Un riformista è il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Appena due mesi fa sarebbe stato impensabile: invece è proprio questo l’esito della crisi politica aperta in Iran dall’improvvisa scomparsa dell’ex presidente Ebrahim Raisi, ucciso dal crollo dell’elicottero in cui viaggiava il 19 maggio scorso.
Masoud Pezeshkian, cardiologo e chirurgo, era stato nei primi anni 2000 il ministro della Salute nell’amministrazione di Mohamad Khatami, il riformatore che aveva impresso le prime radicali aperture politiche e culturali nella società iraniana. Da allora però il fronte riformista è stato progressivamente emarginato, ridotto a una debole opposizione fuori dai giochi, molti dei suoi esponenti in galera o all’indice. Si capisce dunque la sorpresa di molti, in Iran e fuori, di fronte alle elezioni del 28 giugno, e soprattutto al ballottaggio il 7 luglio scorso: quando Pezeshkian è stato eletto con il 53,6 per cento dei voti battendo l’ultraconservatore Saeed Jalili. E la sorpresa, ancor prima del voto, stava nel fatto che un riformista dichiarato avesse passato il vaglio del Consiglio dei Guardiani, l’organismo di giuristi islamici che ha potere di veto sulle candidature alle cariche pubbliche.
Un capovolgimento rispetto alle presidenziali del giugno del 2021, quando lo scomparso Raisi era stato eletto di fatto senza concorrenti: i Guardiani avevano messo il veto su qualunque avversario politico di un qualche peso, riformista o moderato, squalificando perfino l’allora speaker del parlamento Ali Larijani, già portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale e negoziatore nucleare, esponente conservatore ma vicino al moderato ex presidente Hassan Rohani.
In altre parole, tre anni fa l’organismo di controllo aveva voluto garantire l’elezione dell’unico candidato favorito dal sistema, cioè appunto Ebrahim Raisi, allora capo della magistratura e dirigente della facoltosa fondazione religiosa Astan-e Qods-e Razavi di Mashad, uno dei centri di potere informali della Repubblica islamica (la carriera di Raisi era cominciata nel 1988, quando fece parte del comitato di magistrati che approvò l’esecuzione sommaria di migliaia di detenuti politici).
La folgorante ascesa e l’elezione blindata avevano portato molti a considerare Raisi come il più probabile successore al leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei. Il Leader aveva voluto garantirsi il controllo diretto su tutte le articolazioni del potere, composto da istituzioni elettive e non, nella peculiare architettura costituzionale della Repubblica islamica. Quindi pazienza se Raisi veniva eletto con una partecipazione al voto del 48,8 per cento, un minimo storico (ma da allora è calata ancora: 41 per cento alle elezioni parlamentari dello scorso febbraio, le meno partecipate della storia dell’Iran repubblicano; poco meno del 40 per cento al primo turno del 28 giugno scorso).
Questa volta, al contrario, un riformista viene ammesso nella competizione (e la vince). Perché? Una manovra di facciata, un modo per ridare legittimità a un sistema screditato? Molti ne sono convinti. Lo scollamento tra i cittadini e il sistema politico non è mai stato così evidente, la fiducia nel futuro mai stata così bassa. E la diserzione dalle urne preoccupa il vertice della Repubblica Islamica, che ha sempre sbandierato la partecipazione dei cittadini come segno di legittimità.
Un bilancio disastroso
Il fatto è che la presidenza Raisi ha esacerbato tutti i motivi di malcontento nel paese. Con rara insipienza politica ha lanciato campagne di moralizzazione e dato mano libera alle squadre della “guida morale”, contro il senso comune ormai generale: finché la morte di Mahsa Jina Amini in custodia di polizia, nel settembre del 2022, ha innescato una protesta più diffusa e generalizzata mai vista. Al movimento “Donna vita libertà” il potere ha risposto con la repressione, suscitando critiche all’interno del sistema stesso. Allo stesso modo ha represso la protesta tra l’etnico e il sociale in Baluchistan e nel Kurdistan iraniano, e le ondate di scioperi e proteste di lavoratori che continuano da anni ad attraversare l’Iran (già con l’amministrazione Rohani, a dire il vero), benché sotto il radar dei media internazionali: dagli insegnanti ai camionisti, ai lavoratori precari dell’industria petrolifera agli impiegati pubblici, le classi lavoratrici e la piccola borghesia impoverita da sanzioni e crisi economica.
Insomma, quello di Raisi è un bilancio disastroso per il benessere degli iraniani, ma anche per la stabilità del sistema. Il Leader e i suoi stretti alleati devono aver pensato che né la corrente oltranzista (i “fedeli ai principi”), né il più estremo “fronte della resistenza” (jebheh-ye paidari) dello sconfitto Jalili, potessero gestire una crisi interna così profonda.
Dunque è proprio per garantire la sopravvivenza del sistema che il vertice della Repubblica islamica ha deciso di correggere il tiro, e riaprire il gioco politico interno (e non è la prima volta che questo succede). “Con nostra grande sorpresa, questa volta per la Repubblica Islamica un’affluenza alta è più importante che sapere chi viene eletto”, notava il commentatore riformista Saeed Leylaz (al Financial Times). Naturalmente la successione a Khamenei resta fondamentale, ed è una partita in cui è prevedibile un ruolo prominente dell’apparato militare: solo, con ogni evidenza questa partita è stata separata da quella del governo, osserva lo storico e politologo Eskandar Sadeghi-Borujerdi.
Anche così, l’elezione di Masoud Pezeshkian è un esito tutt’altro che banale, come testimoniano almeno due dati. Uno è che al secondo turno la partecipazione al voto è salita di circa 10 punti percentuali: segno che molti iraniani hanno visto nel mite cardiologo riformista un barlume di speranza. Il secondo è che il valore del rial iraniano al cambio libero ha ripreso qualche punto (il 26 luglio era scambiato a 586.500 contro un dollaro, un valore del 6 per cento più che alla vigilia delle elezioni): anche gli operatori economici esprimono qualche ottimismo.
Masoud Pezeshkian non è un radicale e certo non promette di cambiare il sistema della Repubblica Islamica – né potrebbe. È fedele al sistema. È stato però tra i pochi deputati a condannare da subito la morte in custodia di Mahsa Jina Amini, e la successiva repressione. Sa quali sono i (limitati) poteri e prerogative di un presidente della repubblica, nel sistema iraniano, e parla di “dialogo costruttivo” con tutto l’arco parlamentare. Ma un presidente può fare una grande differenza nel clima politico, sociale e culturale del paese – molto dipende dalla sua personalità, e da chi lo circonda.
Gli uomini (e le donne) del presidente
La campagna di Pezeshkian, cominciata in sordina, è decollata con l’aiuto di due figure: l’ex ministro degli Esteri Javad Zarif, artefice del negoziato che nel 2014-15 aveva portato all’accordo sul nucleare tra l’Iran e sei potenze mondiali (cosa che ne ha fatto uno dei politici più popolari in Iran, e il più inviso agli oltranzisti), e Mohammad Javad Azari Jahromi, già ministro dell’Informazione e delle Telecomunicazioni nel 2017-2021. Entrambi dunque vengono non dai ranghi riformisti ma dal governo del moderato e “pragmatico” Hassan Rohani.
Ricorsi della storia: il candidato sconfitto, Saeed Jalili, già negoziatore nucleare (ai tempi dell’ex presidente Ahmadi Nejad), è stato tra i grandi oppositori all’accordo siglato nel 2015. Più tardi ha sostenuto una legge approvata dal parlamento iraniano nel 2020 (contro gli auspici del governo Rohani allora in carica), che impegnava il governo a espandere il programma nucleare. Proprio in quel momento erano in corso negoziati con l’amministrazione Biden per rientrare nell’accordo, da cui si era ritirato il predecessore Donald Trump. Zarif in seguito ha rivelato che i negoziati saltarono anche a causa di quella legge chiaramente ostile, facendo sfumare anche la prospettiva di alleggerire le sanzioni che pesano sull’economia iraniana. E l’ex ministro degli Esteri lo ha ampiamente ricordato, durante la campagna elettorale per Pezeshkian: “Dietro ogni sanzione c’è quest’uomo [Jalili, Ndr] Ogni occasione persa per il negoziato si deve a lui”, ha ripetuto in decine di discorsi in tutto il Paese (rivelandosi un attivista politico di grande verve, oltre che diplomatico sperimentato). La polarizzazione tra fautori dell’accordo e oltranzisti delle sanzioni è stata centrale nella sua campagna. Secondo le prime analisi del voto, anche questo ha spinto molti moderati a votare Pezeshkian.
Insediato il 30 luglio, il presidente si prepara a presentare il suo governo. Il capo del suo team di transizione, cioè lo stesso Javad Zarif, ha già annunciato che avrà più facce giovani, donne, e appartenenti alle minoranze religiose, in particolare sunniti. In un intervento pubblicato dal Tehran Times, quotidiano semi-ufficiale in lingua inglese, il presidente eletto Pezeshkian afferma di aver chiesto il voto degli iraniani “su una piattaforma di riforme, di unità nazionale, e di impegno costruttivo con il mondo”.
La domanda ovvia è quali margini di manovra avrà il presidente Pezeshkian, con un Parlamento dominato da conservatori e oltranzisti. Unico segnale positivo è che il leader, prima autorità dello Stato, ha esortato il parlamento a votare prontamente la fiducia al futuro governo.
Il programma politico
Durante la sua campagna il presidente ha promesso di impegnarsi in tre aree: le libertà civili; il dialogo internazionale; e misure per dare respiro all’economia. Sul primo punto le aspettative sono ovvie. Limitare la censura, riaprire la vita culturale, allentare la pressione dello stato normativo (del resto da parecchie settimane ormai le squadre della “polizia morale” sono scomparse dalle strade). Alleggerire il controllo su internet (in questo Azari Jahromi avrà il suo peso: da ministro si era opposto all’oscuramento di Instagram, ultima piattaforma social occidentale che ancora funzionava e che i conservatori hanno poi effettivamente censurato – insieme a Google Play, dando così un duro colpo a tutte le startup iraniane). Anche se tutto questo sarà continuo oggetto di scontro con le correnti oltranziste, come avviene da quarant’anni.
Quanto alla politica internazionale, Pezeshkian ha dichiarato di voler riannodare il dialogo sul nucleare, allentare la tensione con gli Stati uniti e l’Europa, eliminare le sanzioni economiche che soffocano il paese, oltre a coltivare buoni rapporti con tutti i vicini. Gli indirizzi strategici di politica estera non sono prerogativa del presidente ma dell’ufficio del Leader, prima autorità dello stato, in coordinamento con il Consiglio di sicurezza nazionale; con l’ayatollah Khamenei viene di solito concordato il nome del ministro degli esteri. Insomma, non bisogna aspettarsi cambiamenti di fondo nella strategia di difesa nazionale (fondata sul cosiddetto “asse della resistenza”). Una diplomazia di dialogo potrebbe in effetti diminuire la tensione – anche se prevedibilmente non molto succederà, prima di sapere chi sarà il prossimo presidente degli Stati uniti.
Infine, l’economia. Le sanzioni hanno impoverito la gran massa dei cittadini e creato alcune grandi fortune. Contenere l’inflazione (arrivata a sfiorare il 50 per cento su base annua, secondo statistiche ufficiali), frenare il crollo del potere d’acquisto dei cittadini, creare lavoro, migliorare le condizioni di vita: ma quale governo non farebbe queste promesse? Nel suo team di transizione, il presidente Pezeshkian ha chiamato l’ex ministro dell’economia del governo Rohani, insieme ai dirigenti della Camera di commercio e industria, e vari ex ministri e amministratori. Anche in questo caso, il presidente eletto promette concertazione. In attesa di conoscere i suoi ministri e le future manovre economiche, c’è da chiedersi se la concertazione sarà estesa alle organizzazioni dei lavoratori (quelle riformiste e quelle indipendenti, finora criminalizzate), e come risponderà la nuova amministrazione alle future, prevedibili ondate di rivendicazioni sociali.
Oggi intorno al nuovo presidente c’è aspettativa. Non l’entusiasmo che aveva accompagnato l’avvento di Khatami, e neppure il sospiro di sollievo che aveva salutato Rohani – ma pur sempre l’aspettativa di un qualche cambiamento. Qualcosa che smentisca la disillusione dominante, e permetta agli iraniani di ricominciare a immaginare un futuro.
Immagine di copertina: il neoletto presidente Masoud Pezeshkianil 6 luglio 2024. Foto di Atta Kenare /Afp.