Il ritiro americano, le democrazie fragili e quel che manca alla Cina

Il testo di questo intervento, raccolto da Reset e rivisto dall’autore, fa seguito alle riflessioni scaturite dall’ultima edizione dei Seminari di Venezia, conclusisi con la tavola rotonda tra Giuliano Amato, Lisa Anderson e Michael Walzer sui mutamenti dello scenario internazionale dopo la pandemia.

 

Oggi vediamo davanti a noi la prospettiva di una possibile leadership cinese nel mondo in luogo di quella degli Stati Uniti dei trascorsi decenni. La vediamo soprattutto perché l’economia cinese sta crescendo e potrà diventare tra non molto, permettendolo gli esiti del Covid, la prima tra le economie mondiali. La Cina inoltre sta anche costruendo una sua forza militare. Lo storico Paul Kennedy ci dice che nella imminente, nuova edizione del suo libro più famoso farà riferimento alla forza navale di cui la Cina si sta dotando, memore del fatto che l’egemonia britannica dei secoli precedenti e la stessa egemonia americana erano tali anche sui mari.

Personalmente però non sono convinto che questo basti. Essere i primi in uno o più campi non significa necessariamente essere i leaders. La leadership americana si è certo avvalsa del primato economico e militare – e tuttora gli Stati Uniti hanno la forza militare maggiore del mondo – ma per guidare il mondo devi essere in condizioni di guidarlo verso qualcosa. Ora è innegabile che con tutte le loro contraddizioni gli Stati Uniti sono stati il paese che ha incarnato la libertà contro il contrario della medesima, prima nei confronti del nazismo, diventando il fattore decisivo per la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale, e poi contro il comunismo. Sono più che consapevole che c’è un dark side dell’egemonia americana, che non coincide affatto con il sogno americano, dalla manu militari con cui si è cercato di esportare la democrazia, ai colpi di Stato reazionari, come in Cile, sostenuti e forse resi possibili dagli Stati Uniti pur di combattere il rischio comunista. In nome della libertà, la libertà la si è negata più volte. Tuttavia per decenni gli Stati Uniti hanno affiancato a questo lato oscuro un sovrappiù grazie al quale hanno rappresentato una guida per il mondo.

Quel che è certo è che oggi questo sovrappiù è scomparso. Gli Stati Uniti sono venuti  rinunciando ad occuparsi degli altri affinché i loro ideali migliori vincessero, hanno preso ad occuparsi sempre più di se stessi e, se pensiamo all’attuale amministrazione, vediamo che essa – come ha scritto Richard Haass – pratica la “dottrina del ritiro” : non c’è  infatti organismo internazionale da cui, in un modo o in altro, Washington non si allontani, allontanandosi così dalla possibile elaborazione delle politiche comuni. È una leadership al momento svanita e non sappiamo se mai riprenderà. Ma è proprio sotto questo profilo che la Cina manca visibilmente di quel qualcosa in più, oltre alla forza economica e militare, per essere il nuovo leader. E a questa riserva potremmo aggiungere le domande sullo scenario futuro interno, su che cosa sarebbe la Cina se venisse meno il Partito comunista che la guida, su quale esplosione di minoranze etniche e religiose e quant’altro potrebbe finire per caratterizzare il paese; al di là delle domande sui rischi che la pandemia presenta per la stessa forza globale della sua economia.

La conclusione che al momento tendo a condividere è perciò quella di un mondo segnato da forti conflittualità, che magari sapremo contenere, senza tuttavia poterci avvalere di una leadership solidamente affermata. I nuovi equilibri sono dunque piuttosto dei nuovi squilibri, segnati anche dalle difficoltà che non solo gli Stati Uniti, ma l’Europa e l’intero Occidente stanno attraversando. Sono difficoltà che investono la fisionomia stessa di questi paesi, in quanto espressioni storiche della democrazia liberale. Essi infatti stanno ancora scontando le conseguenze della lunga crisi economico finanziaria iniziata nel 2008, che ha fortemente innalzato le diseguaglianze interne, creando tensioni dovute alla perdita non solo di reddito ma anche di prospettive future a danno di molti e molti degli appartenenti ai ceti medio bassi delle nostre società. È accaduto così che sia andato in pezzi il compromesso socialdemocratico su cui la seconda parte del ventesimo secolo aveva costruito la stabilità e l’equilibrio e quindi la forza della democrazia liberale. La domanda infatti che ci si pone in questi paesi, dopo la crisi del 2008-2012, è se sono ancora ripetibili le condizioni che permisero quel compromesso nel secolo scorso e che cosa accadrebbe, ove non lo fossero.

Di sicuro non c’è più un’America capace di rimettere in campo un piano Marshall, non si vedono prospettive di sviluppo paragonabili a quelle dei “gloriosi trent’anni” del secondo dopoguerra, né ci sono più partiti socialdemocratici nei paesi dell’Occidente europeo, fortemente radicati nei ceti medio bassi e così legittimati a raggiungere con successo i risultati che portarono allora allo stato sociale e a una maggiore eguaglianza. Ora prevale la protesta e la protesta si indirizza non soltanto contro le diseguaglianze in sé ma anche contro tutte le élite precedenti che non hanno impedito che si arrivasse alla situazione attuale. Il tessuto politico oltreché sociale dei nostri paesi si sta modificando e prendono piede partiti populisti, contrari a tutto ciò che viene da fuori, con una forte propensione per la democrazia illiberale come la chiamò Fareed Zakaria e come oggi la teorizza e pratica Viktor Orbán in Ungheria.

Questo stato di cose non è da drammatizzare come se tutto fosse perduto per sempre, perché se l’economia riuscisse a ridare prospettive, se non uguali, simili a quelle che permisero il compromesso socialdemocratico nel ventesimo secolo, molta erba sarebbe tagliata sotto i piedi dei fautori della democrazia illiberale. E devo dire che impressiona come dopo la crisi del 2008-2012 non soltanto qualche predicatore solitario, ma anche amministratori delegati delle maggiori società americane abbiano perorato il principio del benessere multidimensionale come stella polare che deve sostituire nella vita delle imprese l’esclusivo interesse dell’azionista: l’impresa deve rimettersi al servizio della società anziché portare come ha fatto la società al proprio servizio. Tempo fa si poteva pensare che le dicesse solo il Papa queste cose, oggi sono in tanti a dirle. E poi c’è una questione che sta per diventare una questione di vita o di morte che è quella ambientale. Greta sta antipatica a molti ma Greta ha assolutamente ragione e non a caso una ragazzina svedese è riuscita a portarsi dietro migliaia e migliaia di giovani in tantissimi paesi del mondo. Perché ha posto un problema, che bisogna far presto a risolvere, per fare in modo che l’economia anziché distruggere il pianeta concorra a rimetterlo a posto e si avvalga di risorse energetiche come di altre risorse e produzioni che non danneggiano ulteriormente la nostra possibilità di vita su questo piccolo e ormai surriscaldato pianeta.

Tanto gli operatori economici quanto gli operatori politici devono intraprendere un lavoro complicato e difficile. Può la Cina trovare in questo lavoro il bandolo della matassa che le impedisce ad oggi di essere vista come leader? La Cina sta cambiando e si sta mostrando sempre più ambientalista e il suo regime autoritario, se vuole, offre decisioni rapide. Ma basterà questo a farlo apparire migliore dei regimi democratici solo perché può essere più rapido nelle decisioni?

La vicenda del Covid ha dimostrato che quel regime può essere più rapido nelle decisioni se decide di prenderle rapidamente. Ma se non decide di prenderle rapidamente può provocare danni irreparabili, senza che nessuna voce libera possa costringerlo ad evitare o almeno ridurre il ritardo.

Insomma io ritengo che ci sia un margine per recuperare la forza delle democrazie liberali, la loro capacità di creare coesione sociale grazie ad una scala sociale che torni ad essere una scala mobile e grazie a politiche che realizzino l’interesse dei più e non soltanto l’interesse di pochi. Certo so qual è il risvolto negativo di ciò che dico: è possibile che la democrazia sia in fin dei conti un regime che funziona nei tempi delle vacche grasse ma che non funziona nei tempi delle vacche magre? Non abbiamo una risposta univoca da dare a questo dubbio, ma sappiamo per certo che la vicenda che stiamo ancora attraversando dimostra che in tempi di vacche magre le malattie che la democrazia produce dal proprio stesso interno la indeboliscono, anche se la storia non ha ancora dimostrato (non basta da solo l’esempio di Weimar) che la distruggano.

L’interrogativo è comunque legittimo, così come lo è quello sulla idoneità dei regimi autoritari ad agire in modo più efficace e rapido rispetto ai sistemi democratici, spesso paralizzati ed esposti a forze contrastanti in cerca del voto. In questo dubbio, e con davanti una questione dirimente come quella ambientale, il tema di una egemonia, una vera e propria leadership cinese non può essere escluso, con tutti i cambiamenti che potrebbero venirne nelle relazioni internazionali. Sarebbe disonesto farlo, anche se sarebbe non meno disonesto considerare questo un esito scontato.

Gli effetti del lockdown e dell’epidemia sono, in vista di tutto ciò, un libro davvero totalmente aperto. Da una parte, le economie messe quasi a terra dalla lunga sosta potrebbero dar luogo a un’esplosione di insoddisfazione e di rabbia ancora maggiore di quella che ha dato la prima spinta ai partiti populisti, con una ricaduta ancora più pesante sulla stabilità delle democrazie liberali. Dall’altra parte, però, può anche accadere che la curva discendente delle economie non raggiunga quel punto e che le straordinarie misure che le stesse democrazie liberali questa volta hanno saputo prendere a tutela anche degli ultimi, riescano ad evitare l’esplosione. E se poi l’economia riprenderà a ritmi che siano pari a quelli della discesa, allora può essere che questa spinta rimetta in cammino le nostre società.

Infine non dobbiamo assolutizzare l’America di Trump. Ho sempre ritenuto superficiale assolutizzare il presente senza cogliere le prospettive di cambiamento che nella storia ci sono sempre. So benissimo che il cambio nel ruolo americano nel mondo cominciò già con Obama. So benissimo che il grande discorso del Cairo di Obama già conteneva in sé un parziale ritiro degli Stati Uniti, anche se era un ritiro che non puntava contro il multilateralismo, ma contava anzi su di esso e sull’impegno di altri a fare la propria parte nel contesto di una leadership corale, che veniva invocata e che forse è tuttora la più rispondente alle prospettive future. Certo, non sarà Obama il futuro presidente degli Stati Uniti, ma potrà essere comunque qualcuno diverso da Trump. Anche questo va tenuto presente, per non concludere il nostro editoriale di oggi con l’interrogativo più inquietante quale unico spunto che ne rimane nella testa del lettore.

  1. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: questa disuguaglianza non aaccenna a diminuire , anzi è in aumento. Questo mi pare che renda difficile ogni ottimismo. A cò si aggiunge il crescente divario culturale tra elites e “popoli”.

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