Libia, negoziati in alto mare
Attivismo egiziano, ma non basta

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Niente da fare. Neanche il Marocco riuscirà a ospitare l’ennesimo tentativo disperato di dialogo nazionale sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Il parlamento di Tobruk – l’assemblea libica riconosciuta dalla comunità internazionale, ma non dal Congresso Generale Nazionale, Cgn, di Tripoli – ha infatti annunciato che boicotterà i tavoli negoziali.

Se le due tutt’altro che compatte fazioni interne alla Libia non riescono a discutere una eventuale soluzione politica della crisi, neanche gli attori esterni implicati nella faccenda concordano nel pensare che la creazione di un governo di unità nazionale sia la prima condizione necessaria – anche se magari non sufficiente – per evitare che la Libia cada nel baratro della somalizzazione.

Soluzione politica per Algeria, Tunisia, Turchia e Qatar

A sostenere la soluzione politica sono in primis Algeria e Tunisia. Soprattutto la prima vuole infatti contenere l’interventismo dei paesi del Golfo, pronti ad affiancarsi all’Egitto in una guerra di procura. Non tutti però. Il Qatar, da anni il battitore libero della regione, sembra più allineato alla Turchia.

Del resto sono anni che Doha e Ankara fanno coppia fissa quando si tratta di sostenere e difendere quell’Islam politico rappresentato in Libia dal Cgn di Tripoli. Secondo alcune fonti, piuttosto che intervenire militarmente a sostegno della loro fazione preferita, entrambe le capitali sarebbero pronte a sostenere una soluzione politica. Questa mossa non è piaciuta alle autorità di Tobruk che hanno deciso di negare alle società turche la possibilità di operare in Libia.

Tandem Haftar-Al Sisi

I più interventisti sembrano Egitto ed Emirati Arabi Uniti, già accusati, lo scorso agosto, di aver lavorato di sponda per condurre raid aerei nei dintorni di Tripoli. Anche se entrambi hanno negato le accuse portate avanti da funzionari statunitensi, bombardamenti simili sono stati segnalati anche nelle settimane successive.

La settimana scorsa, il Cairo – che non ha mai smesso di dare assistenza militare alle autorità di Tobruk – è poi uscito allo scoperto. Con un intervento armato – prima aereo e poi terrestre – l’Egitto ha reso pubblica una volta per tutte la guerra di procura che combatte in Libia da almeno un anno. Già a inizio 2014 infatti si parlava di elementi dei servizi segreti egiziani in Cirenaica, dettaglio che faceva capire che il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi avrebbe potuto trovare nella parte orientale della Libia lo scenario dove mostrare i suoi muscoli.

Del resto erano mesi che non disdegnando l’opzione di una annessione della Libia orientale, l’Egitto continuava a inviare poche, ma costanti armi a Khalifa Haftar, il generale libico a capo delle milizie anti-islamiste. Coordinandosi con lui, il “nuovo” regime egiziano ha così esteso oltre i suoi confini la guerra ai suoi più acerrimi nemici interni, quei Fratelli Musulmani che nell’estate 2013 sono forzatamente usciti di scena, grazie all’intervento dell’esercito egiziano.

Interventismo egiziano

Dopo aver sollecitato –invano- al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un’azione militare, il Cairo ha domandato di eliminare l’embargo contro le forniture di armi a qualsiasi soggetto libico per permettere alle autorità di Tobruk di armarsi ulteriormente. Anche questa proposta è però rimasta tale.

Anche se il video dei 21 copti egiziani giustiziati dalle forze dell’autoproclamatosi “stato islamico” ha servito ad Al-Sisi il casus belli per l’intervento armato in Cirenaica, resta ora da vedere fino a che punto si estenderà la sua campagna di Libia.

Sul fronte internazionale, l’attivismo di Al-Sisi potrebbe dare al presidente egiziano un ruolo ancora più centrale nella lotta internazionale contro il “califfato”, aiutandolo a erigersi come il Martin Lutero arabo che combatte il fanatismo religioso ora alla ribalta.

Sul fronte interno, vendicando il sangue egiziano, Al-Sisi potrebbe poi guadagnare sostegno in un momento cruciale del suo mandato, quando la sua agenda politica rischia di essere messa in stallo dalle sempre più diffuse critiche di violazione dei diritti umani.

Ma a queste opportunità politiche si affiancano delle sfide. L’interventismo egiziano mette in primis a nudo le principali spine nel fianco del governo del Cairo: il Sinai e il confine libico, zone porose che continuano a minacciare la sicurezza nazionale.

L’Egitto infine non sembra in grado, da solo, di ricostruire il puzzle libico, evitando il collasso dell’ex patria di Gheddafi. L’interventismo di Al-Sisi sembra un passo più lungo della gamba destinato a fallire. In tal caso, le ripercussioni lungo il Nilo e dentro i ranghi militari non sarebbero poche.

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