Ankara: l’attentato di domenica divide
un paese che adesso ha davvero paura

Da Reset-Dialogues on Civilizations

5 giugno Diyarbakir: 5 morti, e poi 21 luglio Suruç: 31 morti; e ancora 10 ottobre Ankara: 102 morti; 12 gennaio Istanbul: 13 morti; 17 febbraio Ankara: 29 morti; 13 marzo di nuovo Ankara, con un bilancio di altri 37 morti.

Una scia di sangue senza fine in un paese con il proprio sud-est nuovamente martoriato dal trentennale conflitto tra esercito e PKK e che più di qualunque altro ha pagato il prezzo della condivisione di più di mille chilometri di confine con la Siria. Due aspetti che si intrecciano con le esplosioni che negli ultimi mesi hanno fatto rivivere l’incubo del terrorismo a un paese in cui le stragi sembravano appartenere alla storia.

L’autobomba esplosa ad Ankara la sera del 13 marzo, più degli attentati precedenti, presenta dei caratteri incomprensibili, modalità inedite rispetto al recente passato, un obiettivo generico al limite dell’indecifrabile, poche speranze che venga rivendicato.

L’evoluzione del terrore di cui la Turchia è stata testimone tra il 2015 e il 2016 può essere divisa in tre fasi.

I primi 3 attentati, Diyarbakir, Suruc e la strage alla stazione di Ankara di ottobre, hanno svelato l’esistenza di cittadini turchi affiliati all’Isis, in molti casi reduci da campagne in Siria e pronti a farsi esplodere in patria. Si tratta di attentati molto diversi per numero di vittime, rispettivamente 5, 31 e 102, quest’ultimo l’attentato più sanguinoso nella storia della Turchia, ma che nondimeno presentano alcuni elementi comuni nelle modalità di esecuzione e nell’obiettivo colpito. Un kamikaze a Diyarbakir, uno a Suruç, 2 ad Ankara. Il comizio di chiusura della campagna elettorale di Selattin Demirtas (5 giugno), leader del partito filo curdo dell’HDP, un meeting di giovani attivisti filo curdi incontratisi a Suruc per un progetto a sostegno della città curdo-siriana di Kobane (21 luglio), una grande manifestazione ad Ankara, promossa congiuntamente da HDP e sindacati, per chiedere la fine del conflitto tra esercito e PKK nel sud est del Paese (10 ottobre). Quattro kamikaze, tutti di nazionalità turca, che imbottiti di esplosivo colpiscono la componente filo-curda del Paese, una cospicua fetta di elettorato e popolazione. Una vera e propria strategia della tensione rivolta ai curdi, a cavallo tra i due round elettorali del 7 giugno e dell’1 novembre, che hanno segnato il primo storico ingresso in parlamento dell’HDP, per la prima volta capace di superare da solo la soglia del 10% che caratterizza il sistema elettorale turco. Gli inviti alla calma che Selattin Demirtas lancerà in seguito alla bomba di Diyarbakir consentiranno all’HDP di sfiorare il 14% nelle elezioni del 7 giugno. Il leader curdo però, in seguito alla strage di Ankara del 10 ottobre, non potrà far altro che annullare qualsiasi comizio e manifestazione del proprio partito, che nella tornata del 1 novembre supererà a stento la soglia del 10%, con l’AKP di Erdogan che riconquistata la maggioranza, riuscirà stavolta a formare da solo al governo.

L’attentato di Istanbul del 12 gennaio viene eseguito con modalità simili, ma con obiettivo completamente diverso. Un kamikaze, per la prima volta non turco, ma siriano di origine saudita, colpisce una comitiva di turisti tedeschi causando 13 vittime. La scelta del luogo e dell’ora della strage rivelano la volontà di colpire cittadini stranieri direttamente e la Turchia indirettamente, causando un danno non indifferente all’economia del turismo e una macchia per l’immagine del Paese.

Il ritorno a suon di voti del partito della giustizia e dello sviluppo del presidente Erdogan tra il primo e il secondo round di elezioni è stato figlio della parola “Istikrar”, stabilità. Una promessa ripetuta come un mantra da presidente e premier, alla luce delle stragi che avevano caratterizzato i mesi in cui l’AKP aveva perso la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (giugno-ottobre) e, di conseguenza la guida del Paese. Con la bomba di Sultanahmet diventava invece ben chiaro che la stabilità altro non fosse che una promessa non mantenuta, cui media e sostenitori del presidente risponderanno affermando che senza l’AKP al governo la situazione sarebbe molto peggiore, il che è, in vero, è possibile.

Due autobombe a distanza di meno di un mese l’una dall’altra, sconvolgono infine Ankara, seminando paura in un Paese intero. La prima il 17  febbraio,  quando un’autobomba con un uomo alla guida esplode nel momento del passaggio di un convoglio carico di militari. Considerando che 21 delle  29 vittime dell’attacco sono soldati, appare evidente che  questi ultimi siano stati l’obiettivo dell’attacco, che assume ulteriore significato alla luce della vicinanza del quartier generale delle forze armate al punto dell’esplosione. Il messaggio è chiaro: “possiamo arrivare nel cuore del Paese”. La modalità è tuttavia completamente diversa dagli attentati precedenti, anche se essa pare rifarsi ad una tattica di guerriglia utilizzata dal PKK proprio nel sud-est del Paese. L’attacco attraverso un’autobomba, cui segue l’assalto da parte dell’artiglieria (quest’ultimo impossibile da replicare nella capitale) fa, infatti, parte del bagaglio militare dei separatisti curdi. Nei mesi precedenti questa tattica è stata riproposta, ma sempre nel sud est del Paese, sempre colpendo stazioni di polizia e caserme, mai senza causare più di 6 morti. Un obiettivo militare con perdite civili, una circostanza rivissuta ad Ankara, un obiettivo fuori da radar e portata dei curdi turchi, che infatti non saranno accusati dell’attacco, negando qualsiasi coinvolgimento.

Il governo turco informerà poi il Consiglio di sicurezza dell’Onu circa le prove raccolte contro i curdi siriani del PYD-YPG, scomodi vicini del confine siriano, su cui Erdogan e Davutoglu premono affinché siano inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche escluse dalla tregua in Siria. Il dossier di Ankara non convincerà né UsaRussia, più propense a considerare il PYD-YPG quale alleato e nient’affatto come un’organizzazione paragonabile all’Isis o ad Al Nusra. L’attacco sarà infine rivendicato dal TAK, un’organizzazione separatista ed estremista curda, tornata sulla scena alla fine di dicembre con due colpi di mortaio contro l’aeroporto di Sabiha Gokçen ad Istanbul, che causarono la morte di un’impiegata. Una rivendicazione che ha creato scalpore, considerata la portata e il luogo dell’attentato e il lungo silenzio di un gruppo che non sembrava avere la capacità di minacciare il Paese.

L’attentato di domenica scorsa si pone sulla medesima scia dell’attacco precedente. Le autorità turche hanno rivelato le identità dei due kamikaze: una ventitreenne studentessa e un uomo, entrambi noti ai servizi di sicurezza per legami con il Pkk. In base a quanto dichiarato dal Ministro degli Interni Efkan Ala, alla guida dell’autobomba c’era la studentessaa Seher Cagla Demir, affiliata al Pkk fino al 2013, prima di passare alle milizia curdo siriane del Pyd-Ypg, dalle quali avrebbe ricevuto un addestramento che le avrebbe permesso di realizzare la strage avvenuta la sera del 13 Marzo.

Un attacco che per la prima volta colpisce indiscriminatamente, nel mucchio, seminando vittime a caso tra la gente comune. Difficile trovare un obiettivo preciso, risalire a un precedente, scovare un nesso tra un gruppo che negli ultimi 3 decenni ha comunque sviluppato abilità militari e un’azione tanto violenta quanto approssimativa. La Demir, cresciuta nel Pkk e addestrata in Siria dalle milizie del Pyd-Ypg, costituisce in questo senso il colpevole perfetto per giustificare un ulteriore inasprimento delle operazioni contro il Pkk nel sud-est del Paese e per continuare a fare pressioni su Washington, mettendo in discussione affidabilità e aspettative del Pyd-Ypg in Siria.

Controlli a tappeto caratterizzano in  questi giorni la vita di un paese che si ritrova unito nella paura, ma ancora più diviso tra coloro che già conoscono il nome del colpevole e coloro che temono, invece, che non lo conosceranno mai.

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