LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Carlo Lizzani, un cronista visionario

Non eravamo solo… Ladri di biciclette. Il Neorealismo è il titolo di un documentario di Gianni Bozzacchi con protagonista-conduttore Carlo Lizzani, il regista morto suicida a Roma all’età di 91 anni, lanciandosi nel vuoto come Mario Monicelli tre anni fa. Nel maggio 2013 Lizzani accompagnò il film, pur non diretto da lui, nella proiezione romana in anteprima riservata ad alcuni critici, dove lo incontrammo per l’ultima volta. Un gesto tipico del Gran Signore del cinema italiano: alto, magro, tanto elegante quanto riservato, sempre gentile, fedele alla vocazione dello studioso e del divulgatore non meno che al lavoro per la Settima arte che non interpretò mai nei termini della «sregolatezza» invece abusati da tanti giovanotti spesso privi del genio, oltretutto.

In Non eravamo solo… Ladri di biciclette, che venne poi invitato alla Mostra di Venezia, Lizzani ripercorre appunto l’avventura del neorealismo: non soltanto fu la più rilevante stagione del nostro cinema fra le macerie belliche o poco oltre, ma vale anche come un modo di vivere, una temperie culturale, una sfida coraggiosa che tutt’oggi, a quasi settant’anni di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale, «dicono» l’Italia nel mondo. Il neorealismo ci rende ammirati ed emulati dagli Usa all’Iran, dalla Cina all’Argentina. Lizzani ne fu testimone e partecipe nel 1948 come aiuto regista sul set berlinese di Germania anno zero di Roberto Rossellini. Colà incontrò la futura moglie “Titta”, coetanea e ormai quasi cieca, cui ha riservato fino all’ultimo un’autentica dedizione.

Un’esperienza, quella neorealistica, che dette il via a «un lungo viaggio nel secolo breve» come Lizzani volle intitolare l’autobiografia edita da Einaudi nel 2007. Il suo infatti è un percorso in cui il cinema e la politica, intesa quale partecipazione alle lotte dei più deboli nei ranghi della sinistra, non smettono di parlarsi, amalgamarsi e stimolare il riscatto sociale. Così è fin dai primi documentari del 1948-‘49 (Togliatti è ritornato, Viaggio al Sud, Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato), e dalla sceneggiatura di un altro film che avrebbe fatto storia grazie alla mondina in calze lacere Silvana Mangano, Riso amaro (1949), scritto da Lizzani con il regista Peppe De Santis e Corrado Alvaro. Quindi, il lungometraggio d’esordio Achtung! Banditi! dedicato alla Resistenza (1951), e via via titoli diventati famosi quali – in ordine sparso – Cronache di poveri amanti, Il gobbo, Banditi a Milano, Mussolini ultimo atto, San Babila ore 20, Fontamara ispirato al romanzo omonimo di Ignazio Silone e La vita agra a Bianciardi, Un’isola tratto dalla autobiografia di Giorgio Amendola, Caro Gorbaciov… Non meno «impegnate» sono le sue prove da regista per il piccolo schermo: Mamma Ebe, Il caso Dozier, Le cinque giornate di Milano, Maria Josè, Celluloide. Ancora nei mesi scorsi Lizzani meditava di girare un film, L’orecchio del potere, adattando sullo schermo un romanzo di Andreotti, per il quale avrebbe voluto Al Pacino protagonista: a suo modo, una sorta di omaggio al «nemico» Giulio che nel dopoguerra avversò il neorealismo invitando De Sica e gli altri «a lavare in famiglia i panni sporchi» del Paese.

Ma Lizzani è stato anche direttore della Mostra del cinema di Venezia dal 1979 al 1982, anni in cui riuscì a far rinascere la kermesse lagunare reduce dalla crisi postsessantottina, inventando – complice Enzo Ungari fra gli altri – le proiezioni di mezzanotte e altre iniziative per i più giovani. E ha firmato vari volumi di Storia del cinema italiano indispensabili dal punto di vista filologico, nonché ricchi di racconti, episodi, aneddoti di vita vissuta. Il suicidio lascia sgomenti in primis gli amici come Ugo Gregoretti, Ettore Scola, Francesco Rosi. Si sapeva che Lizzani era malato e i postumi di una caduta gli avevano inibito di tornare a Venezia nel settembre scorso, ma il carattere dell’uomo – pacato e razionale – era molto diverso dal piglio vulcanico e turbolento di Monicelli. Per quel che vale un tragico paragone del genere, da lui il gesto finale giunge più inaspettato che dall’altro.

Un cronista visionario dell’Italia migliore che si manifesta nei momenti più bui, ecco Carlo Lizzani  (Roma, 3 aprile 1922 – 5 ottobre 2013). Sarà bene non dimenticarlo.

(articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 6 ottobre 2013)

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