Europa, torna l’antisemitismo
Ma la Polonia cerca il riscatto

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Le parole pronunciate dal primo ministro israeliano Benjamin Natanyahu all’indomani degli attentanti di Parigi e Copenaghen sono state perentorie, spiazzanti. «Gli ebrei furono uccisi in Europa, solo perché erano ebrei. Adesso l’ondata di attacchi continua», ha affermato  Natanyahu, invitando i correligionari del vecchio continente a emigrare verso Israele. «È la vostra casa».

Qualcuno ha sottolineato l’aspetto politico-elettorale di questi discorsi, legandoli alla data del 17 marzo, quando nello stato ebraico si apriranno le urne. Si rinnova la Knesset, il parlamento. Netanyahu è in svantaggio nei sondaggi e il fattore identitario potrebbe sollecitare la rimonta. Altri ritengono invece che il primo ministro ha comunque dato risalto a una verità: vale a dire che gli ebrei europei vivono una congiuntura storica segnata dalla mancanza di sicurezza. Questo al di là dei fatti scioccanti di Parigi e Copenaghen.

Ci sarebbero anche i numeri, a confermarlo. Un recente studio del Pew Research Center indica che in Europa la minoranza religiosa verso cui il tasso di intolleranza risulta maggiore è quella ebraica. È questo che avrebbe spinto settemila ebrei a lasciare nel 2014 la Francia, dove c’è la più grande comunità ebraica del continente. Secondo l’Agenzia ebraica, diretta dall’ex dissidente sovietico Natan Sharansky, nei prossimi anni altri 50mila ebrei effettueranno la stessa scelta.

Non tutti i dati però vanno nella stessa direzione. Il New York Times ha spiegato che in tempi recenti sono stati più gli ebrei che hanno lasciato Israele, direzione Berlino, rispetto a quelli che dalla Francia si sono spostati verso la Stato ebraico. Il giornale motiva questo andamento alla luce del conflitto israelo-palestinese e del tasso di insicurezza, probabilmente più accentuato di quello che permea l’Europa, da esso generato. La discussione, comunque, sarebbe infinita. Ognuno ha le sue ragioni e le sue stime da presentare.

Un paese europeo che negli ultimi anni ha rappresentato una storia positiva è la Polonia. Neanche in questo caso esistono certezze assolute, ma i dubbi tendono a essere fugati dal movimento di riscoperta delle radici ebraiche del paese, dalla proliferazione saggi e ricerche, dall’organizzazione di manifestazioni culturali e dall’inaugurazione a Varsavia, avvenuta a fine ottobre, del Museo della storia degli ebrei polacchi. Segna il picco del processo di maturazione della Polonia, ha scritto su The Guardian Timothy Garton Ash.

Questa storia, se vuole essere compresa, deve abbeverarsi di passato. La comunità ebraica polacca conta settemila membri, secondo il censimento del 2011. La ragione dello scarso peso demografico risiede nell’Olocausto e non c’è molto da aggiungere, rispetto alla vicenda tremenda dei tre milioni di ebrei polacchi vittime del piano genocida della Germania nazista.

Al termine della seconda guerra mondiale, tra sopravvissuti e rientri, c’erano in Polonia poco meno di 300mila ebrei. Molto presto il numero si ridusse. Molti se ne andarono perché nulla restava della vita di prima: la cultura ebraica, in ogni sua forma, era stata spazzata via. Il peso di Auschwitz, inoltre, era difficile da sopportare. Tuttavia influì soprattutto il clima post-bellico, segnato da episodi di chiaro stampo antisemita. Nel 1946, a Kielce, ci fu persino un pogrom. Una quarantina di ebrei furono massacrati. L’evento accelerò l’emigrazione.

L’Institute for Jewish Research di New York calcola che nella seconda metà del 1947 in Polonia erano rimasti solo 90mila ebrei. L’esodo proseguì negli anni successivi, stimolato tanto dalle sirene di Israele, fondato nel 1948, quanto dalle irreggimentazioni imposte dallo stalinismo.

Nel decennio successivo la situazione migliorò. Lo stalinismo fu liquidato e gli ebrei riuscirono a trovare spazio nella vita pubblica, ricoprendo importanti cariche nelle istituzioni e nel partito. Tutto finì nel 1968, quando esplose la faida di partito tra gli internazionalisti e la corrente del comunismo nazionale, guidata da Wladyslaw Gomulka. Si affermò quest’ultima, facendo leva sull’antisemitismo. La propaganda contro gli ebrei divenne tambureggiante e incoraggiò una nuova fuga.

Gli eventi del 1968 dimostrarono che la cultura antisemita era assai diffusa. Da una parte c’erano i retaggi della Seconda repubblica, vale a dire la Polonia (ri)creata al termine della prima guerra mondiale e vissuta fino al 1939, quando Terzo Reich e Urss la cancellarono nuovamente dalle mappe geografiche, dopo le spartizioni di fine ‘700 tra Austria, Prussia e Russia. Negli anni ’30 l’antisemitismo, conseguenza e strumento della progressiva affermazione di una visione etnica della nazione polacca, si manifestò con evidenza. Dall’altra parte, incisero elementi di natura emotiva. Il comunismo impose ai polacchi di rimuovere drammi nazionali come l’eccidio di Katyn e la compartecipazione sovietica alla distruzione della Seconda repubblica. È così che l’accento riposto sulla questione dell’Olocausto, nonostante il comunismo non volle mai calcarlo nel giusto modo, suscitò qualche fastidio tra chi invece subiva l’embargo sulle proprie disgrazie.

Le cose hanno preso a cambiare con la nascita di Solidarnosc, nel 1980. La cultura politica dei suoi massimi dirigenti si richiamava a una visione plurale della Polonia, eco dell’era romantica e del passato multiculturale e multietnico del paese. Questa corrente di pensiero fu ridotta a rango minoritario negli anni ’30, quando prevalse l’approccio etnico e nazionalista: la Polonia ai polacchi. Lo stesso di cui il comunismo, a scopo di consenso, si fece cinicamente interprete.

Caduto il regime, nel 1989, la strada aperta da Solidarnosc è divenuta sempre meno stretta. Si inizia a discutere di Katyn e i polacchi, mano a mano, capiscono che il loro dramma non può né deve più essere messo in contrapposizione con lo sterminio degli ebrei. Si parla anche di antisemitismo. Escono i libri dello storico polacco-americano Jan Gross. Uno che dice, senza troppe mediazioni, che i polacchi sono stati antisemiti e passivi davanti all’Olocausto. In tanti deplorano i suoi scritti, altri dicono che è vero che la Polonia ha il più alto numero di Giusti tra le nazioni, ma questo non deve portare a indulgere su certe deviazioni. Al già citato massacro di Kielce, al quale Adam Michnik, ebreo, giornalista, esponente importante di Solidarnosc ha dedicato un volume, Il Pogrom, si aggiunge quello di Jadwabne, villaggio dove alcuni polacchi del posto, con la complicità degli occupanti nazisti, uccisero nel 1941 oltre 300 ebrei. Anche in questa circostanza ci si è schierati e ci si è divisi. Ma la tendenza, benché oscillante, è quella di accettare che anche la Polonia ebbe le sue responsabilità nei confronti degli ebrei. Non fu solo vittima dei nazisti, come il regime comunista tentò sempre di dimostrare.

L’avanzare del processo democratico e di questi dibattiti è stato ed è tuttora affiancato dalla promozione di altri libri, di conferenze, di festival. Questo fenomeno ha dimensioni nazionali, è visibile in tante città. L’apertura del museo sulla storia degli ebrei polacchi di Varsavia rappresenta, viene da dire, un punto d’arrivo. È il simbolo di una Polonia che approda alla maturità e all’equilibrio. Magari in ritardo, ma ci arriva. Magari gli spigoli restano, ma sono meno pungenti. La particolarità del museo è che non racconta l’Olocausto, non si sofferma sulle stragi. Piuttosto, parla dei vivi. Di quello che gli ebrei hanno costruito in Polonia, del loro contributo alla storia della nazione.

È la stessa impostazione del Museo ebraico di Oswiecim. È molto più piccolo di quello di Varsavia, ma anche più vecchio. È nato negli anni ’90. Pionieristicamente, senza riscuotere all’inizio troppo interesse, ha voluto da subito raccontare la storia degli ebrei del posto, anziché la loro scomparsa. Oswiecim, per la cronaca, è la città polacca accanto alla quale i nazisti costruirono il luogo più terribile del ‘900: il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau. Un terzo degli ebrei polacchi fu ingoiato lì.

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