Quale politica nell’era dell’estrema ineguaglianza

Tutti concordano che a partire dagli anni Ottanta si sia assistito a un boom delle disuguaglianze prevalentemente dovuto al massiccio incremento dei salari più alti. Ovunque ci sono statistiche che lo dimostrano. Il punto è che queste crescenti disparità si pongono in netto contrasto con il declino dell’ineguaglianza che si era precedentemente sperimentato sia in Europa che in America. E d’altro canto è da sottolineare come questo recente aggravarsi della disuguaglianza faccia seguito a un lungo periodo di riduzione dei salari e disparità nella distribuzione della ricchezza in entrambi i continenti.

Il sistema attuale segna una frattura importante con il passato, invertendo la tendenza del secolo precedente. Pare sia definitivamente in atto un ritorno al Diciannovesimo secolo, che ha ripercussioni significative sulle nostre democrazie. Il “popolo”, inteso in senso politico come entità collettiva in grado di imporre in modo sempre più incisivo il proprio volere, è sempre meno un “corpo sociale”. La cittadinanza politica è andata avanti, mentre quella sociale è in fase di regressione. Questo strappo nella democrazia rappresenta un’inquietante minaccia per il nostro benessere. Se continuiamo così, lo stesso sistema democratico potrebbe finire per essere in pericolo. E l’emergere di movimenti populisti è al tempo stesso sintomo e forza propulsiva di tale crisi. Ma per comprendere l’attuale “grande inversione di tendenza”, bisogna partire dall’analisi della “grande trasformazione” che l’ha preceduta.

Il riformismo della paura

Lo sviluppo del movimento dei lavoratori e la sua traduzione in voti socialisti (con l’introduzione del suffragio universale) alla fine del Diciannovesimo secolo ha messo sotto pressione i governi conservatori. “Dobbiamo scegliere tra rivoluzione fiscale e rivoluzione sociale”, ne ha dedotto Emile de Girardin in Francia. Ma il caso più emblematico a questo riguardo è quello tedesco. Per Bismarck, l’opzione riformista rappresentava chiaramente un calcolo politico: il suo fine più immediato era quello di contrastare la diffusione degli ideali socialisti dando a vedere che il governo si stava preoccupando della classe lavoratrice. In altre parole in Germania il piano volto a ridurre le disuguaglianze sociali e che prevedeva indennizzi per i lavoratori è scaturito da quello che potremmo in realtà definire una sorta di “riformismo della paura”. La maggior parte dei paesi europei ha seguito l’esempio tedesco. Dopo il 1918, tutti questi fattori politici e sociali hanno contribuito a incentivare i governi a estendere e accelerare le riforme avviate prima della guerra.

Le guerre mondiali e la nazionalizzazione dell’esistenza

L’aumento delle ineguaglianze è strettamente correlato al progressivo scollamento di alcuni individui rispetto alle comuni vicissitudini umane e alla legittimazione del loro diritto di distinguersi e separarsi dagli altri. Il fenomeno è quindi legato alla crescente assunzione di priorità della sfera privata sulle norme pubbliche. L’esperienza della prima Guerra mondiale aveva invertito tale tendenza. In un certo senso, lo stato di conflitto aveva nazionalizzato la vita delle persone. Le attività private erano perlopiù tarate su condizionamenti collettivi, e pertanto i rapporti sociali tendevano a polarizzarsi tra due opposti: l’isolamento circoscritto all’interno della cerchia familiare o il coinvolgimento nelle problematiche di ordine superiore che affliggevano la nazione. Virtualmente tra la famiglia e il paese non esisteva una via di mezzo. Il fatto che la guerra mettesse a repentaglio l’esistenza di tutti aveva infuso nuova linfa ai principi fondamentali dello stato sociale di natura.

È per questo che l’esperienza della prima Guerra mondiale ha segnato una svolta fondamentale nell’evoluzione della democrazia moderna, recuperando in maniera diretta e palpabile l’idea di una società fatta di esseri umani tutti uguali tra loro. Il sentimento della fratellanza in battaglia e la commemorazione del sacrificio sono due fenomeni complessi, ma di certo hanno contribuito a spianare la strada a una maggiore solidarietà sociale. I risarcimenti ai veterani hanno indotto a riconsiderare in generale gli indennizzi sociali e gli altri trasferimenti distributivi.

La de-individualizzazione del mondo

La rivoluzione ridistributiva è stata resa possibile da tutte queste condizioni storiche e politiche. Ma è stata anche il frutto di una rivoluzione intellettuale e morale che ha reso concepibile tale ridistribuzione. In sintesi, la ridistribuzione è diventata possibile perché economia e società sono state “de-individualizzate” da intellettuali che hanno deciso di opporsi ai vecchi concetti di talento e responsabilità individuali. Ne è derivata una nuova visione della stessa impresa.

Alla fine del Diciannovesimo secolo la nuova concezione della natura della società ha cambiato il modo di pensare della gente rispetto agli ideali di uguaglianza e solidarietà. I padri fondatori della sociologia europea – Albert Schäffle in Germania, J.A. Hobson e L.T. Hobouse in Inghilterra, Alfred Fouillée in Francia – erano tutti concordi nel concepire la società come un tutto organico.

Il socialismo accademico in Germania, il fabianesimo e il neoliberismo in Gran Bretagna, il repubblicanesimo solidarista in Francia: la fine del Diciannovesimo secolo ha visto una convergenza di tutti questi diversi movimenti politici e intellettuali. Tutti infatti riformulavano in termini assai simili tra loro la questione delle modalità di costituzione di una società. E l’idea di una società composta da individui sovrani e autosufficienti ha lasciato il campo a un diverso approccio basato invece sull’interdipendenza.

In questo nuovo contesto le nozioni di diritto e dovere, merito e responsabilità, autonomia e solidarietà sono state radicalmente ridefinite. L’uguaglianza come ridistribuzione è diventata non solo un ideale concepibile, ma anche praticamente realizzabile. L’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito e i mutamenti nella tassa di successione erano quindi strettamente correlati alla crescente popolarità acquisita dall’idea che chiunque nascesse già con un debito nei confronti della società.

Un nuovo concetto di povertà e disuguaglianza

Lo sviluppo dell’assistenzialismo e delle istituzioni ridistributive è stato favorito da un sempre maggiore riconoscimento della natura sociale della disuguaglianza. L’opinione pubblica era sempre più incline a considerare l’organizzazione della società, piuttosto che le differenze oggettive e giustificabili tra gli individui o il comportamento personale, come la causa strutturale della disparità. Grazie a questa nuova rappresentazione della società, nella prima metà del Ventesimo secolo hanno preso sempre più piede le critiche di stampo socialista all’ordine sociale. Anche il concetto di povertà è cambiato.

Oggi, è chiaro che i fattori politici e storici alla base della “grande trasformazione” non esistono più. Dopo la caduta del comunismo, non c’è più spazio per un riformismo della paura. Le preoccupazioni di natura sociale esistono ancora, ma sono più legate a criticità come la violenza, la sicurezza o il terrorismo. Si riferiscono a un sistema statale autoritario e non solidale. Analogamente, le minacce di natura ecologica fanno temere per il destino delle generazioni future, ma in senso generale e astratto, non in termini di ridistribuzione sociale.

E poi c’è un elemento ancora più importante, che è l’impatto della trasformazione del capitalismo e della società. Il capitalismo che ha iniziato a emergere negli anni Ottanta si differenziava dalle precedenti forme di capitalismo organizzato fondamentalmente per due aspetti. In primo luogo era cambiato il suo rapporto con il mercato, così come il ruolo attribuito agli azionisti. In secondo luogo il lavoro veniva ora organizzato in modo nuovo. Il sistema fordista, basato sulla mobilitazione di enormi masse di lavoratori, aveva lasciato spazio a un’enfasi posta principalmente sulle capacità creative individuali. La creatività era così diventata il fattore cruciale della produzione.

Per descrivere tale mutamento sono state coniate definizioni come quelle di “capitalismo cognitivo” o “soggettività produttiva”. La qualità è diventata un tratto distintivo della nuova economia, segnando una brusca rottura rispetto alla precedente economia della quantità. Le routine lavorative si sono fatte conseguentemente sempre più diverse e i prodotti sempre più variegati. Tutti questi cambiamenti hanno accelerato la crisi in società fino ad allora governate dall’ideale dell’uguaglianza come ridistribuzione. Allo stesso tempo, la nuova epoca di disparità e di minore solidarietà ha rappresentato anche un periodo di maggiore consapevolezza della discriminazione sociale e maggiore tolleranza di parecchi generi di differenza, un aspetto spesso trascurato dai critici. Il quadro è a dir poco contrastante, e malgrado si sia perso terreno in certi ambiti ci sono stati anche dei progressi inconfutabili in altri, come per quel che riguarda lo status delle donne, l’accettazione delle differenze di orientamento sessuale e in generale per quanto concerne i diritti dell’individuo.

Per comprendere a fondo i recenti cambiamenti nelle nostre società, bisogna tenere conto di tutte queste divergenti tendenze. E un modo per farlo è quello di concentrarsi sulla trasformazione intrinseca alla “società degli individui”, che non si è manifestata all’improvviso alla fine del Ventesimo secolo, ma al contrario ha rappresentato la cornice di riferimento entro cui le istituzioni moderne si sono sviluppate per più di due secoli. In sintesi, quella che bisogna comprendere e analizzare è la transizione da un individualismo dell’universalità a un individualismo della singolarità, che riflette anche nuove aspettative democratiche.

Nei sistemi democratici associati all’individualismo dell’universalità, il suffragio universale ha significato per ogni individuo il diritto di esercitare la stessa parte di sovranità di qualsiasi altro. Nelle democrazie in cui invece la forma sociale è rappresentata dall’individualismo della singolarità, ogni individuo aspira ad apparire importante e unico agli occhi degli altri. Implicitamente chiunque rivendica il diritto di essere considerato una star, un esperto o un artista, ovvero di aspettarsi che le proprie idee e i propri giudizi vengano presi in considerazione e riconosciuti degni di valore. In questo nuovo contesto l’uguaglianza non ha perso nulla della sua importanza. La forma più intollerabile di disparità è ancora rappresentata dal non essere trattato come un essere umano, dall’essere rifiutato come privo di qualsiasi valore e dignità.

Essere umani qualunque

L’idea di uguaglianza racchiude quindi in sé il desiderio di essere considerato qualcuno, di essere visto come una persona uguale alle altre piuttosto che venire emarginato in virtù di una qualche peculiare differenza. Essere riconosciuti “uguali” agli altri significa quindi essere accettati per la genericità umana che ci si porta dentro (il che riconduce all’accezione originale di “umanità” come caratteristica di unità senza distinzione).

Tale genericità umana ha però assunto un significato più ampio e complesso, arrivando a includere il desiderio che la propria peculiarità – le proprie caratteristiche personali e la propria storia – venga riconosciuta dagli altri. Nessuno vuole essere “ridotto a un numero”. Tutti vogliono essere “qualcuno”. Da qui la crucialità del concetto di discriminazione, vista come il segno di un insulto sia alla similarità che alla singolarità. Come conseguenza di tutti questi diversi fattori, il concetto di uguaglianza sta attualmente attraversando una profonda crisi. Che possibilità abbiamo?

La prima è quella di tornare ai mali della fine del Diciannovesimo secolo, ai tempi della prima ondata di globalizzazione, recuperando quindi il nazionalismo aggressivo, la xenofobia, il protezionismo. Il protezionismo nazionale era infatti supportato da una visione meramente negativa dell’uguaglianza. Lo spiega bene Barrès: “L’idea di una “terra dei padri” implica una sorta di ineguaglianza a scapito dei forestieri”. In altre parole, lo scopo era quello di avvicinare tra loro alcune persone facendo leva su un rapporto di disparità.

Il tratto distintivo di questo genere di protezionismo della fine del Diciannovesimo secolo era il suo rappresentare un caso estremo, il risultato di una polarizzazione radicale di identità e uguaglianza. Esso riduceva il concetto di uguaglianza alla sola dimensione dell’appartenenza a una comunità come omogeneità, tratto a sua volta limitato a una negazione (l’essere “non straniero”).

La costituzione dell’identità ha sempre bisogno di una demarcazione, una separazione, una cesura di qualche tipo. Ma l’identità va anche giustamente collegata a un concetto positivo di esistenza condivisa, in modo da generare un sentimento democratico di appartenenza. È questo che ha differenziato lo stato rivoluzionario del 1789 dallo stato nazionalista della fine del Diciannovesimo secolo. Il primo era legato alla formazione di una società di uguali, il secondo concepiva l’integrazione in senso non politico, solo come fusione degli individui in un blocco omogeneo. La stessa visione nazional-protezionista è oggi alla base dei movimenti populisti in Europa e in America.

La seconda possibilità è quella di una politica della nostalgia che aspiri a un revival del repubblicanesimo civile e/o dei valori e delle istituzioni passati che avevano contraddistinto le vecchie democrazie sociali. Ultimamente Tony Judt ha auspicato un revival del genere nel suo saggio-testimonianza Guasto è il mondo. Malgrado ci sia grande nobiltà in questa visione, purtroppo essa non prende abbastanza in seria considerazione il carattere irreversibile dell’individualismo della singolarità, che non va confuso con l’individualismo inteso come egoismo e atomismo. Il punto cruciale è che la radicale inversione di tendenza non è conseguenza di un “contratto infranto” (vedi l’articolo di George Packer, “The Broken Contract” su Foreign Affairs di novembre/dicembre 2011) o di un fenomeno di depravazione morale. Essa deriva piuttosto sia da fattori di natura storica e politica che dalle trasformazioni strutturali che hanno investito le modalità produttive e la natura del legame sociale.

Finora, il neoliberismo ha rappresentato l’interpretazione più attiva di questi cambiamenti. Esso considera la società di mercato e la prospettiva della competitività generalizzata come esito della modernità in quanto forma auspicabile di umanità e realizzazione personale. Ma il neoliberismo non va neanche frainteso. Non è solo un’ideologia negativa e vittoriosa, ma anche una strumentalizzazione perversa della singolarità.

Le imprese moderne, per esempio, sfruttano la singolarità come mezzo di produzione senza tenere in alcun conto l’autorealizzazione dei lavoratori. Da ciò derivano nuovi tipi di conflittualità sociale che hanno a che fare con il rispetto e la vessazione morale. Il problema è che le critiche rivolte al neoliberismo spesso trascurano l’aspirazione positiva alla singolarità e non prendono in considerazione il fatto che esso modifica profondamente i giudizi relativi sia alle forme praticabili di uguaglianza che alle forme tollerabili di disuguaglianza.

Ad oggi, esiste infatti solo una possibile risposta positiva alle sfide del nostro tempo. Le teorie della giustizia riformulano la questione delle disparità trasformandole da un problema sociale a un problema interindividuale. Esse si basano su una nuova concezione delle “giuste disuguaglianze” fondata sulle nozioni di responsabilità e merito. Ovunque, a tale prospettiva è stato attribuito il nome di pari opportunità, pur con una grande eterogeneità di definizioni che spaziano dalle più minimaliste alle più radicali. Giustizia però non è sinonimo di uguaglianza. Non dice nulla sulla natura della società democratica. Ciò di cui si ha bisogno è un nuovo modello di solidarietà e integrazione in un’epoca di singolarità.

Se oggi c’è bisogno di una maggiore ridistribuzione, essa deve essere rilegittimata. In che modo? Attraverso una ridefinizione dell’uguaglianza che racchiuda in sé una dimensione universalista, vale a dire tramite un ritorno agli ideali delle rivoluzioni francese e americana, al concetto di uguaglianza come relazione sociale e non equazione aritmetica. In quelle epoche storiche, l’uguaglianza era concepita prima di tutto come relazione, come modo di strutturare una società, di produrre e vivere insieme. Era una qualità democratica e non solo un mezzo di distribuzione della ricchezza. E questa concezione relazionale dell’uguaglianza veniva articolata in riferimento ad altri tre concetti: similarità, indipendenza e cittadinanza.

La similarità deriva dall’uguaglianza come equivalenza: essere “simile” vuol dire condividere le stesse proprietà fondamentali, cosicché le restanti differenze non influenzino il carattere della relazione. L’indipendenza deriva dall’uguaglianza intesa come autonomia, è definita per negazione come assenza di subordinazione e positivamente come scambio equilibrato. La cittadinanza deriva dall’uguaglianza come partecipazione, e si costituisce nell’appartenenza a una comunità e nell’attività civica. Conseguentemente, il progetto di uguaglianza come relazione è stato interpretato in termini di un mondo di esseri umani pari tra loro (di simili, come direbbe Tocqueville), una società di individui autonomi, una comunità di cittadini.

Tali ideali sono stati minati dalla Rivoluzione industriale, che per la prima volta ha messo fortemente in crisi il concetto di uguaglianza. Per superare la seconda grave crisi che stiamo ora attraversando, bisogna recuperare lo spirito originario dell’uguaglianza in una forma che si adatti all’epoca attuale. Oggi i principi della singolarità, della reciprocità e della comunità possono dare nuova linfa all’idea di una società di uguali e al progetto di crearne una. Sono questi i principi che devono fare da base di legittimazione delle nuove politiche di ridistribuzione.

La realizzazione di una società di uguali dovrebbe essere il nuovo obiettivo del progresso sociale in una dimensione universalistica. Perché la cosiddetta “questione sociale” non riguarda solo la povertà e l’esclusione, ma anche il recupero di un contesto comune per l’insieme della società.

Pierre Rosanvallon insegna Storia Politica Moderna e Contemporanea al Collège de France di Parigi ed è direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales.

(Traduzione di Chiara Rizzo)

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