Israele (e la Palestina):
ancora una terra promessa?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel 2013, un noto giornalista israeliano scrisse un libro intitolato “La mia terra promessa. Trionfo e tragedia di Israele”: si trattava di Ari Shavit, editorialista del quotidiano liberale Ha’aretz tradizionalmente identificato con l’aria liberal e pacifista del Paese. Il libro- poi diventato celebre nella traduzione inglese e annoverato tra i New York bestsellers– ripercorre la storia della conquista e dell’insediamento sionista in Palestina come una grande avventura, ebraica ed – in parte- di tutto il genere umano. Shavit sostiene di averlo scritto perché avvertiva il bisogno di un libro che finalmente riconoscesse al sionismo il ruolo di grande movimento politico, senza demonizzarlo, come abitualmente avviene a Sinistra, perché successivamente degenerato nell’occupazione della Cisgiordania, ma al contempo senza dimenticarne l’elemento tragico intrinseco, che fa sì che all’avventura ebraica in Terra Santa abbia corrisposto la parallela distruzione di un’altra civiltà.

In passaggi molto lirici e con toni moderati da intellettuale israeliano di terza generazione, Shavit ci conduce a riflettere su Israele e sull’impossibilità per questo Stato di avviare relazioni normali con la regione circostante (e con il resto del mondo). La sua lettura a tratti apre degli spiragli profondi di analisi, a tratti commuove, ma in alcuni passaggi lascia anche perplesso un attento osservatore: il leitmotiv sotteso al libro è che Israele non sia un Paese normale, né voglia esserlo. Mentre sul fatto che non lo sia si riscontra quasi unanime accordo, il fatto di non potere o non volerlo essere appare ad un lettore esterno piuttosto come una scelta. Sorge allora un ragionevole dubbio: che tutta questa tragedia non si riduca in una terribile necessità indotta da un contesto storico preciso (la diffusione dell’antisemitismo in Europa), ma anche protratta da scelte altrettanto significative, consapevolmente e volontariamente adottate dalle successive generazioni?

Il dubbio ancestrale è che la narrazione di Shavit si concluda in un’autoassoluzione fondata sulla tragicità assoluta dell’essere, sul fatto che i due popoli entrambi legittimamente aspiranti alla terra non abbiano altra via percorribile oltre a quella di un conflitto atavico ed eterno.

Quella che Shavit definisce in un passaggio del suo libro “la rivoluzione più ambiziosa e audace del ventesimo secolo” – ovvero il sionismo e la nascita dello Stato di Israele- non suscita pari entusiasmo né nei Paesi arabi circostanti, né in Paesi terzi, che pure hanno vissuto la decolonizzazione e l’approdo all’indipendenza più o meno negli stessi anni. Né si è tradotta mai in un modello esportabile altrove, in un’ideologia dalla portata veramente universalistica. La creazione di Israele risponde al desiderio ed alla capacità -quella sì, davvero ammirevole- degli ebrei europei di reinventarsi una patria altrove, fuori dall’Europa nella quale avevano sempre abitato, ma non necessariamente ad un progresso umano passato alla storia come un grande avanzamento collettivo, celebrato e condiviso da tutta l’umanità.

La stessa conclusione del libro punta in questa direzione, quando afferma che “lo Stato ebraico non assomiglia a nessun’altra nazione. Non ha da offrire né sicurezza, né benessere, né pace mentale, ma l’intensità di vivere sempre all’estremo” e suggerisce una via -o una soluzione al conflitto- che appare quanto mai dettata dall’isolazionismo e dall’eccezionalità ebraica: “una volta che saremo in grado di ritirarci dai Territori occupati (cosa che Shavit auspica), dovremo erigere un altro alto muro per proteggerci”. Un’affermazione condivisibile, non fosse che questo stato di cose non sia affatto il prodotto di una cospirazione e aggregazione di forze negative, ma della volontà ferma dei dirigenti israeliani e palestinesi di mantenere in questo modo le rispettive popolazioni in reciproca cattività.

Perché questa lunga digressione sul libro di Shavit come preludio alla riflessione più generale sull’attuale condizione di Israele al 2016? Perché oggi che il conflitto arabo-israeliano diventa sempre più marginale nello scenario del Medio Oriente, è maggiormente possibile scorgere come esso sia stato indotto ed autoalimentato da due classi politiche (e due élite economiche e di sicurezza) che hanno tratto vantaggi dal perpetrarsi del conflitto, costruendo e nutrendo il mito di identità nazionali sigillate ed antitetiche nelle quali ormai hanno finito per credere la maggior parte dei rispettivi cittadini.

Un po’ come sta avvenendo in parallelo all’Europa, colpita al cuore dal terrorismo ed abbandonata da classi dirigenti, nazionali ed europee, che speculano sulla paura delle persone comuni, essendo prive di una qualsiasi visione costruttiva del futuro. Occorrerebbe, invece, ricordare ai cittadini di Paesi democratici che esiste sempre un’alternativa al presente, altrimenti non si è più all’interno di una visione politica del mondo, ma ci si inoltra in un sentiero tortuoso che, partendo da una concezione ermetica dell’identità (religiosa, nazionale o di altra natura) approda ad una rappresentazione manichea della realtà in cui eventi, popoli e conflitti si esplicano tutti attraverso una meccanica e rigida dicotomia che non permette né sfumature, né libero arbitrio, ma solo ancestrale appartenenza.

È per questo che, partendo dal Medio Oriente ed estendendo l’analisi all’Europa, che ormai versa nella stessa stagnazione politica, è possibile vedere in controluce un’infelicità ed un malessere che un tempo erano solo arabi- come scriveva ammirevolmente il celebre scrittore libanese Samir Kassir (Considerazioni sull’infelicità araba, 2004)-, ma che oggi sono diventati anche israeliani ed europei.

Come un crescendo, i primi a smettere di credere realmente nella capacità della politica di dispiegare un futuro diverso sono stati i Palestinesi, che dalla morte -forse indotta- di Arafat (2004) ad oggi non hanno mai più creduto alla possibilità di ottenere un proprio Stato.

Il loro malessere diffuso e impossibilitato a trovare sbocchi politici ed istituzionali ha prodotto due sanguinose Intifade ed un’ondata di accoltellamenti attualmente in corso che alcuni identificano come una terza “Sollevazione” (l’”Intifada dei coltelli”) ed altri, invece, minimizzano come una serie di irrazionali esplosioni di violenza individuali dettate dall’esasperazione di giovani “lupi solitari”. Tuttavia, qualunque etichetta si voglia attribuire al disagio palestinese, è evidente che, sul piano interno, esso sia ben profondo e che all’orizzonte non si profilino soluzioni politiche all’attuale condizione di totale stallo in cui versano– con una Autorità palestinese irriformabile e non più rappresentativa ed una divisione territoriale e politica tra Cisgiordania e Gaza che col tempo si va approfondendo-: stallo rafforzato, sul piano esterno, dalla crescente indifferenza del mondo arabo e della comunità internazionale. La Francia, che lo scorso maggio aveva provato a riportare l’attenzione sul processo di pace, appare oggi ormai paralizzata dall’ondata di attentati interni e dal difficile dialogo sociale condotto sulla riforma del lavoro, mentre il mondo arabo è piagato da ben altre fratture e spaccato in due fronti in guerra fredda tra loro -in Iraq, Yemen e Siria- che si contendono l’egemonia nella regione.

Lo stesso malessere è poi trasmigrato negli Israeliani, con l’unico risultato di trasformare a sua volta una comunità politica dinamica e aperta in uno strano conglomerato di tribù eterogenee che votano quasi unanimemente a destra da circa 24 anni (con la breve parentesi di Ehud Barak, 1999-2001) perché identificano come problema centrale del Paese la sicurezza. Sicurezza che, a parere della maggior parte dei cittadini israeliani, necessita di una guida forte e sicura, perfino sconfinante l’autoritarismo espresso dal terzo governo Netanyahu, soprattutto dopo il nuovo “rimpasto a destra” con Lieberman (maggio 2016). Un governo che assegna strutturalmente alla minoranza araba del Paese (il 20% degli israeliani) solo un ruolo marginale, che affronta la lotta all’”Intifada dei coltelli” con la sola repressione e la costruzione di nuovi muri e blocchi in cemento, che in politica estera propone di attaccare l’Iran per sconfessare la minaccia di proliferazione nucleare nella regione .al contempo ventilando la possibilità di una nuovo round di scontri con Hizbullah e Hamas., senza però considerare l’ISIS un problema, anzi allineandosi all’”asse sunnita” guidato dall’Arabia Saudita, Paese all’origine della diffusione della devastante ideologia wahhabita che sta insanguinando l’Occidente.

Un governo che in politica interna ordina il trasferimento di beduini contro la loro volontà in nuove città artificiali nel deserto, costruisce altre colonie per ospitare i nuovi immigrati ebrei in provenienza da tutto il mondo (ma soprattutto da un’Europa occidentale al collasso) e imprigiona i rifugiati eritrei e somali in CIE di nuova generazione perché entrati illegalmente nel Paese -in assenza, però, di alcun mezzo legale di accedervi-, inviando loro un messaggio chiaro sulla sua indisponibilità ad accoglierli. Infine, un governo che non riesce o non vuole porre un tetto alle crescenti disuguaglianze economiche del Paese (il 18.6% degli ebrei israeliani vivono sotto la soglia di povertà, dati OECD 2015), all’origine delle manifestazioni sul Boulevard Rothschild del 2011. Un Paese che poggia su un tessuto ancora sufficientemente democratico da processare un proprio soldato che sbaglia -Elor Azaria, accusato dell’uccisione a sangue freddo di un Palestinese immobilizzato in sua custodia ed attualmente sottoposto a giudizio-, ma che rischia di attingere da questa positiva fibra morale ancora vitale del Paese un’ulteriore dose di sciovinismo, eccessiva autostima e fiducia in quello che gli Israeliani continuano a definire l’”esercito più morale del mondo”.

Insomma, la “terra promessa” è sempre più una terra in cui il conflitto permanente porta rispettivamente le società israeliana e palestinese ad appiattirsi al loro interno, a mettere a tacere le voci dissenzienti, a coltivare un’autopercezione narcistica e astorica di sé stesse come perenni vittime. Ne sono un esempio eclatante le recenti dichiarazioni velleitarie rilasciate dal presidente Abbas sull’intenzione di citare in giudizio la Gran Bretagna per la promulgazione della dichiarazione Balfour del 1917: quasi il dibattito ormai si annodasse su sé stesso ed ogni anno compiesse un passo indietro, rintracciando colpe e responsabilità ancora più ataviche più in là nel tempo.

Tutto questo mentre il Vecchio mondo appare sempre più assorbito dai propri problemi interni per fungere da mediatore in Medio Oriente e il Nuovo (gli Stati Uniti) assiste distratto agli sviluppi in Medio Oriente, guardando piuttosto alle elezioni presidenziali del prossimo novembre e promettendo in toni escatologici e decontestualizzati di “continuare a sostenere Israele” qualunque sia il candidato che venga eletto. Tuttavia è proprio in questo momento che il mondo esterno è distratto che potrebbe aprirsi uno spiraglio per Palestinesi e Israeliani per negoziare direttamente tra loro un modus vivendi, senza che i negoziati vengano dirottati dagli interessi di potenze esterne e estesi a Paesi che, con il pretesto di mediare, perseguono la loro indipendente agenda politica. È proprio in questo momento dall’ondata di violenza senza pari che imperversa nella regione, che Israele e Palestina dovrebbero trarre la forza e la consapevolezza della necessità di ridimensionare le loro richieste e i loro timori reciproci, pena l’essere trascinati in conflitti regionali molto più ampi. Eppure il momento trova due classi dirigenti logore e impreparate, schierate sterili posizioni identitarie ed incapaci di assumersi il peso di compromessi pragmatici tali da garantire alle loro società un futuro migliore.

E piuttosto di chiedersi come fa Shavit se “la psiche collettiva del nuovo Israele sia ancora capace di affrontare le tragiche circostanze in cui il Paese si trova a vivere”, quasi esse fossero ineluttabili, Israele e la Palestina avrebbero bisogno di persone che si chiedessero come sia possibile convivere costruendo un sistema di governo in cui vengano riconosciuti il massimo dei diritti a tutti gli abitanti di quel luogo di odio, violenza e ingiustizia che è oggi la Terra promessa.

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