Israele: una “democrazia belligerante” che imbarazza l’Occidente

Molti media sottolineano come Israele sia sempre più isolato in Occidente rispetto a Gaza. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il numero degli Stati filo-occidentali – soprattutto Australia, Indonesia, Giappone e Turchia e, in Europa, Spagna, Svezia, Grecia, Irlanda e Olanda – che detengono una percezione negativa d’Israele è in aumento. Governo ed esercito israeliani continuano a presentare l’attuale intervento militare – l’operazione “Carri di Gideon”, lanciata lo scorso maggio – come una risposta necessaria alla “minaccia esistenziale” posta da Hamas, quando una parte crescente della comunità internazionale non riesce più a percepire alcun pericolo nella massa affamata di palestinesi che si aggira intorno ai centri di distribuzione alimentare in costante pericolo di morte.

I sondaggi condotti tra l’opinione pubblica israeliana mandano messaggi discordanti: se il 67 per cento degli israeliani è favorevole alla fine della guerra a Gaza (sondaggio Panel4All, 25 giugno 2026), la popolarità del Likud dopo la guerra all’Iran è in crescita, confermando una certa stabilità della coalizione di governo. La fine della guerra sarebbe dunque auspicata più per una certa “fatica” legata al perpetrarsi del conflitto e per ottenere la liberazione degli ostaggi, che in segno di protesta contro il massacro in atto.

Altri sondaggi, condotti dall’Istituto di Democrazia Israeliano (Idi), rivelano che l’ottimismo è di ritorno, soprattutto a seguito dell’“operazione preventiva” contro l’Iran e in vista di un nuovo negoziato con Hamas e della possibile liberazione di dieci dei venti ostaggi vivi nei prossimi giorni, e che la fiducia nell’esercito e nel suo capo di stato maggiore, il generale Eyal Zamir, restano alte (68.5 per cento). Questi e altri dati raccolti sulla società israeliana mostrano un’immagine difficilmente digeribile per parte dell’opinione pubblica europea. Com’è possibile che gli Israeliani mostrino ottimismo in una fase in cui almeno tre diversi fronti di guerra restano aperti – nonostante le diverse tregue – senza una soluzione duratura in vista (Gaza, Libano, Iran) e conservino fiducia in un esercito responsabile di un vero e proprio eccidio a pochi chilometri da casa?

Il primo elemento della giustificazione collettiva è il risentimento: si dice spesso che gli ebrei israeliani si siano fermati al 7 ottobre 2023, che le loro coscienze siano rimaste così scosse dall’imprevedibile uccisione nelle loro case di 1.200 persone in un solo giorno, che ora nutrano soltanto rancore nei confronti della popolazione di Gaza, ritenuta responsabile quanto Hamas. L’astio ha, a sua volta, rafforzato le opzioni più estremiste, con l’82 per cento degli israeliani che appoggiano la deportazione dei gazawi all’estero e un 56 per cento che vi aggiunge anche la volontà di trasferire gli arabo-israeliani con cittadinanza, percepiti come una “quinta colonna interna”. Una posizione massimalista prima sostenuta solo dal partito Israel Beitenu di Avigdor Liberman.

Il secondo elemento è l’indifferenza rispetto alla “questione palestinese”. Una parte dei media e dell’opinione pubblica europea si interrogano su come sia possibile che gli israeliani non si indignino per la sorte delle oltre 55mila vittime palestinesi e, in generale, di fronte alle uccisioni di civili che si consumano ogni giorno oltre confine. Tuttavia, la risposta è semplice: gli israeliani, a maggioranza, non si curano di quello che avviene nei Territori occupati perché dalla fine degli Accordi di Oslo (1996) in poi non sono più abituati né a visitarli – l’accesso è loro interdetto – né ad incontrare i 7 milioni di arabi che vivono oltre gli alti muri di divisione che hanno eretto con la Cisgiordania (dal 2004) e con Gaza (2019).

Le nuove generazioni, che sono cresciute dopo l’affossamento degli Accordi, hanno completamente perso il contatto con i loro coetanei arabi e hanno virato in massa a destra[1]. I giovani ebreo-israeliani sono infatti stati educati a una versione della storia autocentrata dove gli arabi compaiono a stento[2] e i palestinesi non hanno un’identità collettiva, e sono esposti dal 1996 alla propaganda di una Destra revisionista e religiosa che ha impresso al sionismo una svolta etnica, messianica e nazionalista (definita in ebraico “hadata” o ritorno alla religione). Secondo questa, tutta la terra dal Mar Mediterraneo al Giordano appartiene agli ebrei e i palestinesi sarebbero solo degli ospiti ostili e molesti[3].

Nell’ultimo governo, al sionismo revisionista “classico” del Likud, il cui obiettivo primario era “solo” annettere tutta la Cisgiordania e conseguire il “Grande Israele”, si è sommato il sionismo religioso dei ministri Smotrich e Ben Gvir, che ritengono empio rilasciare anche un solo metro di terra conquistato dall’esercito di difesa israeliano (Idf) e auspicano il reinsediamento di coloni a Gaza per vendicare il disimpegno unilaterale del 2005.

Terzo, tutto l’apparato di potere mediatico lavora per rafforzare questa narrativa e per censurare le immagini delle vittime palestinesi, soprattutto dei bambini. Il canale televisivo privato Channel 14, estremamente popolare, non riporta alcuna notizia sul numero di civili uccisi ma incentra la propria copertura sulle operazioni militari e sulle perdite dell’Idf, sulla pietà nei confronti dei soldati, percepiti come caduti innocenti nell’ambito di un conflitto loro imposto dall’obbligo morale di difendere i civili..

Nondimeno, i media sono solo un ingranaggio della propaganda di guerra, i cui elementi fondamentali restano altri due: l’incapacità di mettere in discussione la moralità delle forze militari, considerate un esercito di difesa popolare, che dunque rappresenta tutti i cittadini, e il lento scivolamento in un conflitto “intrattabile”, dove la tenuta della democrazia è messa a repentaglio dal continuo perpetrarsi di uno stato di guerra.

Che l’Idf sia un esercito popolare è facile comprenderlo: esso ha mobilitato 295mila riservisti a cui si aggiungono 100mila ragazzi tra i 18 e i 22 anni coscritti per 32 mesi per l’obbligo di leva. Questo significa che circa 2.5 milioni di persone in Israele sono direttamente legate da parentele di primo grado a un soldato arruolato nell’esercito, trasformando il sostegno all’Idf in un fatto anche privato. Ogni critica all’esercito, al suo carattere difensivo e alla sua moralità è dunque suscettibile non solo di minare l’ordine interno (basato sul mito del sacrificio dei “nostri figli”, come spesso ci si riferisce ai soldati sulla stampa nazionale), ma anche di compromettere la fiducia nell’istituzione a cui è affidata la vita di un figlio, di un marito o un padre.

A questo si aggiunge che, dalla Seconda Intifada (2002), i vertici dell’esercito, nella figura dell’allora capo di stato maggiore Moshe Ya’alon, hanno coniato lo slogan secondo cui il conflitto coi palestinesi abbia carattere “esistenziale” e non “territoriale”. L’attacco di Hamas lo scorso 7 ottobre, con la presa d’assalto dei kibbutzim intorno alla Striscia, a maggioranza appartenenti all’ala pacifista, avrebbe rinsaldato questa lettura, rivelando l’intenzione di Hamas di non fare alcuna differenza tra Israele e i Territori occupati.

Infine, vi è da considerare lo stress test che il prolungamento della guerra impone alla democrazia israeliana. La guerra contribuisce al posticipo indefinito di ogni attribuzione di responsabilità politiche all’interno dell’establishment. Le commissioni d’inchiesta per molti non costituiscono più una priorità, in linea con le teorie sociologiche della gerarchia dei bisogni di Maslow che stabilisce che, quando si impone una logica di sopravvivenza, tutto gli altri bisogni passano in secondo piano. Nelle società contraddistinte da uno stato di guerra continua si instaura quella che Ben Porath definisce una “cittadinanza belligerante[4], che si distacca dal modello liberale per abbracciare un modello identitario o etno-nazionale imposto dal nuovo contesto di guerra prolungata e permanente.

Si tratta di un modello di cittadinanza alternativo a quello liberale, secondo cui tutti i processi deliberativi – tra cui la promulgazione della legge sulla fine dell’esenzione militare per gli ultraortodossi – sono rimandati a una pace futura, mentre la difesa dei diritti individuali si assottiglia in nome dell’interesse collettivo e di una presunta unità del corpo nazionale intorno a una causa comune. Se lo stato di guerra si somma a un modello di democrazia già in precedenza non liberale, come quello israeliano, giustamente definito dal sociologo Sammy Smooha una “democrazia etnica”[5] – che si identifica esclusivamente come portatrice di interessi del gruppo nazionale maggioritario – è evidente come lo spazio per i diritti individuali, soprattutto delle minoranze, si restringa progressivamente.

Il continuo stato di guerra, ovvero di “cittadinanza belligerante”, riduce lo spazio del dibattito pubblico. Se anche un segmento della popolazione israeliana rimane vigile rispetto al deterioramento delle libertà civili, la tolleranza del dissenso diminuisce. Due casi di attualità politica illustrano bene questa spirale: le parallele procedure di impeachment, attualmente in corso alla Knesset, del deputato arabo di Hadash, Ayman Odeh, accusato di apologia del terrorismo, e dell’avvocata generale di stato, Gali Baharav-Miara, incolpata di slealtà nei confronti del governo sul dossier dello Shin Bet. Nel primo caso si accusa un deputato arabo di Hadash di aver manifestato per la fine della guerra e se ne chiede l’espulsione dal Parlamento, nel secondo si incrimina l’avvocata generale per aver resistito alle pressioni del governo nel nome del rispetto delle procedure legali.

L’unità intorno alla bandiera, in sintesi, esclude tutti coloro (tra cui il 22 per cento dei cittadini arabi, e tutte le altre minoranze) che in essa non si identificano integralmente. Tuttavia, il danno più irreparabile è quello arrecato alla democrazia stessa, che assume sempre più in contorni di un regime autoritario, che sprona l’autocensura e incita al linciaggio contro le poche voci dissenzienti (si pensi alla fallita campagna orchestrata contro il quotidiano Ha’aretz nel novembre 2024).

I segni di ciò sono molteplici: dalle minacce istituzionali, come quelle esercitate dalla polizia israeliana, ormai controllata dal ministero della Sicurezza nazionale guidato da Ben Gvir, di deportare tutti i cittadini arabi che protestino in solidarietà con Gaza, denunciato dalla Ong Adalah, all’assenza di grandi mobilitazioni per il ritiro da Gaza per l’indifferenza della maggioranza di cittadini che non considera il tema prioritario né la democrazia a rischio. Un paragone, fra tutti, renderà evidente la regressione dello spazio democratico in Israele: se nel 1982, difronte all’eccidio di Sabra e Chatila (3.500 morti), 400mila Israeliani degli allora 4 milioni scesero in piazza per chiedere la fine della guerra, oggi, nelle maggior parte dei casi, si tratta di continue ma sporadiche manifestazioni che raggruppano tra i 400 e i 1.000 partecipanti, a nettissima maggioranza di estrazione laica[6]. Nessun partito ebraico dell’opposizione, inclusi “i democratici” di Yair Golan, si è spinto oltre al tabù di criticare l’esercito, attribuendo invece tutta la colpa al solo governo Netanyahu.

È troppo presto per prevedere se l’attuale cessate il fuoco in corso di negoziazione a Gaza possa avere esito positivo, anche se non comporterà la fine definitiva della guerra. È però già troppo tardi per notare come Israele si sia inoltrato lungo un corso illiberale che difficilmente rientrerà a fine conflitto, soprattutto se la società non riuscirà a interrogarsi a fondo su come il suo esercito, autodefinitosi “il più morale del mondo”, abbia potuto permettere tutto questo. Se Israele perderà la partita della democrazia, non potrà più rifiutare la giurisdizione della Corte Penale Internazionale sulla base della tesi che una democrazia funzionante con un potere giudiziario indipendente è in grado di condurre da sola indagini sui propri crimini.

 

 


Note:

[1] Il 73% dei giovani israeliani tra i 15 e i 24 anni si definisce di destra o estrema destra contro il 46% degli over 65. (CNN, 28 marzo 2025, Extremist views are all that many young Israelis have ever known | CNN)

[2]Times of Israel, 28 maggio 2025, Education minister unveils ramped-up Jewish, Zionist studies, mandatory Bible class | The Times of Israel; Ruth Margalit, The New Yorker, 23 agosto 2019, How the Religious Right Transformed Israeli Education | The New Yorker.

[3]Alan Waring, Fair Observer, 19 dicembre 2024, The “Greater Israel” Plan Has a Colossal Reach

[4] Citizenship under Fire: Democratic Education in Times of Conflict, Princeton University Press, 2015.

[5] Smooha, “Ethnic Democracy: Israel as an Archetype”, Israel Studies,1997.

[6] 750mila persone si sono raggiunte solo il 2 settembre 2024 solo per la liberazione degli ostaggi.

Immagine di copertina: alcuni palestinesi in fila per ricevere cibo nel campo di Nuseirat, Striscia di Gaza, 23 giugno 2025. (Foto di Moiz Salhi / Middle East Images via AFP).

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