Afghanistan al voto aspettando il dopo-Karzai
La pace è lontana, il mondo non ci dimentichi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Bazarak, Valle del Panjshir – “Siamo pronti. Chiunque voglia votare potrà farlo nel massimo della tranquillità”. Si mostra sicuro Abdul Rahman Kabiri, governatore della provincia del Panjshir, a un paio d’ore di macchina Kabul, capitale della Repubblica islamica d’Afghanistan. “Abbiamo organizzato tutto per il meglio. Al primo turno delle elezioni, il 5 aprile, c’è stato qualche problema per il maltempo: questa è una zona di montagna, le vie di comunicazione sono spesso interrotte, qualcuno non ha potuto votare, specie le donne, anche perché c’erano meno seggi del necessario”. Ma si è trattato di problemi logistici, non di sicurezza, tiene a precisare Kabiri. Sprofondato in una poltrona regale, alle spalle la bandiera afghana, i ritratti del presidente Karzai e del comandante Massud (il “leone del Panjshir” simbolo della valle), il governatore Kabiri ha buon gioco a rivendicare la stabilità di questa provincia, tra le più sicure del paese. Qui l’ideologia dei Talebani non ha mai attecchito, né hanno avuto vita facile le truppe sovietiche, quando a presidiare la zona c’era Massud. Eppure anche in questo angolo di Afghanistan impermeabile al richiamo dei “turbanti neri” ogni tanto ci scappa il fattaccio: è di poche settimane fa l’attacco kamikaze avvenuto all’ingresso sud della valle, Dalan Sang.

Una macchina imbottita di esplosivo ha causato molti morti, facendo preoccupare i panjshirì. Il governatore Kabiri minimizza. Sostiene che i Talebani non riusciranno a sabotare il processo elettorale, né qui né nel resto del paese. “I Talebani minacciano, certo, e proveranno a ostacolare il voto. Ma la gente è più determinata di loro. Qui nel Panjshir gli unici problemi li abbiamo ai confini esterni con le province di Laghman e Nuristan. Anche gli autori dell’attacco al Salan Dang venivano da fuori. Il giorno del voto i Talebani non riusciranno a combinare granché. Sarà la popolazione a scegliere chi sostituirà Karzai, non i Talebani”.

La scelta è tra Ashraf Ghani, un dottorato alla Columbia University, incarichi prestigiosi alla Banca mondiale e nel governo afghano, e Abdullah Abdullah, ex ministro della Difesa e leader del partito a prevalenza tajika Jamiat-e-Islami. Sono i due candidati che al primo turno hanno ottenuto più voti: Ghani il 31% circa, Abdullah il 45%.

Si sono giocati tutto il nel secondo turno delle elezioni, il 14 giugno. Ma molto dipende da ciò che è stato fatto nel corso della campagna elettorale di questi giorni, giorni intensi in cui i due sfidanti hanno girato in lungo e in largo il paese, arringato folle, lanciato promesse e appelli, invocato la religione, la giustizia e i valori morali, finendo per alzare i toni negli ultimi giorni. Abdullah sulla carta è il favorito: oltre all’ottimo risultato del 5 aprile, ha poi incassato il sostengo dell’ex ministro degli Esteri Rassoul (al primo turno 11%), dell’islamista Sayyaf (7%), di Gul Agha Sherzai e di Gutbuddin Helal, membro del partito radicale Hezb-e-Islami (il cui leader Gulbuddin Hekmatyar ha però preso le distanze, definendo la scelta del suo uomo come un “suicidio politico e una scelta personale”). Ma i giochi ancora non sono fatti. E Ghani potrebbe fare il colpaccio. Certo non qui, non tra i panjshirì, dove Abdullah al primo turno ha raccolto l’87% dei consensi. E dove tutti si dicono convinti che sia lui l’uomo giusto per sostituire Hamid Karzai, al potere dal 2001 e al quale la Costituzione vieta un terzo mandato consecutivo.

Tra i voti raccolti c’è quello entusiasta di Abdul Rios, vecchietto dalla faccia simpatica e gli occhi spiritati. Gestisce una piccola sala da tè-ristorante nella parte alta del villaggio di Bazarak, sulla sponda del fiume. Fuori un braciere, due tavoli e quattro sedie. Dentro, una pedana rialzata di legno con sopra una moquette, bicchieri sporchi e una teiera. Il tutto dentro un vecchio container militare.

“Voteremo tutti per il dottor Abdullah”, dice Abdul Rios indicando i due figli, che annuiscono. “Qui non dimentichiamo chi ha difeso il paese e chi invece no. Quelli della mia generazione sono stati tutti mujaheddin, hanno combattuto. Vedi questo signore? – chiede Rios volgendo il volto verso un uomo molto indaffarato con uno stuzzicadenti – Lui ha combattuto. Vedi quest’altro, anche lui ha combattuto. Abdullah è stato al fianco di Massoud e per questo merita di vincere”. Abdullah ha resistito all’invasore sovietico, sostiene Abdul Rios, Ghani invece “ha vissuto negli Stati Uniti, come la gente ricca, si è dimenticato dell’Afghanistan e degli afghani”. Per Abdul Rios, un paese fragile come l’Afghanistan, in cui pesano le interferenze dei paesi vicini, ha bisogno di un umo forte: “Abdullah ha dimostrato di esserlo. Ghani no”, sentenzia.

Anche il governatore Kabiri sembra credere che il paese abbia bisogno di un uomo forte. “I progressi ci sono stati, ma i problemi sono enormi, solo un uomo molto determinato e con programmi concreti riuscirà ad affrontarli”, afferma. “Il primo problema è la sicurezza. Il prossimo presidente dovrà sforzarsi di portare la pace nel paese. La aspettiamo da troppo tempo”. Come farlo? “dialogando con tutti, anche con i Talebani certo”, sostiene Kabiri, il quale ricorda “che il presidente Karzai ha invitato più volte i Talebani al dialogo. Ha anche detto che avrebbero potuto partecipare alle elezioni. Ma loro non hanno voluto”. Il governatore del Panjshir, come molti altri afghani, auspica l’avvio di un vero processo di pace e riconciliazione. Ma come molti altri non sembra convinto che possa produrre risultati duraturi, non subito perlomeno: “i Talebani se la prendono con tutti, con la comunità internazionale, con gli americani, con il nostro governo, è difficile che cambino idea in fretta”. Se qualche osservatore crede che il recente scambio tra i cinque prigionieri talebani rinchiusi a lungo a Guantanamo e il sergente americano Bergdahl possa favorire colloqui futuri, Kabiri non si illude: “i cinque talebani rilasciati? Tra qualche mese torneranno a combattere. L’esperienza passata ci insegna che fanno tutti così, altro che mediatori”.

La pace è lontana, il negoziato fatica a produrre risultati concreti, mentre gli stranieri cominciamo a fare le valigie. È questa la preoccupazione principale del governatore Kabiri: “temo che la comunità internazionale possa voltarci le spalle, una volta che tutti i soldati stranieri se ne saranno andati”. È una regola ormai consolidata: ritirate le truppe, chiusi i rubinetti dell’assistenza dei donatori, anche in ambito civile. È per una questione di puro realismo politico che Kabiri si augura che il prossimo presidente firmi in fretta il trattato bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, una volta eletto. “È un passaggio necessario per stabilire buone relazioni con gli americani e con il resto del mondo. E senza quel trattato rischiano di scomparire i fondi promessi dalla comunità internazionale per sostenere il nostro esercito”, ammette. I paesi vicini, Iran e Pakistan (che qui sono sospettati di alimentare la guerriglia in funzione anti-americana), non saranno contenti, riconosce Kabiri, “ma che ci siano o meno gli americani, loro non accettano comunque l’idea che l’Afghanistan diventi un paese autonomo, forte e indipendente”.

Un’altra buona ragione per recarsi alle urne: “così dimostreremo che noi afghani non vogliamo più farci condizionare dagli altri, e che vogliamo decidere con la nostra testa il nostro futuro”. La pensano diversamente i “turbanti neri”, per i quali le elezioni sono una farsa imposta dall’occidente, il cui esito è deciso a Washington, non nei seggi elettorali. Hanno più volte condannato il processo elettorale come “non-islamico” e invitato la popolazione a non recarsi alle urne. In tutto il paese le misure di sicurezza si fanno più rigide. Chiuse molte strade. Kabul quasi isolata dal resto del paese. Messaggi telefonici proibiti. Controlli a tappeto. Uscendo dalla valle del Panjshir per ritornare a Kabul, vedo i soldati impegnati a tirar su una nuova barriera all’ingresso della valle, al Salan Dang: “anche qui non si sa mai”, ammette uno di loro mentre armeggia con il suo kalashnikov.

Nell’immagine: la valle del Panjshir

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