dopo un paio di sigarette sembra essersi fatto forza.
Samir, se così si può dire, è tra i pochi fortunati. Lui e la sua famiglia si sono salvati. Sono sopravvissuti al peggiore fatto di sangue nella Siria del dopo Assad. “Siamo rimasti nascosti in casa, in silenzio, per 24 ore. Da fuori sentivamo grida e spari. Non è stato difficile immaginare cosa stesse succedendo”, racconta. “La mattina del secondo giorno ho chiamato un amico, oltretutto sunnita, chiedendogli se se la sentisse di venire qui in macchina. Appena è arrivato siamo scesi, ci siamo infilati nella vettura e siamo riusciti a fuggire proprio davanti agli occhi di un gruppo di uomini armati – ricorda – per terra c’erano diversi cadaveri”.
Nella Siria di oggi, come in quella di ieri, l’identità etnico-religiosa è importante. Durante la dittatura (1970-2024), la famiglia Assad aveva garantito agli alawiti, una piccola minoranza di derivazione sciita, le migliori posizioni all’interno della burocrazia statale e nell’esercito. Fedeltà al regime in cambio di un posto di lavoro. Non tanta ricchezza, molte famiglie alawite sono rimaste povere, ma comunque una serie di privilegi a discapito della maggioranza sunnita. Nel dicembre del 2024 il quadro si è rovesciato e oggi le nuove autorità guidate da Ahmed al-Sharaa sono espressione proprio dei sunniti. Se aggiungiamo che tredici anni di guerra civile e oltre mezzo secolo di dittatura hanno lasciato un Paese in ginocchio – distruzione ovunque, milioni di profughi, centinaia di migliaia di persone scomparse, fosse comuni, cimiteri che in pochi anni hanno accolto mezzo milione di morti – è facile immaginare come odio e voglia di vendetta siano sentimenti comuni, soprattutto in assenza di uno Stato che possa fare giustizia.
C’è tutto questo dietro a quanto successo nella regione mediterranea della Siria lo scorso marzo.
“Molti membri dei gruppi armati che sono arrivati qui per ucciderci – continua Samir dopo essersi acceso l’ennesima sigaretta – avevano la divisa delle nuove forze di sicurezza. Il nuovo Stato è responsabile di questo massacro”. In quei giorni Samir ha perso due fratelli. Il figlio di uno dei due, suo nipote, arriva e si siede ad ascoltare la nostra chiacchierata. Anche Murat, 35 anni, ha il viso consumato dalla stanchezza, con due grosse occhiaie nere. Ci spiega che è molto duro ricordare e parlare, ma che allo stesso tempo ne ha bisogno. Ci chiede di accompagnarlo a casa sua, a poche centinaia di metri dalla casa dello zio. Quando arriviamo, Murat ci fa segno di seguirlo fino al tetto dell’edificio, sono cinque piani di scale. “Ci hanno portati proprio qua, io, mio padre e i nostri vicini. Ci hanno legato le mani e il miliziano più anziano ha ordinato al più giovane di spararci. Dopo aver ricevuto una botta alla schiena sono svenuto – ricorda Murat – e quando mi sono svegliato ho visto che tutti gli altri erano morti”.
Come altri sopravvissuti anche Murat è convinto che molti di quei miliziani fossero delle nuove forze di sicurezza: “Nei mesi successivi ho visto di nuovo quei due uomini a un posto di blocco dell’esercito. Grazie a Dio non mi hanno riconosciuto, altrimenti avrebbero provato un’altra volta a uccidermi”.
La versione delle nuove forze di sicurezza è diversa, ma non del tutto.
Andiamo nel quartier generale della polizia di Baniyas. Si capisce subito dall’accento che nessuno degli agenti è del posto. Sono quasi tutti di Idlib, fino alla caduta del vecchio regime roccaforte dell’opposizione armata e della stessa organizzazione, Hayat Tahrir al-Sham, da cui arriva il nuovo leader siriano al-Sharaa. Dopo averci fatto diverse domande il comandante, Amer Al Madne, una folta barba nera ben curata, accetta di rispondere alle nostre: “A marzo i reduci del vecchio regime – ci spiega – ci hanno attaccati uccidendo diciassette dei nostri uomini. Per ristabilire l’ordine sono arrivati rinforzi da Damasco e da altre zone del Paese, ma con loro sono anche arrivati in autonomia singoli civili armati. Diversi non hanno rispettato i nostri ordini, da lì le violenze e i morti”. Quando gli facciamo presente quello che ci hanno raccontato alcuni superstiti, Amer Al Madne si limita a dire che lo Stato non si nasconde e che “alcuni militari sono sotto processo” e poi aggiunge che loro sono qui “per proteggere tutti, a prescindere dall’identità etnico-religiosa”.
Ma dopo quanto successo gli alawiti non si fidano in alcun modo delle nuove forze di sicurezza e del nuovo Stato. Non chiedono nemmeno che venga fatta giustizia. Ma senza giustizia e riconciliazione è impossibile immaginare un futuro per la Siria. È molto evidente quando si parla con i familiari delle centinaia di migliaia di persone scomparse sotto la dittatura e poi durante la guerra civile, in questo caso quasi sempre appartenenti alla maggioranza sunnita. A loro gli Assad hanno tolto tutto, anche la dignità.
A Damasco visitiamo la sede dell’Associazione dei Detenuti della Rivoluzione Siriana, che dà supporto a chi è uscito vivo dalle prigioni del vecchio regime ma anche alle famiglie degli scomparsi.
“Mio fratello era una persona pacifica. Mai avuto un’arma. Solo attività umanitaria. Le prime notizie su di lui le abbiamo avute grazie a quello che facciamo qui: tracciare le persone scomparse attraverso il ricordo di chi le ha incontrate in carcere”. Leena, 30 anni, lavora all’associazione da alcuni mesi. Dà il suo contributo a chi ha sofferto e sta ancora soffrendo tanto, ma allo stesso tempo cerca lei stessa l’energia e la forza per andare avanti. Il fratello venne arrestato nel 2014 e le ultime informazioni su di lui dicono che fino al 2023, un anno prima della caduta del vecchio regime, fosse nella temutissima prigione di Sednaya, non lontano da Damasco. Difficile essere precisi sul numero delle persone scomparse, ma le stime vanno dai 150 ai 300mila siriani arrestati e spariti prima e durante la guerra civile.
Leena ci presenta Malak, anche lei cerca suo fratello, arrestato più di dieci anni fa quando portava i feriti fuori da Douma, una delle città intorno a Damasco rimaste sotto assedio per anni e nel 2018 obiettivo di uno dei più grossi attacchi chimici della guerra. “Non so se sia ancora vivo ma ho il diritto di sapere. Voglio giustizia. Mi hanno dato un certificato di morte – spiega – ma alcune persone uscite di prigione mi hanno raccontato di averlo visto in un momento successivo rispetto alla data indicata su quel documento”.
Malak parla davanti a una cancellata con le foto di centinaia di persone sparite nel buco nero del vecchio regime. A Damasco, ma anche nel resto della Siria, ci sono tanti posti come questo. Le famiglie degli scomparsi cercano di tenere viva la memoria, si fanno forza a vicenda, tentano in qualche modo di fare pressione sul nuovo governo affinché trovi i loro cari e consegni alla giustizia i responsabili.
Visti i numeri e il fatto che la stessa famiglia Assad sia scappata a Mosca, è difficile immaginare come possa succedere. Un avvocato siriano che durante la guerra ha raccolto oltre un milione di documenti sulle atrocità del vecchio regime ci ha spiegato come allo stato attuale non ci siano nemmeno le leggi per indagare e perseguire tutti i responsabili. Qualcuno pensa che lo stesso nuovo governo non voglia andare fino in fondo per paura di creare ulteriori divisioni. È la ricerca di un fragilissimo equilibrio tra riconciliazione e giustizia l’unica cosa che potrebbe, forse, interrompere il circolo vizioso dell’odio e della violenza.


