Obama in Israele, Palestina al centro

“Hanno passato quattro anni a battibeccarsi”, ma adesso che è stato confermato ad entrambi il mandato, i due “impareranno ad andare d’accordo”? La domanda se la pone Gerald Steinberg del National Post, introducendo un ritratto dei due leader, intitolato “Netanyahu viene da Marte, Obama da Venere”. Ma tra le priorità di Obama, in questo suo primo viaggio a Gerusalemme, c’è quella di aggraziarsi la popolazione israeliana. Di questo avviso è Yossi Klein Halevi, autore dell’articolo “Come Obama può imparare a parlare israeliano”, pubblicato su The New Republic. Ma non crede che funzionerà un approccio alla pace in stile “Yes we can”: “Molti israeliani recepiranno il messaggio da Obama – scrive Halevi – se sarà del tipo: capisco che difficilmente questo è il momento opportuno per aspettarsi che Israele corra seri rischi per una pace elusiva. L’instabilità attorno ai confini di Israele ha poco a che vedere con Israele in sé, minaccia la sua sicurezza e le prospettive per una pace stabile. È tragico, ma difficilmente arriveremo vicini a un accordo, in poco tempo”. E il tempo è il nemico della pace sulla striscia di Gaza, anche secondo il commentatore del Washington Post, E.J.Dionne che svela il motivo per cui il viaggio di Obama è così importante. Il Presidente degli Stati Uniti non può risolvere i problemi tra Israele e Palestina da solo: ma questi stessi problemi non potranno essere salvati senza il suo aiuto e il suo impegno.

 

Iraq, dieci anni dopo. La prospettiva inglese

La scelta di invadere l’Iraq è stata interpretata dagli inglesi come il furto della fede e della fiducia nella politica, perpetrato ai danni di un’intera generazione. Un paio di esempi sono gli articoli di due ventenni esponenti del pensiero liberal inglese, Laurie Penny per NewStatesman e Owen Johns per The Indipendent: secondo entrambi la disillusione dei giovani inglesi nei confronti della politica è proprio dovuta a quel “tradimento” di 10 anni fa quando, nonostante le marce di protesta e le manifestazioni a sfondo pacifico che coinvolsero centinaia di migliaia di persone, la House of Commons votò a favore della guerra.
Di parere opposto, William Brett su Prospect Magazine, secondo il quale la disaffezione degli inglesi nei confronti della politica non è da collegare alla scelta di invadere l’Iraq. E anzi, confessa: “L’Iraq mi ha fatto credere nella politica”.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Salon rilancia un articolo apparso su Media matters for America (centro per il monitoraggio dei media, vicino alla sinistra americana) si chiede invece se Twitter avrebbe potuto prevenire la guerra in Iraq. Ripercorrendo alcune delle più eclatanti figuracce fatte dalla stampa americana durante i giorni dell’invasione, Eric Boehlert, esprime il proprio punto di vista secondo cui Twitter avrebbe potuto evitare alcune negligenze dei media statunitensi, modificandone in maniera importante, la copertura dei fatti. “Twitter – conclude – avrebbe essere quel megafono che, dieci anni fa, è mancato ai critici della guerra”. E mentre RealClearPolitics svela la “vera lezione della guerra in Iraq”, Time ripercorre i dieci anni di guerra attraverso i lavori di 55 fotoreporter.

L’altra faccia della Germania

Anche la Germania ha il suo movimento politico euroscettico. A sei mesi dalle elezioni, sulla scena tedesca spunta infatti “Alternativa per la Germania”, formazione politica che raggruppa economisti e capitani d’industria avversi alla moneta unica. L’obiettivo del neonato partito è svelato dalla versione online dello Spiegel: “la dissoluzione dell’euro in favore delle monete nazionali o di unioni monetarie di minori dimensioni”. E il Wall Street Journal riconosce che difficilmente il gruppo riuscirà ad entrare nel Parlamento, ma potrebbe togliere voti alla coalizione di centrodestra, oggi al governo. Intanto, anche su NewStatesman si parla di Germania, ma da un altro punto di vista e con un articolo – anteprima dell’intero numero cartaceo – che spiega perché Berlino è al tempo stesso troppo debole e troppo forte per assumere la sua giusta posizione nella politica europea e mondiale.

La Cina conta gli effetti della politica del figlio unico

Slate riporta i dati ufficiali del Ministero della salute cinese che denuncia il numero di aborti e sterilizzazioni dal 1971, anno dell’introduzione della politica del figlio unico, ad oggi. Le cifre sono impressionanti: 336 milioni di gravidanze interrotte e 196 milioni di sterilizzazioni. Se così non fosse stato, oggi ci sarebbe il 30% in più di cinesi. A scendere nel dettaglio degli effetti della politica del figlio unico è il Financial Times che sottolinea la correlazione della legge con gli aborti selettivi ai danni delle figlie femmine. Risultato: in controtendenza mondiale, la Cina adesso ha 34milioni di uomini in più delle donne.

E, sempre a proposito di politiche relative alla famiglia, Time tira le somme anche delle conseguenze del divieto di adozioni internazionali introdotto in Romania dieci anni fa.

Hillary Clinton e i matrimoni gay

Con un video pubblicato sul canale Youtube di Human Rights Campaign, il Segretario di Stato Hillary Clinton apre ai matrimoni tra coppie omosessuali. A corredo della notizia, il Washington Post propone, in un articolo, l’evoluzione del pensiero – e la progressiva apertura – della Clinton sulle unioni gay e, in un altro, una spiegazione del perché il Segretario di Stato non avrebbe potuto muoversi diversamente. National Journal stila invece sei motivazioni della “mossa” di Hillary Clinton, specificando – sin dal sottotitolo – che “nessuna di queste (motivazioni) ha a che fare con la potenziale campagna presidenziale”.

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