“Spero solo che entrambi i miei figli vengano restituiti alla loro tribù”, dice Masta Bibi, una donna pashtun quasi cieca sui settanta anni. Originaria di Mirali, nel nord Waziristan, Pakistan, ha due figli scomparsi: Bilal, svanito 11 anni fa, e Ihtesham, sparito da due. La sua casa è stata distrutta durante un’operazione militare contro gruppi terroristici rifugiatisi nei Territori precedentemente noti come FATA post 11 settembre. Nonostante le fragilità, Masta Bibi ha partecipato alla Pashtun Qaumi Jirga, tra l’11 e il 13 ottobre a Jamrud, nel Khyber, con la speranza di ottenere giustizia.
La vicenda di Masta Bibi è comune a molte altre: la Pashtun Qaumi Jirga, anche nota come Tribunale nazionale pashtun, ha riunito molte donne pashtun i cui mariti, figli, fratelli e padri risultano ancora dispersi.
Un rapporto della Commissione d’Inchiesta sulle Sparizioni Forzate, presentato nel gennaio 2024 alla Corte Suprema del Pakistan, conta 3.485 persone scomparse nel Khyber Pakhtunkhwa (KP), che oggi comprende la regione delle ex-FATA. Ma secondo il Pashtun Tahaffuz Movement (PTM), movimento non violento che difende i diritti dei pashtun, i civili scomparsi negli ultimi vent’anni sarebbero 6.700.
Ex-FATA: una storia di isolamento
Jamila Gilani, portavoce del Movimento Nazionale Democratico, sottolinea che come “la politica statale per le ex Aree Tribali Amministrate Federalmente (ex-FATA) sia stata diversa sin dall’inizio”. Questa disparità ha origini nella storia della regione, dove il Frontier Crimes Regulation, una legge draconiana di epoca coloniale ha isolato le FATA dal resto del Paese.
Dopo l’11 settembre, l’esercito pakistano ha condotto dieci operazioni militari contro organizzazioni terroristiche nella regione. Questi interventi hanno avuto conseguenze devastanti: secondo il PTM, 5,7 milioni di civili sono stati sfollati, 76.584 persone sono morte in attentati e omicidi mirati, e 370mila abitazioni e moschee sono state distrutte. A oggi, 6.700 civili risultano ancora dispersi.
Famiglie in cerca di risoluzione
Nell’aprile 2024, il Ministro della Giustizia del Pakistan, Azam Nazeer Tarar, ha riconosciuto che il problema delle sparizioni forzate è complesso e non risolvibile in tempi brevi. Ad agosto, ha annunciato un “pacchetto di supporto” finanziario di cinque milioni di rupie per ogni famiglia con un parente scomparso da oltre cinque anni, dando priorità alle richieste in base all’ordine di arrivo. Tuttavia, i dettagli del piano non sono ancora stati resi noti, lasciando le famiglie nell’incertezza.
Difendere i diritti dei pashtun
Il Pashtun Tahaffuz Movement si è affermato come una voce importante nella lotta per i diritti dei pashtun, denunciando l’inerzia dello Stato sulle sparizioni forzate e altre ingiustizie sistemiche. La comunità pashtun è stata scossa dall’assassinio di Gilamin Wazir, poeta e membro di spicco del PTM, ucciso da uomini armati a Islamabad. Durante il suo funerale, il leader del movimento, Manzoor Pashteen, ha annunciato la Pashtun Qaumi Jirga.
Nonostante la sospensione delle comunicazioni mobile e altre difficoltà logistiche, migliaia di persone si sono riunite per partecipare alla jirga. Questo tradizionale meccanismo di risoluzione delle controversie, basato sul codice pashtunwali, funge da tribunale informale e ha offerto una piattaforma per affrontare decenni di ingiustizie, comprese le devastanti conseguenze delle operazioni militari e dell’estremismo nelle ex-FATA.
L’evento ha suscitato forti reazioni contrarie. Pochi giorni prima, il governo pakistano aveva bandito il PTM, giustificando la decisione con presunte minacce alla “pace e sicurezza nazionale”. La situazione è degenerata quando la polizia ha aperto il fuoco su attivisti del PTM che si rifiutavano di lasciare il luogo designato per la jirga, provocando la morte di tre persone.
Il divieto è stato revocato poco prima dell’inizio della jirga, ma ha lasciato un clima di paura diffuso, come ha spiegato Ismat Shahjahan, attivista e politica del PTM: “Ha creato un senso di terrore tra le masse”. Si trattava del quarto divieto imposto al movimento. Queste misure collocano le persone colpite sotto il Quarto Allegato della Legge Antiterrorismo, sottoponendole a sorveglianza continua e al rischio di perdere proprietà, conti bancari e telefoni cellulari. Vincoli di questo tipo hanno dissuaso molte persone dal partecipare alla jirga.
Il Ministro degli Interni Mohsin Naqvi ha dichiarato che “non può essere istituito un sistema giudiziario parallelo sotto forma di una jirga.” Tuttavia, la giornalista Razia Mehsud ha spiegato a Reset DOC che “quando la costituzione e la legge non riescono a garantire giustizia, pratiche culturali come la jirga diventano forum essenziali per cercarla.”
Il ruolo delle donne pashtun
Per Gulsanga, una quarantenne del Distretto di Mohmand, la Pashtun Qaumi Jirga rappresenta una rara occasione per far sentire la sua voce. Suo marito è scomparso 13 anni fa, lasciandola sola a crescere i loro tre figli mentre vive con i suoceri. “Spero che partecipare alla jirga porti giustizia – che ci restituiscano la nostra amanat [‘qualcosa di affidato a qualcuno’, in questo caso i cari dispersi Ndr]”, dice.
Storie come quella di Gulsanga riflettono la forza e la resilienza delle donne pashtun, spesso le più colpite da decenni di conflitti, sfollamenti e militarizzazione. Nonostante le enormi difficoltà, la loro partecipazione alla jirga ha rappresentato un momento significativo di cambiamento.
“La partecipazione delle donne a questa jirga è stata un segnale positivo”, spiega Shahjahan, aggiungendo che ampliare ulteriormente questo spazio potrebbe portare a un cambiamento nella cultura patriarcale che caratterizza questi incontri.
Anche Mehsud insiste sull’importanza di includere le donne, sottolineando che rappresentano metà della popolazione e sono spesso le più colpite da decisioni come quelle discusse nelle jirga. “Sebbene siano in prima linea nelle lotte, le loro voci vengono spesso ignorate, e le loro difficoltà restano invisibili”, afferma. Gilani evidenzia: “La militarizzazione e la talebanizzazione hanno fatto soffrire le donne in modo sproporzionato – socialmente, culturalmente ed economicamente”.
Per molte donne, la jirga è una piattaforma per esprimere il proprio dolore e chiedere giustizia per i familiari scomparsi. È il caso della sorella di Syed Sadaqat Shah e Syed Abid Shah, due fratelli di cui non si hanno notizie da dieci anni: “Voglio che i miei fratelli tornino sani e salvi. Mia madre è morta di dolore, e mio padre è malato. Chiediamo solo che tornino a casa”.
Un’altra donna di Mirali, nel Waziristan, ha raccontato il dramma di suo figlio, scomparso quattro anni fa, e le difficoltà che ne sono derivate. Durante una protesta a Mirali, il Vice Commissario le aveva promesso che suo figlio sarebbe stato rilasciato, ma a oggi la sua sorte resta sconosciuta. Da allora, la donna è costretta ad assumere farmaci per gestire lo stress mentale. “Se non prendo le medicine, non ce la faccio”, ha spiegato.
La situazione economica della sua famiglia è altrettanto precaria: ha contratto un debito di 600mila rupie, metà delle quali spese per cercare suo figlio. Anche gli altri due figli vivono in condizioni difficili: uno è malato e non può lavorare, mentre l’altro guadagna appena 300 rupie al giorno. Sperava che la jirga potesse aiutarla a ritrovare suo figlio e a ristabilire l’aman (pace).
C’è una via d’uscita per le “vedove a metà”?
Shahjahan descrive le mogli degli scomparsi come “vedove a metà”, intrappolate in un limbo, senza sapere se i loro mariti siano vivi o morti. In assenza di leggi che regolino il diritto di queste donne a risposarsi, molte rimangono bloccate in questa incertezza per anni. A complicare la situazione è lo stigma sociale legato al divorzio, che scoraggia molte dal chiedere il khula (il divorzio avviato dalla moglie) in tribunale.
Gulnaro, un’altra donna del Distretto di Mohmand, vive questa agonia dal 2010, anno della scomparsa di suo marito. “Vivo in uno stato di angoscia costante, senza sapere se è morto o vivo”, dice. Mehsud sottolinea il dramma che queste donne affrontano: “Possono passare 15, persino 20 anni, senza che sappiano se hanno ancora un marito o se sono vedove e hanno il diritto di risposarsi. Questa incertezza le paralizza.”
Oltre al dolore emotivo, c’è anche quello economico. La perdita del capofamiglia lascia spesso le famiglie in gravi difficoltà. Bus Bibi, del Distretto di Mohmand, lotta per mantenere i figli da quando suo marito è scomparso 13 anni fa. “A volte andiamo a letto a stomaco vuoto. Se qualcuno ci manda del cibo, riusciamo a mangiare. Altrimenti, ci addormentiamo affamati”, racconta con rassegnazione.
La jirga come speranza di giustizia
In Pakistan, non esiste ancora una legge che criminalizzi le sparizioni forzate. Nel 2022, l’Assemblea Nazionale aveva approvato un disegno di legge per modificare il Codice Penale e affrontare i casi di persone scomparse, ma sembra essersi arenato dopo il passaggio al Senato.
Durante la Pashtun Qaumi Jirga, è stata emessa una dichiarazione in 22 punti che include la richiesta di abolire il Regolamento sulle Azioni a Supporto dei Poteri Civili del 2011. Questa legge concede alle Forze Armate poteri estesi per arrestare e detenere sospetti. Inizialmente applicata nelle ex-FATA, è stata successivamente estesa all’intera provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Sebbene l’Alta Corte di Peshawar l’abbia dichiarata incostituzionale, il governo federale ha presentato ricorso. Tra le altre richieste, la jirga ha chiesto la rimozione delle “forze di sicurezza” e dei talebani dalla provincia di KP entro sessanta giorni.
Per i pashtun, la jirga non rappresenta solo una richiesta di giustizia; è una dichiarazione di resilienza contro anni di abbandono e negligenza. “Dove dovrebbero andare i pashtun per ottenere giustizia?” chiede Ayesha, una giornalista afghana pashtun residente in Pakistan. “Alle stesse corti di uno Stato complice nelle sparizioni forzate? Riponiamo le nostre speranze nella jirga, negli speen geray (anziani della jirga), perché in questo Paese non ci sono leggi che ci proteggano davvero”.
Gulsanga condivide questo sentimento: “Speriamo che questa jirga porti una soluzione, che le nostre richieste vengano finalmente ascoltate.”
Immagine di copertina: donne e bambini sfollati nel sud Waziristan, Pakistan, 21 ottobre 2009. (Photo by AAMIR QURESHI / AFP)
SIRIA: BREVE AGGIORNAMENTO (RIMANE SEMPRE GRAVE LA SITUAZIONE DEI CURDI)
Gianni Sartori
Cominciamo con una sintetica panoramica generale.
Come è noto,il 5 dicembre l’esercito governativo non ha saputo (o voluto) impedire che anche la città di Hama cadesse, dopo Aleppo, nelle mani di al-Nusra (anche se ora si fa chiamare Hayat Tahrir al-Sham) che ora sta puntando su Homs. Sembra inoltre che Damasco stia richiamando a difesa della capitale i soldati finora stanziati nell’est del Paese.
Favorendo così il preannunciato attacco al Rojava della Turchia e dei suoi proxy dell’Esercito Libero Siriano che minacciano soprattutto Manbij.
Erdogan del resto è stato chiaro dichiarando che “non permetterà al PKK di approfittare della crisi”. Una crisi da lui stesso provocata, mentre le organizzazioni curde sono impegnate, oltre che nell’autodifesa, nell’assistere, proteggere le decine di migliaia di rifugiati che affluiscono nel Rojava (in fuga dalle bande jihadiste).
Le FDS hanno intanto varcato l’Eufrate, ampliando l’area finora controllata e installandosi a sud di Raqqa e Tabka. Nel cuore di quella zona desertica dove i commando mobili di Daesh scorazzano da tempo impunemente. Intensificando negli ultimi giorni le loro attività
Vediamo poi altri particolari.
Da un comunicato del 5 dicembre apprendiamo che l’ennesimo bombardamento turco con armi pesanti ha distrutto molte abitazioni e causato la morte di altri civili a Al-Boghaz. Si tratta di un villaggio delle campagne intorno a Manbij (governatorato di Aleppo, una trentina di chilometri a ovest dell’Eufrate) ancora difesa dalle forze arabo-curde. Le vittime finora identificate sono Ahmed Ali Al-Jaban (20 anni) e sua sorella Zahra Ali Al-Jaban (23 anni).
Con Aleppo caduta in mano alle milizie jihadiste gli attacchi contro Manbij (una realtà multietnica di arabi, curdi, circassi, ceceni…) si vanno intensificando.
Sempre il 5 dicembre, nel villaggio di Al-Farat ha perso la vita Nadima Al-Hussein Al-Hamoud (45 anni), mentre Saada Al-Faraj è rimasta gravemente ferita. Ancora a causa dei bombardamento turco-jihadisti.
Dalle FDS (Forze Democratiche Siriane), la conferma che circa 120 veicoli che trasportavano civili in fuga dal cantone curdo di Shahba (a nord di Aleppo) sono stati dirottati dai mercenari di Ankara. La maggior parte delle persone che si trovavano a bordo dei mezzi sono state trascinate in aree controllate dai turchi (forse a Sheikh Najjar, la grande città industriale). Nonostante gli accordi presi in precedenza con cui si garantiva la possibilità per i profughi di trasferirsi nelle zone dell’est.
Ovviamente questo arbitrario comportamento alimenta le preoccupazioni per la loro sorte. Conoscendo i metodi degli integralisti islamici, rischiano non solo il furto di quanto rimane in loro possesso, ma anche le torture, gli stupri, le esecuzioni extragiudiziali, se donne perfino la schiavitù…
Sempre le FSD riferiscono di un gran numero di civili sotto assedio (di fatto sequestrati) a Shahba. Circa 15mila persone a cui pare venga impedito l’accesso al cibo e addirittura all’acqua. Inoltre sarebbe in corso una vera e propria campagna di rapimenti (a scopo estorsione? Per eventuali rappresaglie ?) nei confronti della popolazione qui rimasta intrappolata.
Da segnalare anche un ulteriore comunicato delle FDS in risposta alle dichiarazioni dell’Isis che si vantava di “controllare significative porzioni del deserto di Homs e di Deir ez-Zor” dopo essersi “impadronita di numerose città e posizioni strategica delle forze del governo di Damasco” (approfittando, anche se questo l’Isis non lo dice, del caos provocato dall’attacco turco-jihadista alla Siria).
Dato che – come appare evidente – l’organizzazione terrorista ha tutte le intenzioni di espandersi in altre zone rimaste sguarnite, le FDS si stanno organizzando per “contrastare questa minaccia, l’espansione dell’Isis, evitando che si debba ripetere lo scenario del 2014”.
Gianni Sartori