L’Italia, l’Ue, la Nato e il diritto.
Quattro lenti per capire il conflitto

L’invasione dell’Ucraina ha segnato “la fine della pace”, è stato affermato. Per ristabilirla, le tante iniziative auspicate, in ultimo dal Presidente Mattarella a Strasburgo, quando al Consiglio d’Europa ha richiamato lo spirito degli accordi di Helsinki e ipotizzato una conferenza di pace, testimoniano della intensità con cui avvertiamo l’urgenza di una risposta.

Ma ogni risposta alla congiuntura attuale non può che tenere distinti 4 punti di vista: 1) il punto di vista del diritto internazionale; 2) il punto di vista dell’alleanza NATO; 3) il punto di vista della UE, in parte ma non totalmente sovrapponibile al precedente; 4) il punto di vista dell’Italia.

1) Dal punto di vista del diritto internazionale, non si può che partire dal comma 3 dell’Articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, sottoscritta anche dall’Urss, di cui la Russia si definisce successore:

I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo.

Quanto abbiamo visto dal 24 febbraio in poi è una eclatante violazione unilaterale di questo principio ad opera di uno Stato, la Russia. Dal punto di vista del diritto, nulla rileva che altri in passato abbiano egualmente violato questo principio: una violazione non ne giustifica un’altra. L’interesse della comunità internazionale, come comunità politica di Stati consensualmente vincolatisi alla Carta delle Nazioni Unite, non può che essere il ritorno a uno stato quo ante, ivi incluso il ripristino della integrità territoriale dello Stato aggredito e della sua piena autonomia, e il ripristino della sicurezza internazionale. Questo ancora lascia aperto il punto della eventuale punizione, anche a fini di deterrenza, dell’aggressore, ma non voglio qui affrontarlo.

Si dice, si scrive, e si pensa da molte parti, però, che questa violazione di due principi fondamentali del diritto internazionale da parte dello Stato russo (il summenzionato principio sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e quello ancor più fondamentale, ancorché consuetudinario, pacta sunt servanda) debba essere considerata non “in quanto tale”, ma in quanto iscritta in una competizione geo-strategica fra la Russia stessa e l’alleanza NATO, competizione che avrebbe visto la NATO estendere la propria influenza in prossimità sempre maggiore dei confini russi, e dunque in qualche modo esercitare una accresciuta pressione politico-militare, rispetto alla quale l’invasione dell’Ucraina potrebbe valere come un tentativo, per quanto illegalmente perseguito, di riequilibrare i rapporti strategici.

Qui cominciamo a distinguere i punti di vista. Rimanendo su quello giuridico, chi pensa che questo contesto sia rilevante, potrebbe invocare delle attenuanti. Le attenuanti non annullano la violazione, come è noto, ma ne mitigano la punizione — che in questo caso non c’è, non è neppure nell’orizzonte (se non come ritorsione politica, che però è altra cosa), essendo il ripristino dello stato quo ante certamente non una punizione. Quindi dal punto di vista del diritto internazionale l’attenuante della rivalità geo-politica Russia-NATO non ha alcun rilievo. Se ci fossero sanzioni ONU contro la Russia, potrebbero essere sospese o mitigate in ragione di essa, ma non ci sono, e il ripristino della situazione antecedente alla violazione (l’integrità dell’Ucraina) non può essere “mitigato” senza con ciò equivalere al consolidamento della violazione.

Altro non ha da dirci il punto di vista giuridico. Ne servono anche altri.

 

2) Il punto di vista della NATO si propone come quello di un’alleanza militare difensiva, avente come scopo di “garantire la libertà e la sicurezza dei Paesi membri attraverso mezzi politici e militari”. Il suo carattere non offensivo è giustificato non dalle dichiarazioni ufficiali o fatte da capi di governi membri, sulla cui veridicità è lecito dubitare, ma da un dato di buon senso. Il PIL aggregato dei paesi NATO ammonta, secondo gli ultimi dati IMF a 46.400 miliardi di dollari quello russo a 1700, un rapporto di 27 a 1. In altre parole, il PIL russo rappresenta il 3,5% del PIL dei paesi NATO. Chi potrebbe pensare che questo blocco di paesi sia disposto a rischiare un conflitto nucleare per, nella migliore delle ipotesi, fagocitare totalmente un nemico dotato di risorse pari solo a un 3,5% di quello che già si possiede? In queste cifre sta l’inconsistenza della ipotesi di una espansione offensiva della NATO. Diverso è l’argomento della intempestiva espansione difensiva e conseguente scatenamento di una sindrome da assedio da parte russa. Questo è certamente nel quadro causale che spiega la decisione di Putin, ma non può essere assunta come una ragione giustificante, con implicazione di corresponsabilità. Sarebbe come sostenere che poiché l’umiliazione delle sanzioni subite a Versailles è nel quadro causale che ha favorito il clima politico a sua volta favorevole all’ascesa di Hitler, il presidente Wilson sia corresponsabile della Shoah.

Dunque la NATO è un soggetto che definisce la propria azione di tutela come “politica e militare” e in quel quadro sceglie le sue opzioni. L’azione di tutela si svolge tramite il negoziato e la deterrenza. La invasione dell’Ucraina rende più urgente il negoziato ma, dipendendo il negoziato dalla volontà del partner negoziale, oltre ad offrire disponibilità non rimane che l’incremento della deterrenza. La deterrenza ha efficacia in funzione dell’equilibrio delle forze in campo. L’aumento delle spese militari e l’indebolimento dell’economia russa mediante le sanzioni sono i due strumenti precipui per modificare a proprio vantaggio un equilibrio che in tutta evidenza, allo stato attuale delle cose, non ha impedito alla Russia di lanciare l’“operazione speciale”.

È interesse politico della NATO rafforzarsi ed indebolire la potenza russa (includa ciò o meno il regime-change, che rimane prerogativa dei cittadini russi), fino al momento in cui negoziati e accordi affidabili non siano in essere. A quel punto il suo interesse sarà la tutela degli accordi raggiunti.

Nell’ipotesi di un lungo stato di “non-pace”, è anche interesse politico della NATO evitare il coagularsi di una percezione, sul piano globale, del conflitto in atto come un confronto fra una minoranza affluente (il 12% della popolazione mondiale con il 47% del PIL) e il resto del mondo che per le ragioni più varie (anti-occidentalismo, dipendenza dalla Russia, cultura politica autoritaria) non vede nell’invasione dell’Ucraina motivi sufficienti per condannare lo Stato russo come “paese canaglia”.  Questo è un interesse che consiglia di non creare nulla che assomigli a una NATO globale o a una struttura di coordinamento delle democrazie contro le non-democrazie.

 

3) Il punto di vista della UE è in parte collegato a quello dei paesi NATO, perché vi è sovrapposizione di membership, ma in parte ha anche una sua specificità perché in quanto membri dell’UE alcuni stati possono aspirare a raggiungere finalità più ampie (ad esempio, un’Unione sempre più stretta, con una politica estera, ambientale, energetica, fiscale, monetaria ed economica comune). Entro questa diversità si situa anche il fatto che la UE vive in una contiguità con la Russia che non ha paralleli presso i membri transatlantici della NATO, e che si è tradotta in una dipendenza energetica rimediabile solo con un incremento dei costi.

Tra alcuni dei paesi membri e la Russia è sempre esistita una profonda interlocuzione culturale. Uno di questi è la Germania, la quale con la sua influenza ha anche ispirato una Ostpolitk di fatto europea, fondata sulle stesse premesse della propria Ostpolitik domestica, e sul sogno di un’Europa da Lisbona a Vladivostok: “Wandel durch Handel”, il cambiamento e l’addomesticamento mediante la normalità del commercio, l’attesa (trasversale alle culture politiche di Brandt, Schmidt, Kohl, Schröder e Merkel) che la reciproca fiducia sottesa alle transazioni economiche sempre più ingenti e frequenti avrebbe “normalizzato” la politica estera di un paese che fra il 1956 ed oggi ha invaso l’Ungheria, poi la Repubblica Ceca, poi la Cecenia e la Georgia, e adesso l’Ucraina. L’evidenza della vicenda Ucraina è ineludibile. Non solo il “Wandel”, il cambiamento, non c’è, ma il perseguirlo ha condotto a una dipendenza. Si impone un ripensamento, e il pendolo si muove inevitabilmente verso la polarità opposta, ossia la combinazione di indipendenza energetica, contenimento politico-militare, deterrenza.

L’aumento della quota di bilancio destinata alle spese militari, nonché la formazione di una vera forza militare europea sotto un comando unificato è un corollario di questa costellazione. Questo interesse ha anche un aspetto rivolto ad Ovest, oltre l’Atlantico. Speculare alla dipendenza energetica dalla Russia è stata ed è la dipendenza militare dall’ombrello nucleare americano. Il differenziale di incidenza decisionale sulle politiche di difesa adottate dalla NATO poggia sul fatto che la deterrenza nucleare è a carico del contribuente americano, e solo in minima parte di quelli francese e britannico. Gli Stati Uniti proteggono militarmente l’UE e non viceversa. Non è realistico pensare che il punto di vista della UE conti di più entro la NATO senza anche pensare a ricalibrare questo rapporto di dipendenza militare dagli Stati Uniti.

 

4) Il punto di vista dell’Italia.  Il nostro è un Paese travagliato dai dilemmi originantisi all’incrocio tra da un lato la sua collocazione geopolitica, ma anche culturale, in Europa e nella NATO e, dall’altro lato, tre sue peculiari forze culturali, riaffiorate nella sfera pubblica con particolare energia a partire dall’inizio dell’invasione, e che generano diffuso disagio nei confronti di questa collocazione.

La prima di queste forze culturali è un pacifismo ambiguo che, sull’onda di una lettura dimidiata dell’Articolo 11 della Costituzione, assume la postura del “ripudiare la guerra” senza assumere le conseguenze di tale ripudio. Si è sempre trattato di un pacifismo che non arriva al neutralismo di un paese come la Svizzera, fuori dalle due guerre mondiali, e soprattutto non presenta la coerenza del rifiuto gandhiano di qualsiasi violenza, ivi inclusa quella esercitata in propria difesa. Il pacifismo “all’italiana” – imbracciare le armi solo e unicamente in difesa del proprio paese quando questo sia sotto attacco – non è un pacifismo: è di fatto una teoria iper-restrittiva (e inconsistente) della guerra giusta. È una postura retorica non in grado di misurarsi con ben più sofisticate e trasparenti teorie della guerra giusta, che tengano conto della globalizzazione e del fatto ovvio che attendere che la guerra bussi alle porte di casa propria per rispolverare i fucili significa perderla in partenza.

La seconda forza culturale è il profondo antiamericanismo radicato in settori precedentemente ideologizzati della sinistra e della destra. Non si è per Putin, si è contro l’imperialismo americano e dunque si è indulgenti contro chi lo colpisce e lo sfida. Gli adepti di questa corrente culturale interpretano come dominio la protezione NATO che è il presupposto della loro “indipendenza di pensiero”, nutrono le loro interpretazioni con cliché inossidabili quali l’ingenuo ottimismo americano (a fronte di 50 anni di incrollabile fede tedesca nella redenzione commerciale del violento vicino) o la moralizzazione della politica estera, e soprattutto glissano sulla differenza fra democrazia e non-democrazia, fedeli alla vecchia intuizione “elitista” (tutta italiana, da Mosca, Pareto e Michels) per cui quella differenza è illusoria, in ogni caso trattandosi sempre, in ogni ordinamento politico, di minoranze organizzate che trovano il modo di piegare ai propri interessi masse disorganizzate di sudditi o elettori.

La terza forza culturale è un “indifferentismo”, o “doppiogiochismo”, che in ogni conflitto cerca di minimizzare le conseguenze evitando il più possibile di schierarsi, e alienarsi dunque necessariamente uno dei contendenti. È il frutto di un’ottica servile: al nord con Arlecchino “servo di due padroni”, al sud con Pulcinella, al centro con il famoso detto “Francia o Spagna purché se magna”, la prospettiva assunta dal sentire comune non è quella di un attore che co-determina, di concerto con altri, secondo il suo peso, un indirizzo politico comune a una parte, a un’alleanza. È la prospettiva di un servo che vede litigare due signori, sa per intuito che il primo ad “andarci di mezzo” sarà lui, e cerca di minimizzare il danno ingraziandosi entrambe le parti e attendendo di salire sul carro del vincitore. È la prospettiva di un battitore libero che “fa parte per se stesso” e si chiama fuori dalla contesa. “Né-né” è la sua litania, né con l’uno né con l’altro è il suo motto, nella speranza di schivare ogni svantaggio del prendere posizione. Si sfiora il ridicolo quando non ci si accorge che il podio da cui viene pronunciato il né-né non sta sulla luna, ma comodamente poggiato su una delle due alternative rigettate, rispetto a cui il terzaforzista è un free-rider: né con lo Stato né con le BR, come se questa posizione non fosse articolata dalla comoda internità a uno Stato; né con la NATO né con Putin, come se questa posizione non fosse articolata da dentro un contesto. Questo indifferentismo tutto italiano ha un suo schema di gioco in tre mosse. Primo, affermare che anche la vittima o la parte nobile nella contesa ha le sue colpe, che il torto non è mai tutto da una parte, e portare i riflettori su quelle magagne, essendo quelle dell’altra parte “ben note”. Secondo, insistere in questa strategia fino al punto che sia giustificabile affermare che “questo o quello per me pari sono”. Terzo, chiamarsi fuori dagli impegni che la propria collocazione in un contesto impone di onorare.

Queste tre forze erompono con virulenza sulla scena mediatica, e la profondità cui giungono le loro radici si traduce in ascolti e share contesi dai gladiatori dei talk-show, maschere mediatiche da commedia dell’arte, frutto di secoli di dominio straniero ad opera di potenze esterne fra loro in contrasto, secoli di elitismo, di “scagli la prima pietra” e “siamo tutti peccatori”. Queste tre forze non sono in grado di costruire, solo di indebolire. Non vi è energia coerente e capacità di costruire un profilo veramente autonomo come la Svizzera neutrale, come la Jugoslavia di Tito, fra i capifila dei “non-allineati”. In questo inconcludente rumore politico, la “affidabilità percepita” del Paese, come leale cooperatore di una strategia decisa in comune secondo il proprio peso, ricade verso quella soglia minimale che l’ha accompagnata nella sua storia recente.

Tocca alle forze più riflessive di questo Paese, come sempre, provare a estricarlo dal pantano in cui le sue forze più spontanee provano a ricacciarlo.

 

Alessandro Ferrara è Professore di filosofia politica all’Università di Roma Tor Vergata, e insegna Legal Theory all’Università Luiss Guido Carli di Roma. 

 

Foto: Il presidente russo Vladimir Putin assiste alla parata militare sulla Piazza Rossa di Mosca – 9 maggio 2022 (Sputnik / AFP).

  1. Non posso che condividere convintamente l’analisi degli eventi, del tutto evidentemente qualcuno scriverà che è soltanto la versione del mainstream, accade quando fa confusione tra aggredito ed aggressore

  2. Analisi lucidissima, completa e assolutamente condivisibile della vicenda storica costituita dalla aggressione militare della Russia all’Ucraina

  3. Condivido in pieno. I quattro punti di vista sono essenziali per una riflessione completa che non si presta ad alcuna semplificazione. Una vera lezione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *